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LA RINASCENTE DI PIAZZA FIUME

di Giuseppe Strappa

Nella travagliata vicenda dell’architettura moderna romana i due magazzini della Rinascente in via del Corso e in piazza Fiume costituiscono altrettanti poli di una ricerca d’identità non vernacolare, capace di accogliere, metabolizzare e trasformare in sintesi originale il diverso: l’innovazione felicemente coniugata alla storia, l’irruzione del metallo e la sua addomesticazione. E poiché tra i due edifici, oggi in vendita, quello costruito da Albini ed Helg di fronte alle mura aureliane presenta i maggiori rischi di trasformazione, è forse il momento di riconsiderarne la singolare attualità.
Certo, l’opera è pienamente immersa nel clima degli anni ’50, quando si poneva la questione, tutta italiana, di ambientare i nuovi interventi con il carattere della città tradizionale. Ma la sua eccezionalità consiste nell’evitare quelle evocazioni letterarie che avevano  indotto Gardella a mascherare un’abitazione plurifamiliare da palazzo veneziano e lo sudio BBPR a edulcorare le forme provocatorie di un grattacielo milanese, la Torre Velasca, in un medioevo da cartolina. Architetture incensate dalla critica, che proponevano, in realtà, soluzioni consolatorie.
La storia che rifluisce nell’edificio di piazza Fiume, al contrario, evita scorciatoie e semplificazioni. I milanesi Albini ed Helg sembrano ripercorrere qui, con gli strumenti moderni dell’acciaio e della prefabbricazione, il processo che aveva portato altri grandi architetti lombardi a costruire le fabbriche della Roma manierista e barocca. Per i quali la condizione di “forestieri” sembra aver propiziato, insieme ad un’appassionata adesione alla lingua muraria romana, un rinnovamento derivato dalla consuetudine nordica con le strutture trasparenti e leggere, con gli snelli pilastri in pietra divenuti, oggi, colonne d’acciaio.
Una sintesi organica, dimostrata dalla logica dei grandi pannelli in calcestruzzo e granito che, dentro la gabbia metallica, si piegano e sembrano pulsare sotto la luce, sposandosi alle necessità delle canalizzazioni ospitate nei corrugamenti delle pareti.
Credo che, in una stagione di fulmineo, scomposto consumo delle forme, occorra custodire gelosamente l’insegnamento di quest’opera, coltivarne la durevole, rigorosa poesia che sembra testimoniare non solo la simpatia ancora possibile tra modernità e storia, ma anche la bellezza senza tempo della regola tanto profondamente compresa da divenire invenzione.

LUNGHEZZA E LO SVILUPPO SOSTENIBILE

di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 08.01.2008

L’imminente inizio dei lavori per un intervento di abitazioni sperimentali a Lunghezza che prevede, primo caso nell’Italia centrale, sistemi bioclimatici ed ecocompatibili è una buona notizia per cominciare con ottimismo il nuovo anno. Soluzioni tecnologiche avanzate dovrebbero permettere ai nuovi edifici di evitare sprechi ridistribuendo nel tempo il calore raccolto dai “muri solari”, recuperare, trattandola, l’acqua piovana, riciclare i rifiuti. Come in un processo di ritorno artificiale allo stato di natura, piccole serre e torri di ventilazione li disporranno ad accumulare o disperdere energia termica secondo il variare delle stagioni.
Dagli edifici, disegnati dal bavarese Thomas Herzog e dal romano Fabrizio Tucci, non ci si aspettano miracoli, certo, ma che facciano la loro parte nel tentativo di non dilapidare le risorse del nostro piccolo pianeta, unendosi allo sforzo collettivo che da anni coinvolge molte città europee.
Il Comune di Roma ha in programma, peraltro,
di estendere analoghe soluzioni per il risparmio energetico all’intero piano per l’emergenza abitativa attraverso le norme di un “codice di pratica” elaborato dalla Facoltà d’Architettura di Valle Giulia e appena adottato.
Ma c’è di più. L’esperimento di Lunghezza tenta di addomesticare le novità, di mostrarle all’esterno con discrezione, componendo  parsimoniose facciate regolate dalla geometria leggera delle lamelle che si aprono di giorno e si chiudono di notte. Senza averne l’aria, impartisce così una piccola lezione di etica architettonica concedendo ben poco alla  retorica tecnologica e non cedendo alla consueta tentazione di ostentare le innovazioni. Propone agli abitanti, al contrario, le nuove soluzioni come aggiornamenti, come sottili modifiche di forme quotidiane. Non è poco, oggi. Anzi, di fronte alla drammaticità gratuita di tanta architettura, l’immagine originale e composta di queste nuove case che sorgono con civile dignità ai margini della città che cambia, sembra una bella cartolina di auguri per la periferia romana.

