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LA BELLA METROPOLI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 09.12.2006

L’architetto ha creduto, per secoli, che il mondo esistesse per essere ordinato attraverso la bellezza, pur sapendo che quest’ordine è illusorio, un fragile stato di transizione.
Ma da almeno mezzo secolo gli architetti indagano la qualità estetica delle cose che hanno perso equilibrio e proporzione. Dal Robert Venturi del caos di Las Vegas, al Rem Koolhaas della New York dei deliranti disastri nasce l’epica metropolitana del moderno nomade eternamente in viaggio tra universi frammentati. La quale ha contribuito, bisogna pur dirlo, all’abbandono di quelle ricerche sull’abitazione che hanno costituito, da Morris a Le Corbusier, l’origine e il sale dell’architettura moderna.
Oggi, persa la carica provocatoria, questo pensiero sperimentale si è trasformato in genere letterario frequentatissimo e vagamente lugubre dove il termine “bellezza” viene ormai rimosso, schivato dagli intellettuali.
Tanto che esso, associato al tema della metropoli, genera un singolare cortocircuito. E’ quello che è accaduto nel recente convegno al Palazzo dei Congressi (Corriere del 24 e 25 scorso) che, con il titolo “La bellezza dove non c’è”, poneva il problema della rigenerazione delle periferie romane, dell’hinterland verso il mare che l’EUR spa si propone di rinnovare.
Se l’aver dimenticato il ruolo della bellezza e del giudizio sintetico che essa contiene sembra averci privato di uno dei grandi strumenti di orientamento nel caos del mondo, le schegge delle borgate romane che scorrono dietro i finestrini di un’auto sembrano ancora indicare, senza bisogno di dimostrazioni, che il bello è altrove.
In realtà la città, anche quella del passato, è sempre stata un mondo di frammenti e i centri storici che abbiamo ereditato sono stati anche, e per lungo tempo, luoghi invivibili.
Ma l’uomo del medioevo vedeva nella polvere e nei blocchi di pietra che affollavano le piazze la forma della città ventura. E gli architetti del Quattrocento disegnavano la Roma antica non per quello che era, ma per quello che avrebbero voluto che fosse. Questo desiderio struggente era il vero progetto di futuro.
Forse anche noi, liberandoci dalle incrostazioni delle teorie (ma anche dalle nostalgie per il passato), dovremmo provare a guardare alla catastrofe, alle rovine della speculazione edilizia romana con occhi nuovi. Accettare il mutamento delle cose sapendo che si potranno ancora ricomporre in nuova bellezza. O, almeno, desiderarlo.

LE CITTA’ NELLA CITTA’

CONVEGNO INTERNAZIONALE ALL’EUR

in «Corriere della Sera» del 22.10.2006

di Giuseppe Strappa

Nella metropoli della densificazione e della babele dei linguaggi, che, in America come in Cina, esplode e si disperde in frammenti, il virtuale sembra sostituire la realtà e l’immateriale la fisicità dei paesaggi urbani.
La stessa nozione di città, intesa come spazio dove l’uomo non solo vive e lavora, ma s’identifica con i luoghi deputati alla vita civile, sembra sgretolarsi.

Paesaggi di reti tendono a separarsi dalle forme reali, dai luoghi fisici: l’immagine mentale  di una metropolitana, della distribuzione commerciale, dei collegamenti autostradali o aeroportuali, è ormai una rappresentazione convenzionale come le icone sul desktop di un computer. E Bill Gates promette l’avvento di un uomo nuovo, telematico, liberato dall’appartenenza al luogo, che può essere “qui e là e in ogni possibile posto”.

Dopo i fiumi d’inchiostro e di bite spesi ad alimentare questa retorica della delocalizzazione e le sue fughe dalla realtà, forse è il momento di chiedersi se non stiamo perdendo i reali termini del problema. Non tanto perché il 50% degli abitanti del nostro pianeta non ha mai fatto una telefonata, ma soprattutto perché abitare e leggere e-mail in un condominio di Calcutta o in un attico di New York non sarà mai la stessa cosa.

