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CORVIALE E LE ROVINE DEL MODERNO

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 19.01.2005

Il “Serpentone” di Corviale sembra dare ragione a quanti sostengono che l’architettura non risolve i problemi ma li crea. Proprio il suo carattere di utopia costruita che fa tabula rasa della nozione di tessuto, e l’astrattezza del suo generoso, visionario rigore hanno originato, qui, insolubili nodi e conflitti.
Certo, Corviale costituisce il portato estremo e ritardatario di un impossibile modello di periferia urbana che prevedeva smisurate macchine per abitare sparse, come transatlantici, nel mare verde della campagna incontaminata. E tuttavia il significato etico e civile di quest’esperimento può essere compreso nel confronto con la superficialità di tanta architettura contemporanea, con i grattacieli ritorti, piegati, avvitati senza porre altro problema che quello di un sensazionalismo estetizzante,  promosso da quegli stessi cultori della deregulation architettonica che attribuiscono il fallimento di Corviale  al desiderio di un nuovo ordine delle cose.
Forse per l’attualità del suo contraddittorio messaggio, le università La Sapienza di Roma e Columbia di New York hanno cominciato a riconsiderare, in questi giorni, dopo tante banalizzazioni, questo straordinario “caso di studio”.
Corviale costituisce oggi l’enigmatica rovina del paquebot lecorbusieriano e della sua ideologia. Come in un medioevo selvaggio, si disgrega e ricompone in cerca d’identità: la grande madre di spazi atomizzati, di meandri ingovernabili, ma anche di forme di rinascita civile con spazi per la musica, il ballo, la lettura.
Blade Runner romano e multietnico, il Serpentone è oggi un laboratorio che offre l’immagine concreta e dolorosa della condizione contemporanea, della frantumazione delle forme e delle coscienze. Anche se fossero stati realizzati i servizi previsti non sarebbe mai stato un luogo sereno. Forse lo smarrimento che ne deriva ha indotto molti abitanti a sviluppare una forma di orgoglio dell’appartenenza, dell’abitare un luogo estremo, duro, sperimentale: un sogno fallito e, insieme, un territorio di frontiera da rifondare. Qualcosa di diverso, in ogni modo, dall’avvilimento rassegnato di tante periferie metropolitane.
Per questo occorre resistere alla tentazione di demolire Corviale. E’ necessario, invece, un grande, fiducioso sforzo collettivo per ripensarlo con nuove densità e funzioni: una gigantesca, didattica rovina che disgregandosi, come i grandi organismi antichi, mostra la possibilità di rigenerarsi, di costituire il problematico sostrato di una nuova vita.

I NUOVI MUSEI CAPITOLINI


di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 20.12.2005

I molti progetti che Carlo Aymonino ha studiato per l’ampliamento dei Musei Capitolini costituiscono un patrimonio di sperimentazioni sui quali, ritengo, occorre riflettere. Essi dimostrano, per prima cosa, come una naturale vocazione alla trasformazione sia contenuta, per così dire, nello stesso DNA di alcuni edifici. Molti spazi aperti racchiusi al centro di organismi architettonici tendono, in realtà, a “solidificarsi” nel tempo, a formare un nuovo grande vano intorno al quale si annoda e ruota la vita dell’edificio. Una nuova sala centrale, protetta da strutture leggere e trasparenti, diviene così non solo il nodo di flussi di percorsi, ma anche il teatro nel quale si rappresenta l’epifania dell’edificio rinato. Molti tipi edilizi  moderni, i palazzi postali o le borse, ad esempio, derivano dall’”annodamento” di cortili di palazzi, chiostri di antichi conventi. Lo stesso teatro moderno, a partire da quello elisabettiano, nasce in un modo non molto diverso.
La trasformazione dei Musei Capitolini attraverso la copertura dello spazio aperto tra la Galleria degli Horti Lamiani e Palazzo Caffarelli, appare, in questo senso, una scelta di continuità, una sorta di “naturale” aggiornamento del quale era convinto anche Virginio Vespignani, che qui aveva costruito un padiglione ottagonale, poi demolito all’inizio del’900. Una soluzione, in verità, non del tutto felice perché, evitando di continuare processi formativi in atto, dava luogo ad un edificio nuovo e indipendente. Se n’è subito reso conto Aymonino quando ha abbandonato una prima ipotesi di costruzione circolare nel Giardino Romano per disegnare, nel ’93, una lineare, limpidissima copertura, poggiata sugli edifici esistenti che lasciava del tutto libera la preziosa area archeologica sottostante. Sarebbe stata la soluzione ideale: un gesto unitario e sintetico, il cui metodo anticipava di anni la  magnifica struttura con la quale Norman Foster ha “annodato” il labirinto delle sale espositive del British Museum.
Forse era destino che nell’area capitolina, dove la storia ha intrecciato per secoli le molteplici vicende degli edifici e degli uomini, questa rigorosa soluzione dovesse  trasformarsi. Ma è un fatto che, insieme all’innovativa indicazione di leggere e assecondare le trasformazioni tipiche  dell’organismo architettonico, l’opera realizzata, con la sua copertura semiellittica poggiata su sei grandi pilastri circolari,  finisca anche col riproporre, purtroppo nei termini consueti, la vexata quaestio dell’inserimento del nuovo nei contesti antichi.