CORVIALE E LE ROVINE DEL MODERNO

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 19.01.2005

Il “Serpentone” di Corviale sembra dare ragione a quanti sostengono che l’architettura non risolve i problemi ma li crea. Proprio il suo carattere di utopia costruita che fa tabula rasa della nozione di tessuto, e l’astrattezza del suo generoso, visionario rigore hanno originato, qui, insolubili nodi e conflitti.
Certo, Corviale costituisce il portato estremo e ritardatario di un impossibile modello di periferia urbana che prevedeva smisurate macchine per abitare sparse, come transatlantici, nel mare verde della campagna incontaminata. E tuttavia il significato etico e civile di quest’esperimento può essere compreso nel confronto con la superficialità di tanta architettura contemporanea, con i grattacieli ritorti, piegati, avvitati senza porre altro problema che quello di un sensazionalismo estetizzante,  promosso da quegli stessi cultori della deregulation architettonica che attribuiscono il fallimento di Corviale  al desiderio di un nuovo ordine delle cose.
Forse per l’attualità del suo contraddittorio messaggio, le università La Sapienza di Roma e Columbia di New York hanno cominciato a riconsiderare, in questi giorni, dopo tante banalizzazioni, questo straordinario “caso di studio”.
Corviale costituisce oggi l’enigmatica rovina del paquebot lecorbusieriano e della sua ideologia. Come in un medioevo selvaggio, si disgrega e ricompone in cerca d’identità: la grande madre di spazi atomizzati, di meandri ingovernabili, ma anche di forme di rinascita civile con spazi per la musica, il ballo, la lettura.
Blade Runner romano e multietnico, il Serpentone è oggi un laboratorio che offre l’immagine concreta e dolorosa della condizione contemporanea, della frantumazione delle forme e delle coscienze. Anche se fossero stati realizzati i servizi previsti non sarebbe mai stato un luogo sereno. Forse lo smarrimento che ne deriva ha indotto molti abitanti a sviluppare una forma di orgoglio dell’appartenenza, dell’abitare un luogo estremo, duro, sperimentale: un sogno fallito e, insieme, un territorio di frontiera da rifondare. Qualcosa di diverso, in ogni modo, dall’avvilimento rassegnato di tante periferie metropolitane.
Per questo occorre resistere alla tentazione di demolire Corviale. E’ necessario, invece, un grande, fiducioso sforzo collettivo per ripensarlo con nuove densità e funzioni: una gigantesca, didattica rovina che disgregandosi, come i grandi organismi antichi, mostra la possibilità di rigenerarsi, di costituire il problematico sostrato di una nuova vita.

I NUOVI MUSEI CAPITOLINI


di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 20.12.2005

I molti progetti che Carlo Aymonino ha studiato per l’ampliamento dei Musei Capitolini costituiscono un patrimonio di sperimentazioni sui quali, ritengo, occorre riflettere. Essi dimostrano, per prima cosa, come una naturale vocazione alla trasformazione sia contenuta, per così dire, nello stesso DNA di alcuni edifici. Molti spazi aperti racchiusi al centro di organismi architettonici tendono, in realtà, a “solidificarsi” nel tempo, a formare un nuovo grande vano intorno al quale si annoda e ruota la vita dell’edificio. Una nuova sala centrale, protetta da strutture leggere e trasparenti, diviene così non solo il nodo di flussi di percorsi, ma anche il teatro nel quale si rappresenta l’epifania dell’edificio rinato. Molti tipi edilizi  moderni, i palazzi postali o le borse, ad esempio, derivano dall’”annodamento” di cortili di palazzi, chiostri di antichi conventi. Lo stesso teatro moderno, a partire da quello elisabettiano, nasce in un modo non molto diverso.
La trasformazione dei Musei Capitolini attraverso la copertura dello spazio aperto tra la Galleria degli Horti Lamiani e Palazzo Caffarelli, appare, in questo senso, una scelta di continuità, una sorta di “naturale” aggiornamento del quale era convinto anche Virginio Vespignani, che qui aveva costruito un padiglione ottagonale, poi demolito all’inizio del’900. Una soluzione, in verità, non del tutto felice perché, evitando di continuare processi formativi in atto, dava luogo ad un edificio nuovo e indipendente. Se n’è subito reso conto Aymonino quando ha abbandonato una prima ipotesi di costruzione circolare nel Giardino Romano per disegnare, nel ’93, una lineare, limpidissima copertura, poggiata sugli edifici esistenti che lasciava del tutto libera la preziosa area archeologica sottostante. Sarebbe stata la soluzione ideale: un gesto unitario e sintetico, il cui metodo anticipava di anni la  magnifica struttura con la quale Norman Foster ha “annodato” il labirinto delle sale espositive del British Museum.
Forse era destino che nell’area capitolina, dove la storia ha intrecciato per secoli le molteplici vicende degli edifici e degli uomini, questa rigorosa soluzione dovesse  trasformarsi. Ma è un fatto che, insieme all’innovativa indicazione di leggere e assecondare le trasformazioni tipiche  dell’organismo architettonico, l’opera realizzata, con la sua copertura semiellittica poggiata su sei grandi pilastri circolari,  finisca anche col riproporre, purtroppo nei termini consueti, la vexata quaestio dell’inserimento del nuovo nei contesti antichi.

