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POESIA DI MARIO RIDOLFI

Mostre all’Accademia di San Luca e alla Calcografia Nazionale

POESIA DI MARIO RIDOLFI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 3.10.2005

Mario Ridolfi amava appassionatamente l’architettura e la identificava con la vita. Sapeva che poteva essere compresa e consumata, ma che, inevitabilmente sfuggiva ad ogni tentativo di ingabbiarla, ad ogni teoria generale.
Forse per questo la sua opera sembra dirci che, dell’immensa complessità del mondo costruito, il lavoro d’ogni architetto è una trascurabile monade, ma anche che  ogni edificio può racchiudere, di questa complessità, l’essenziale. La comprensione di principi formativi condivise, ad esewmpio, e la poesia della loro interpretazione.
Sembra dimostrarlo la  mostra curata da Enrico Valeriani (organizzata dall’Accademia di S. Luca, dalla DARC, dall’Istituto Nazionale per la Grafica) che indica come, già nel ’29, il progetto di laurea di Ridolfi per una colonia Marina a Castel Fusano, col suo delicato rigore, annunciasse il carattere della ricerca futura: non lo stile “classico modernizzato”, com’è stato detto, ma l’adesione concreta ad un processo di semplificazione delle forme, una modernità “incontrata” più che ricercata, che diviene linguaggio e si distilla, poi, in poetica  personalissima, eppure perfettamente aderente al panorama romano.
Le sue poste di piazza Bologna terminate nel ’35, rifuggendo  dall’ostentata durezza di tante opere contemporanee, piegavano il tema della parete muraria, continua e massiva, in un’onda di travertino che carezza delicatamente lo spazio della città e il fiume della vita che vi fluisce.
Finita la guerra, quando altri architetti distruggevano i progetti eseguiti nel ventennio, Ridolfi recuperava lo smisurato patrimonio dei propri disegni pazientemente accumulato. Nasceva, da qui, il nocciolo di quel Manuale dell’architetto che sembrava la naturale traduzione di un sapere tecnico artigianale nella lingua della produzione industriale, nel mondo della Ricostruzione. In quegli anni, in stretto sodalizio con Wolfgang Frankl, costruiva molto: palazzine, scuole, villini. Edifici modernissimi, in calcestruzzo armato, che, pure, sembravano stare lì da sempre. A Roma, ad Ivrea, in Puglia, soprattutto a Terni, dove nel ’66 si era costruita una strana casa a forma di stella con dieci punte, Casa Lina. Una costruzione a pianta centrale come una chiesa, dal disegno apparentemente ingenuo, tracciato, come ha scritto Franco Purini  “come se si stesse imparando per la prima volta a progettare”. Questa costruzione, che a me sembrava inabitabile ma che Ridolfi abitò per il resto della vita, divenne progressivamente il suo eremo e, insieme, luogo mitico di pellegrinaggio per un’intera generazione di architetti. Quando lo andavo a trovare, con una bottiglia di vino buono,  parlava per ore di come intorno ad un particolare costruttivo si avvolgesse e ruotasse l’intera complessità del progetto, di come questa complessità si potesse sciogliere nel modo più diretto, seguendo lo spirito dei materiali, come sa ogni artigiano che conosce il proprio mestiere, nella forma più evidente, necessaria, felice. Parlava, rapito, della bellezza e del calore della “sua” pietra sponga, materiale ridolfiano d’elezione, poroso, tormentato da cavità che sembrano assorbire e restituire, trasformata, la luce del sole. Io che lo ascoltavo, vedevo nei suoi disegni, palinsesti resi criptici da strati di pentimenti e cancellature, la profezia di una nuova architettura.
In un periodo in bilico tra spettacolari rotture, dilagare dell’International Style, esaltazione della creatività individuale, Ridolfi sembrava aver intuito la necessità e la poesia del limite: come la lotta contro ogni regola si sarebbe tradotta in qualunquismo, nella perdita d’ogni valore, compresa la custodia di un sapere tecnico, di un’arte del costruire in pietra e mattoni che era stata, per secoli, il fondamento, materiale e concreto, del carattere delle nostre città. Perché l’opera di Ridolfi del dopoguerra, spesso identificata col clima del neorealismo, non può essere compresa che all’interno della grande battaglia culturale che la sinistra italiana condusse in difesa dei centri storici. Una battaglia che oggi si direbbe rimossa, ma che era, allora, anche una proposta di continuità, di comprensione profonda del carattere organico della nostra cultura edilizia e delle condizioni di crisi introdotte dai nuovi sistemi di produzione cui Ridolfi dava risposte aggiornate, originali nel senso letterale del termine, come ritorno all’origine dei problemi e delle cose. Ponendo domande elementari, primarie, Ridolfi sembrava indicare anche una strada, divenire il volano di trasmissione di una cultura che si andava perdendo, in questo simile al bambino che, nell’Andrej Rublev di Tarkovsky, ultimo depositario di una tecnica perduta e quindi nuovissima, era ancora capace di trasmettere ai propri concittadini l’arte di costruire una nuova campana, segno della vita civile che riprende e continua.