E forse l’uomo, soprattutto il nuovo, mitizzato, nomade metropolitano, ha ancora bisogno di appartenenza, degli spazi essenziali dove la vita affonda le sue radici. L’accettazione della città dispersa, combinatoria, costruita per frammenti sembra segnare, peraltro, la rinuncia definitiva a quella carica ideale, ottimista ed utopica, che aveva dato senso all’architettura moderna, finendo per assegnare all’architetto contemporaneo il ruolo, omologato e rassicurante, di autore di spettacoli urbani.

La crisi della metropoli contemporanea, il suo governo, le ideologie che ha generato sarà il tema di un convegno internazionale che si svolgerà il 13 e 14 maggio al Palazzo degli Uffici all’EUR.

Proprio l’immagine dell’EUR, con il richiamo alla concreta fisicità di città moderna-non moderna che la sua architettura contiene, può indicare alcuni argomenti di riflessione: la validità e la durata dell’architettura urbana; i guasti della specializzazione nell’arte di costruire le città di due momenti separati, il piano urbanistico (lo zoning, gli standard), ed il frammento edilizio che, quando raggiunge la qualità della grande architettura, si compiace narcisisticamente del suo isolamento. La crisi del piano e la caduta di significato civile dell’architettura sono, in questo senso, due facce di uno stesso problema.

La fortuna critica e storiografica dell’EUR ha avuto nel tempo alterne vicende. Oggi  è un po’ fuori moda e si torna a parlare dell’arretratezza del suo impianto “ottocentesco”. Ma, se è vero che il suo modello, rigido e marmoreo, è ormai inattuale, il suo impianto ha in realtà fondamenta molto più antiche che riportano all’essenza della città italiana. E proprio questa  è la sua forza: la capacità di trasmettere, se si guarda oltre le tendenze del momento, la dimenticata, fondamentale nozione di tessuto, il legame tra edificio e città, tra  struttura di percorsi ed architettura, tra episodio eccezionale e continuità edilizia. Nozioni che non sono né vecchie né nuove facendo parte del modo dell’uomo di abitare e orientare lo spazio. Averle dimenticate è uno dei disastri della città contemporanea.

Non a caso l’EUR, che pure nel dopoguerra assomigliava ad una città di rovine più che ad un quartiere in costruzione, ha resistito ai disastri del boom edilizio ed è oggi capace di accogliere il plurale e il diverso, il Palazzo della Democrazia Cristiana come la nuvola di Fuksas.

La vicenda dell’EUR, generato dal demone della compiutezza incorruttibile, dove la  storia ha stratificato nel tempo, invece, segni disuguali e contraddittori, c’insegna come governare i processi di trasformazione della città contemporanea significhi anche accettarne, senza presunzioni di totalità, il carattere aperto, la continua dialettica. Ed anche la sua parte arbitraria e ingovernabile, distinguendo l’essenziale della forma urbana, la struttura profonda e riconoscibile, dall’inevitabile arbitrio del casuale, del particolare, dell’individuale. L’Eur sembra mettere in guardia intellettuali e progettisti dalle seduzioni delle profondità astratte, invita a ridiventare chiari e concreti.

Perché la città contemporanea non è solo il mondo dell’accidentale e del fortuito, è anche un testo continuamente riscritto, alla cui vitalità occorre il grande respiro, la chiarezza di una struttura condivisa nella quale riconoscere la lingua colta delle grandi architetture civili e, insieme, il flusso delle mutazioni combinatorie, il contributo dal basso dei tanti singoli edifici, il molteplice e l’eterogeneo del parlato quotidiano che rinnova e dà ricchezza al linguaggio.