GRANDI FIRME E ARCHITETTURA DIFFUSA

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 12.06.2007

Che le grandi firme garantiscano la qualità della città futura, è un’idea che comincia a mostrare le prime crepe. Alberoni, tra gli altri, sul “Corriere” di qualche giorno fa, annotava la stanchezza del pubblico per il protagonismo di architetture imposte dalla fama del progettista, nate per essere ammirate ma, spesso, inutili.
La forma bella perché “necessaria” non ha bisogno di griffe: ammiriamo ancora oggi il disegno perfetto della bottiglietta del Campari pur avendo dimenticato che l’autore è il grande Depero.
Si potrebbe osservare, peraltro, che anche il progetto “dal basso” e democratico, vecchio mito della sinistra mai realizzato e forse irrealizzabile, non è una soluzione. E dunque, che fare? Forse, vale la pena di riflettere, con sano realismo, su alcuni esperimenti romani di coinvolgere nel disegno della città almeno alcune delle forze in gioco: tecnici, istituzioni, rappresentanze dei cittadini, imprenditori. Nei concorsi, ad esempio, per il riuso delle aree delle ex rimesse ATAC a piazza Bainsizza e a Porta Maggiore, le università hanno eseguito gli studi preliminari, un buon numero di progettisti proporrà le linee guida dell’intervento, mentre il progetto finale sarà scelto attraverso una competizione alla quale parteciperanno, insieme, architetti ed imprese. Le quali saranno costrette, in qualche modo, ad innalzare la qualità dei loro cantieri, rimasta spesso ferma agli anni ’70. Una strada difficile, fatta di successivi contributi, dove la sintesi artistica non è generata da folgoranti intuizioni, ma è l’esito di un processo, l’incontro del molteplice.
E i primi risultati sembrano dimostrare la validità del metodo. Lo testimonia l’esperimento di maggior respiro fino ad ora tentato in questa direzione: i progetti “partecipati” eseguiti dai dipartimenti della Sapienza per le proprie sedi, che saranno in mostra dal 13 giugno nelle sale del Rettorato.
Il disegno della nuova sede per facoltà umanistiche nel futuro campus di Pietralata, progettata dal Dipartimento di Architettura e Costruzione, ne è un campione significativo. Raccolta intorno ad una grande piazza coperta, dominata dal monolite della biblioteca attorno a cui si avvolge la luce che scende dalla copertura vetrata, l’opera trasmette il messaggio di una comunità scientifica moderna e vitale. Un’immagine immediata che pure deriva dal paziente raccordo tra bisogni e interessi diversi, lunghi incontri con i rappresentanti del V Municipio, confronti tra progettisti di disparate tendenze che non impediscono al disegno di arrivare ad una propria, serena identità espressiva. I valori civili che il progetto trasmette, la vita che s’immagina nell’edificio, per una volta sono più importanti della personalità dell’autore.
Così, mentre a Milano insorgono le proteste per il disastroso progetto di Porta Nuova dove, in 26 ettari di aree centrali, sfileranno i grattacieli griffatissimi delle archistar, Roma sembra riscoprire che, anche in architettura, la vita, quella vera, non è una sfilata di moda.