Mario Ridolfi architetto
Palazzo Carpegna-Accademia di San Luca
Palazzo della Calcografia – Istituto Nazionale per la Grafica.
4 ottobre – 7 dicembre 2005
tel. 06 6798848

OPERE ROMANE DI MARIO RIDOLFI

Ufficio postale di piazza Bologna (1932-35)
Palazzina in viale di Villa Massimo, 39 (1934-36)
Palazzina in via San Valentino, 21 (1936)
Sopraelevazione del villino Alatri in via Paisiello,38 (1948-49)
Palazzina in via G.B. De Rossi,12 (1950-51)
Palazzina in via Marco Polo,96 (1951-52)
Abitazioni INA Casa al Quartiere Tiburtino in via Crispolti (con L. Quaroni ed altri)
Palazzina in via Lusitania,29 (1953)
Case in linea tra viale Etiopia, via Tripolitania, via Adua (1949-54 e 1957-60)
Sopraelevazione del villino Astaldi in via N. Porpora (1954-55)
Palazzina in via Vulci,9 (1959-60)

SALVARE VIA DEI FORI IMPERIALI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 15.11.2003

Alcuni articoli comparsi di recente su queste pagine ripropongono il problema della sistemazione dell’area archeologica romana dando come scontata la demolizione di via dei Fori Imperiali. Operazione che, peraltro, si va ormai imponendo in modo strisciante attraverso continui scavi che finiranno per dimostrare, immancabilmente, la “necessità scientifica” della distruzione.

Occorre invece, ritengo, riflettere sulla questione nei suoi termini più generali superando ideologie e schieramenti. Cesare Brandi lo fece con grande coraggio civile in un articolo dell’87 sul Corriere della Sera nel quale affermava limpidamente che la città non tollera una zona di demolizioni nel suo centro vitale e che non basta dire che via dell’Impero fu un misfatto fascista, ricordando che “la caratteristica fondamentale di Roma è d’essere una città prospettica impiantata come una città ideale del Rinascimento”.

Quell’articolo impeccabile andrebbe ripubblicato integralmente perché, dopo vent’anni, il problema non è sostanzialmente cambiato. Anzi, si è radicalizzato per la singolare pretesa dell’archeologia di possedere una propria oggettività scientifica, quasi che lo scavo non fosse una trasformazione di spazi, segni, funzioni della città, come dimostrano i crateri da città bombardata attorno alla Basilica di Massenzio, nei quali le rovine messe a nudo si offrono ad una contemplazione vagamente necrofila.

Il carattere profondo di Roma risiede, invece, nell’immanenza nascosta dell’antichità, nel racconto delle origini mescolato agli sviluppi della città rinascimentale, barocca, moderna. Un sedimento collettivo e unificante che si trasmette alla vita quotidiana della città in forma antididascalica, attraverso stratificazioni spesso misteriose che continuano a far vivere, segretamente nascosto, il pathos dello spazio primitivo. Accadeva anche, ad esempio, nei SS. Cosma e Damiano prima che fosse “liberata”, negli ultimi anni, l’aula circolare del “Tempio di Romolo”.

Un malinteso ruolo dell’archeologia sembra oggi voler comunicare, del messaggio dell’antico, una versione asettica e semplificata. Via dei Fori Imperiali diviene, così, solo un intralcio ai lavori di scavo, dimenticando che quell’asse conclude un processo formativo iniziato, almeno, a partire dal piano regolatore del 1873 il quale, di fatto, già prevedeva il collegamento tra piazza Venezia e l’area del Colosseo. Processo poi confermato dal piano Sacconi del 1897 e continuato con le demolizioni previste dai piani di Koch (1907) e Sanjust (1909). Un’eredità ormai storicizzata, dunque, che è costata la perdita dolorosa di preziosi tessuti urbani, ma che oggi non può essere negata in nome di una riesumata retorica della liberazione dell’antico.

Per questo il grande spazio rivolto verso il Colosseo deve essere salvato dalla furia del nuovo “piccone liberatore”: per permettere ai romani di riappropriarsene trasformandolo, magari, in un luogo per spettacoli, manifestazioni, riti civili. Uno straordinario foro moderno capace di tramandare il monito e la nobiltà dei fori antichi sui quali è fondato.