POESIA DI MARIO RIDOLFI

Mostre all’Accademia di San Luca e alla Calcografia Nazionale

POESIA DI MARIO RIDOLFI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 3.10.2005

Mario Ridolfi amava appassionatamente l’architettura e la identificava con la vita. Sapeva che poteva essere compresa e consumata, ma che, inevitabilmente sfuggiva ad ogni tentativo di ingabbiarla, ad ogni teoria generale.
Forse per questo la sua opera sembra dirci che, dell’immensa complessità del mondo costruito, il lavoro d’ogni architetto è una trascurabile monade, ma anche che  ogni edificio può racchiudere, di questa complessità, l’essenziale. La comprensione di principi formativi condivise, ad esewmpio, e la poesia della loro interpretazione.
Sembra dimostrarlo la  mostra curata da Enrico Valeriani (organizzata dall’Accademia di S. Luca, dalla DARC, dall’Istituto Nazionale per la Grafica) che indica come, già nel ’29, il progetto di laurea di Ridolfi per una colonia Marina a Castel Fusano, col suo delicato rigore, annunciasse il carattere della ricerca futura: non lo stile “classico modernizzato”, com’è stato detto, ma l’adesione concreta ad un processo di semplificazione delle forme, una modernità “incontrata” più che ricercata, che diviene linguaggio e si distilla, poi, in poetica  personalissima, eppure perfettamente aderente al panorama romano.
Le sue poste di piazza Bologna terminate nel ’35, rifuggendo  dall’ostentata durezza di tante opere contemporanee, piegavano il tema della parete muraria, continua e massiva, in un’onda di travertino che carezza delicatamente lo spazio della città e il fiume della vita che vi fluisce.
Finita la guerra, quando altri architetti distruggevano i progetti eseguiti nel ventennio, Ridolfi recuperava lo smisurato patrimonio dei propri disegni pazientemente accumulato. Nasceva, da qui, il nocciolo di quel Manuale dell’architetto che sembrava la naturale traduzione di un sapere tecnico artigianale nella lingua della produzione industriale, nel mondo della Ricostruzione. In quegli anni, in stretto sodalizio con Wolfgang Frankl, costruiva molto: palazzine, scuole, villini. Edifici modernissimi, in calcestruzzo armato, che, pure, sembravano stare lì da sempre. A Roma, ad Ivrea, in Puglia, soprattutto a Terni, dove nel ’66 si era costruita una strana casa a forma di stella con dieci punte, Casa Lina. Una costruzione a pianta centrale come una chiesa, dal disegno apparentemente ingenuo, tracciato, come ha scritto Franco Purini  “come se si stesse imparando per la prima volta a progettare”. Questa costruzione, che a me sembrava inabitabile ma che Ridolfi abitò per il resto della vita, divenne progressivamente il suo eremo e, insieme, luogo mitico di pellegrinaggio per un’intera generazione di architetti. Quando lo andavo a trovare, con una bottiglia di vino buono,  parlava per ore di come intorno ad un particolare costruttivo si avvolgesse e ruotasse l’intera complessità del progetto, di come questa complessità si potesse sciogliere nel modo più diretto, seguendo lo spirito dei materiali, come sa ogni artigiano che conosce il proprio mestiere, nella forma più evidente, necessaria, felice. Parlava, rapito, della bellezza e del calore della “sua” pietra sponga, materiale ridolfiano d’elezione, poroso, tormentato da cavità che sembrano assorbire e restituire, trasformata, la luce del sole. Io che lo ascoltavo, vedevo nei suoi disegni, palinsesti resi criptici da strati di pentimenti e cancellature, la profezia di una nuova architettura.
In un periodo in bilico tra spettacolari rotture, dilagare dell’International Style, esaltazione della creatività individuale, Ridolfi sembrava aver intuito la necessità e la poesia del limite: come la lotta contro ogni regola si sarebbe tradotta in qualunquismo, nella perdita d’ogni valore, compresa la custodia di un sapere tecnico, di un’arte del costruire in pietra e mattoni che era stata, per secoli, il fondamento, materiale e concreto, del carattere delle nostre città. Perché l’opera di Ridolfi del dopoguerra, spesso identificata col clima del neorealismo, non può essere compresa che all’interno della grande battaglia culturale che la sinistra italiana condusse in difesa dei centri storici. Una battaglia che oggi si direbbe rimossa, ma che era, allora, anche una proposta di continuità, di comprensione profonda del carattere organico della nostra cultura edilizia e delle condizioni di crisi introdotte dai nuovi sistemi di produzione cui Ridolfi dava risposte aggiornate, originali nel senso letterale del termine, come ritorno all’origine dei problemi e delle cose. Ponendo domande elementari, primarie, Ridolfi sembrava indicare anche una strada, divenire il volano di trasmissione di una cultura che si andava perdendo, in questo simile al bambino che, nell’Andrej Rublev di Tarkovsky, ultimo depositario di una tecnica perduta e quindi nuovissima, era ancora capace di trasmettere ai propri concittadini l’arte di costruire una nuova campana, segno della vita civile che riprende e continua.