LA LEZIONE DELL’ARA PACIS

di GIUSEPPE STRAPPA
in «Corriere della Sera» del  4.11.2001

Posto nei termini di conservazione o innovazione il problema dei nuovi interventi per Roma, come quello dell’Ara Pacis, risulta insolubile. Se non c’è dubbio, infatti, che la città si vada inevitabilmente trasformando secondo un processo fisiologico inarrestabile, è anche vero che l’ammirazione acritica per le nuove architetture mitteleuropee, per le decostruzioni, per l’ high-tech con cui gli innovatori hanno identificato la modernità (si veda l’esito dei recenti concorsi di progettazione) non possono che propiziare nuovi guasti. Forse bisognerebbe riflettere sul fatto che le rivoluzioni introdotte dai pionieri, consolidate nel tempo come carattere «autentico» del moderno e perno dell’architettura universale, sono in realtà l’esito specifico di un processo che da secoli opera nelle aree egemoni del nordeuropa. Di contro, la cultura legata alla continuità, alla consuetudine costruttiva plastica e muraria, ha sviluppato a Roma un’architettura moderna dove tutto è legato da una stessa nozione di organicità, dove spazio, distribuzione, struttura, obbediscono ad una stessa legge formativa. Un’architettura forse difficilmente apprezzabile da palati assuefatti agli scintillanti exploit alla Frank Gehry, ma che ha dimostrato, attraverso opere straordinarie, come la nozione di durata dell’architettura sia un patrimonio alternativo al mito, in declino, della macchina e a quello, emergente, dell’informatizzazione. Quando pensiamo una nuova architettura per Roma dovremmo forse giudicarla secondo la sua condizione di futura rovina, della quale quella presente non è che uno stato di provvisorio passaggio, una transizione. Basterebbe allora paragonare l’immagine di miserevole disfacimento suscitata dai molti capolavori della modernità ufficiale caduti in rovina, con la nobiltà che collassi statici e perdita di funzione hanno attribuito agli edifici antichi, per capire come l’ideologia del moderno internazionale, esaltando l’idea di obsolescenza, demolizione, sostituzione, risulti estranea al carattere dell’architettura romana.
Ma a Roma, almeno nella sua parte consolidata, il rapporto solidale e necessario tra l’organismo urbano e gli elementi che lo compongono lega i resti dell’eredità antica alle fondazioni della città barocca, i tracciati medievali alle costruzioni di età umbertina. La grande civiltà degli spazi pubblici romani è, soprattutto, il risultato di una secolare arte di costruire la città legata alla cultura condivisa del generale e del comune contro l’accidentale e il frammentario. Qui il problema della forma di uno spazio pubblico non può che modernamente porsi nel processo di trasformazioni che hanno costruito lo spazio attuale modificando la materia portata a riva dalla storia.
Posta in questi termini, anche la polemica sulla sistemazione dell’Ara Pacis potrebbe avere un respiro diverso: se i fotomontaggi di Meier mostrano con chiarezza la estraneità del nuovo museo al carattere del luogo, il vuoto che ormai le demolizioni hanno generato a ridosso del lungotevere si offre alla riflessione sul carattere della Roma futura, propiziando la formazione di un grande spazio urbano che leghi organicamente l’area sul fronte di San Rocco e San Girolamo (l’antico Porto di Ripetta), il Mausoleo di Augusto, l’asse di via di Ripetta. Le generose energie profuse nei progetti sarebbero state utilmente impiegate, almeno, per porre un problema di vasta portata.

LE POLEMICHE PER PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 04.08.2006