Mario Ridolfi architetto
Palazzo Carpegna-Accademia di San Luca
Palazzo della Calcografia – Istituto Nazionale per la Grafica.
4 ottobre – 7 dicembre 2005
tel. 06 6798848

OPERE ROMANE DI MARIO RIDOLFI

Ufficio postale di piazza Bologna (1932-35)
Palazzina in viale di Villa Massimo, 39 (1934-36)
Palazzina in via San Valentino, 21 (1936)
Sopraelevazione del villino Alatri in via Paisiello,38 (1948-49)
Palazzina in via G.B. De Rossi,12 (1950-51)
Palazzina in via Marco Polo,96 (1951-52)
Abitazioni INA Casa al Quartiere Tiburtino in via Crispolti (con L. Quaroni ed altri)
Palazzina in via Lusitania,29 (1953)
Case in linea tra viale Etiopia, via Tripolitania, via Adua (1949-54 e 1957-60)
Sopraelevazione del villino Astaldi in via N. Porpora (1954-55)
Palazzina in via Vulci,9 (1959-60)

SALVARE VIA DEI FORI IMPERIALI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 15.11.2003

Alcuni articoli comparsi di recente su queste pagine ripropongono il problema della sistemazione dell’area archeologica romana dando come scontata la demolizione di via dei Fori Imperiali. Operazione che, peraltro, si va ormai imponendo in modo strisciante attraverso continui scavi che finiranno per dimostrare, immancabilmente, la “necessità scientifica” della distruzione.

Occorre invece, ritengo, riflettere sulla questione nei suoi termini più generali superando ideologie e schieramenti. Cesare Brandi lo fece con grande coraggio civile in un articolo dell’87 sul Corriere della Sera nel quale affermava limpidamente che la città non tollera una zona di demolizioni nel suo centro vitale e che non basta dire che via dell’Impero fu un misfatto fascista, ricordando che “la caratteristica fondamentale di Roma è d’essere una città prospettica impiantata come una città ideale del Rinascimento”.

Quell’articolo impeccabile andrebbe ripubblicato integralmente perché, dopo vent’anni, il problema non è sostanzialmente cambiato. Anzi, si è radicalizzato per la singolare pretesa dell’archeologia di possedere una propria oggettività scientifica, quasi che lo scavo non fosse una trasformazione di spazi, segni, funzioni della città, come dimostrano i crateri da città bombardata attorno alla Basilica di Massenzio, nei quali le rovine messe a nudo si offrono ad una contemplazione vagamente necrofila.

Il carattere profondo di Roma risiede, invece, nell’immanenza nascosta dell’antichità, nel racconto delle origini mescolato agli sviluppi della città rinascimentale, barocca, moderna. Un sedimento collettivo e unificante che si trasmette alla vita quotidiana della città in forma antididascalica, attraverso stratificazioni spesso misteriose che continuano a far vivere, segretamente nascosto, il pathos dello spazio primitivo. Accadeva anche, ad esempio, nei SS. Cosma e Damiano prima che fosse “liberata”, negli ultimi anni, l’aula circolare del “Tempio di Romolo”.

Un malinteso ruolo dell’archeologia sembra oggi voler comunicare, del messaggio dell’antico, una versione asettica e semplificata. Via dei Fori Imperiali diviene, così, solo un intralcio ai lavori di scavo, dimenticando che quell’asse conclude un processo formativo iniziato, almeno, a partire dal piano regolatore del 1873 il quale, di fatto, già prevedeva il collegamento tra piazza Venezia e l’area del Colosseo. Processo poi confermato dal piano Sacconi del 1897 e continuato con le demolizioni previste dai piani di Koch (1907) e Sanjust (1909). Un’eredità ormai storicizzata, dunque, che è costata la perdita dolorosa di preziosi tessuti urbani, ma che oggi non può essere negata in nome di una riesumata retorica della liberazione dell’antico.