Dopo i problemi sollevati dalla distruzione del complesso dell’Ara Pacis, la proposta di demolire gli edifici “brutti” costruiti da Vittorio Ballio Morpurgo intorno al Mausoleo di Augusto potrebbe essere considerata una bizzarra esercitazione accademica se non fosse avanzata da due autorità dell’urbanistica e dell’archeologia romane con serie possibilità, quindi, di concreto seguito.
Certo, nel clima delle rivalutazioni, spesso indiscriminate, che hanno investito il dibattito romano degli ultimi vent’anni, la figura di Morpurgo ha la colpa di non essere stata oggetto di alcuna riscoperta, ultimo esempio di architetto dannato dagli errori della retorica fascista.
Ma non è possibile evitare di domandarsi cosa si ricostruirà sulle rovine degli edifici eretti alla fine degli anni ’30 a conclusione di studi che si erano estesi, almeno, dal piano del 1909 a quello del 1931. Un nuovo spazio aperto che lascerà in vista i disomogenei prospetti di via della Frezza, fuori scala, peraltro, rispetto all’immenso vuoto della nuova piazza? Oppure un’architettura di lacerazioni, alla Zaha Hadid, magari avallata da una commissione di concorso formata dai soliti esperti che guardano con ansia ritardataria alle mode internazionali?
Scenari che consigliano di riconsiderare meglio gli edifici esistenti, dimenticando i pregiudizi di una critica frettolosa: come se si osservassero per la prima volta (“il mondo comune osservato in modo non comune” come consigliava De Chirico). Forse, allora, si scoprirebbe il fascino severo che i vasti colonnati dalle ombre nette contengono, l’attenzione per le trasparenze e i raccordi con le strade sul perimetro, dei quali quello con largo dei Lombardi ha la forza autentica di una visione piranesiana. Una rilettura “del tipo medio delle case-palazzo che caratterizza le strade tradizionali”, come scriveva Morpurgo in una dimenticata relazione al progetto, che irrigidisce il mutevole mosaico dell’edilizia romana nella fissa, metafisica unità, depurata di ogni pulsione, delle superfici in travertino.
E poiché nessuno, oggi, avrebbe l’inattuale coraggio di costruire una simile quinta plastica e muraria, piena e pesante come nella consuetudine romana, mi permetto di consigliare di tenerci quella che abbiamo.
Ma una seconda domanda è inevitabile. L’intervento di demolizione e ricostruzione costerebbe centinaia di milioni, comporterebbe un gigantesco cantiere aperto nel cuore di Roma per molti anni. Perché?
Sia chiaro: l’atto della demolizione è parte legittima della storia di ogni città, il riconoscimento di una ferita grave alla sua forma per il cui risarcimento vale la pena di investire risorse. Ma, proprio per questo, non può che derivare da valori condivisi. C’è da chiedersi allora se, nella scala degli errori romani, non debbano avere la precedenza disastri reali, come il viadotto dello Scalo San Lorenzo, i “ponti” del Laurentino 38, qualcuno dei vergognosi formicai per abitazione costruiti negli anni ’70. E prima ancora i tanti abusi edilizi che hanno sfigurato la forma della città, molti dei quali in pieno centro storico.

LA CHIUSURA DEL SAN GIACOMO E LA VIA ROMANA ALLA CITTÀ CONTEMPORANEA

di Giuseppe Strappa

in “Corriere della Sera” del 10.11.2008

Il naufragio dell’ospedale San Giacomo in via del Corso a Roma, chiuso senza un progetto, sembra annunciare anni di pericoloso abbandono.
Italia Nostra ha tentato, per ora con successo, di prevenirne la vendita ai privati reclamandone il mantenimento ad ospedale. Ma forse non basta. L’antica struttura pone problemi di tutela del patrimonio storico per la quale può essere sbagliato conservare in modo intransigente la funzione originale. Lo  dimostrano, per dare un’idea, i tanti vecchi cinema romani sfigurati dalle trasformazioni in multisala.
Un ospedale poi, per l’edilizia storica, può rivelarsi una macchina spietata e distruttrice come testimoniano le attuali, pietose condizioni del San Giacomo, sfigurato da impianti e superfetazioni.
Ne dovrebbero tener conto le vaghe proposte che, in questi giorni, evocano esempi parigini mitizzati dal nostro consueto, disinvolto provincialismo.
Il celebrato Hotel-Dieu, con i suoi cortili trasformati in blocchi operatori, le grandi sale tagliate da solai dietro le facciate ottocentesche, è, in realtà, un falso, un modello ipocrita di conservazione.
Per non parlare del caso dell’Hôpital Laennec, venduto alla società Cogedim per essere trasformato in servizi privati e alloggi di lusso con la giustificazione di alcune strutture per uso sociale. E allora, cosa fare?
Credo che il caso del San Giacomo dovrebbe essere trasformato, da querelle conservatrice, in occasione per sperimentare un’originale “via romana” alla città contemporanea. Un laboratorio d’architettura dove, nel pieno spirito del testamento del cardinale Salviati e conservando le strutture a servizio del quartiere (come il prezioso centro di dialisi), dovrebbero essere immaginati nuovi spazi pubblici per l’ospitalità, nuove forme d’accoglienza compatibili con le antiche strutture.
Liberando e restaurando le parti storiche, trasformando il labirinto di infinite addizioni stratificatesi nel tempo in un organismo architettonico degno di una grande capitale, si dimostrerebbe, contro i tanti stereotipi di moda proposti per Roma, come la modernità non si “immette”, come un’iniezione, nel tessuto storico, ma è il risultato di un processo di trasformazioni: necessarie, proporzionate, congruenti.