Per questo il grande spazio rivolto verso il Colosseo deve essere salvato dalla furia del nuovo “piccone liberatore”: per permettere ai romani di riappropriarsene trasformandolo, magari, in un luogo per spettacoli, manifestazioni, riti civili. Uno straordinario foro moderno capace di tramandare il monito e la nobiltà dei fori antichi sui quali è fondato.

LA LEZIONE DELL’ARA PACIS

di GIUSEPPE STRAPPA
in «Corriere della Sera» del  4.11.2001

Posto nei termini di conservazione o innovazione il problema dei nuovi interventi per Roma, come quello dell’Ara Pacis, risulta insolubile. Se non c’è dubbio, infatti, che la città si vada inevitabilmente trasformando secondo un processo fisiologico inarrestabile, è anche vero che l’ammirazione acritica per le nuove architetture mitteleuropee, per le decostruzioni, per l’ high-tech con cui gli innovatori hanno identificato la modernità (si veda l’esito dei recenti concorsi di progettazione) non possono che propiziare nuovi guasti. Forse bisognerebbe riflettere sul fatto che le rivoluzioni introdotte dai pionieri, consolidate nel tempo come carattere «autentico» del moderno e perno dell’architettura universale, sono in realtà l’esito specifico di un processo che da secoli opera nelle aree egemoni del nordeuropa. Di contro, la cultura legata alla continuità, alla consuetudine costruttiva plastica e muraria, ha sviluppato a Roma un’architettura moderna dove tutto è legato da una stessa nozione di organicità, dove spazio, distribuzione, struttura, obbediscono ad una stessa legge formativa. Un’architettura forse difficilmente apprezzabile da palati assuefatti agli scintillanti exploit alla Frank Gehry, ma che ha dimostrato, attraverso opere straordinarie, come la nozione di durata dell’architettura sia un patrimonio alternativo al mito, in declino, della macchina e a quello, emergente, dell’informatizzazione. Quando pensiamo una nuova architettura per Roma dovremmo forse giudicarla secondo la sua condizione di futura rovina, della quale quella presente non è che uno stato di provvisorio passaggio, una transizione. Basterebbe allora paragonare l’immagine di miserevole disfacimento suscitata dai molti capolavori della modernità ufficiale caduti in rovina, con la nobiltà che collassi statici e perdita di funzione hanno attribuito agli edifici antichi, per capire come l’ideologia del moderno internazionale, esaltando l’idea di obsolescenza, demolizione, sostituzione, risulti estranea al carattere dell’architettura romana.
Ma a Roma, almeno nella sua parte consolidata, il rapporto solidale e necessario tra l’organismo urbano e gli elementi che lo compongono lega i resti dell’eredità antica alle fondazioni della città barocca, i tracciati medievali alle costruzioni di età umbertina. La grande civiltà degli spazi pubblici romani è, soprattutto, il risultato di una secolare arte di costruire la città legata alla cultura condivisa del generale e del comune contro l’accidentale e il frammentario. Qui il problema della forma di uno spazio pubblico non può che modernamente porsi nel processo di trasformazioni che hanno costruito lo spazio attuale modificando la materia portata a riva dalla storia.
Posta in questi termini, anche la polemica sulla sistemazione dell’Ara Pacis potrebbe avere un respiro diverso: se i fotomontaggi di Meier mostrano con chiarezza la estraneità del nuovo museo al carattere del luogo, il vuoto che ormai le demolizioni hanno generato a ridosso del lungotevere si offre alla riflessione sul carattere della Roma futura, propiziando la formazione di un grande spazio urbano che leghi organicamente l’area sul fronte di San Rocco e San Girolamo (l’antico Porto di Ripetta), il Mausoleo di Augusto, l’asse di via di Ripetta. Le generose energie profuse nei progetti sarebbero state utilmente impiegate, almeno, per porre un problema di vasta portata.