GRANDI FIRME E ARCHITETTURA DIFFUSA

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 12.06.2007

Che le grandi firme garantiscano la qualità della città futura, è un’idea che comincia a mostrare le prime crepe. Alberoni, tra gli altri, sul “Corriere” di qualche giorno fa, annotava la stanchezza del pubblico per il protagonismo di architetture imposte dalla fama del progettista, nate per essere ammirate ma, spesso, inutili.
La forma bella perché “necessaria” non ha bisogno di griffe: ammiriamo ancora oggi il disegno perfetto della bottiglietta del Campari pur avendo dimenticato che l’autore è il grande Depero.
Si potrebbe osservare, peraltro, che anche il progetto “dal basso” e democratico, vecchio mito della sinistra mai realizzato e forse irrealizzabile, non è una soluzione. E dunque, che fare? Forse, vale la pena di riflettere, con sano realismo, su alcuni esperimenti romani di coinvolgere nel disegno della città almeno alcune delle forze in gioco: tecnici, istituzioni, rappresentanze dei cittadini, imprenditori. Nei concorsi, ad esempio, per il riuso delle aree delle ex rimesse ATAC a piazza Bainsizza e a Porta Maggiore, le università hanno eseguito gli studi preliminari, un buon numero di progettisti proporrà le linee guida dell’intervento, mentre il progetto finale sarà scelto attraverso una competizione alla quale parteciperanno, insieme, architetti ed imprese. Le quali saranno costrette, in qualche modo, ad innalzare la qualità dei loro cantieri, rimasta spesso ferma agli anni ’70. Una strada difficile, fatta di successivi contributi, dove la sintesi artistica non è generata da folgoranti intuizioni, ma è l’esito di un processo, l’incontro del molteplice.
E i primi risultati sembrano dimostrare la validità del metodo. Lo testimonia l’esperimento di maggior respiro fino ad ora tentato in questa direzione: i progetti “partecipati” eseguiti dai dipartimenti della Sapienza per le proprie sedi, che saranno in mostra dal 13 giugno nelle sale del Rettorato.
Il disegno della nuova sede per facoltà umanistiche nel futuro campus di Pietralata, progettata dal Dipartimento di Architettura e Costruzione, ne è un campione significativo. Raccolta intorno ad una grande piazza coperta, dominata dal monolite della biblioteca attorno a cui si avvolge la luce che scende dalla copertura vetrata, l’opera trasmette il messaggio di una comunità scientifica moderna e vitale. Un’immagine immediata che pure deriva dal paziente raccordo tra bisogni e interessi diversi, lunghi incontri con i rappresentanti del V Municipio, confronti tra progettisti di disparate tendenze che non impediscono al disegno di arrivare ad una propria, serena identità espressiva. I valori civili che il progetto trasmette, la vita che s’immagina nell’edificio, per una volta sono più importanti della personalità dell’autore.
Così, mentre a Milano insorgono le proteste per il disastroso progetto di Porta Nuova dove, in 26 ettari di aree centrali, sfileranno i grattacieli griffatissimi delle archistar, Roma sembra riscoprire che, anche in architettura, la vita, quella vera, non è una sfilata di moda.

LA BELLA METROPOLI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 09.12.2006

L’architetto ha creduto, per secoli, che il mondo esistesse per essere ordinato attraverso la bellezza, pur sapendo che quest’ordine è illusorio, un fragile stato di transizione.
Ma da almeno mezzo secolo gli architetti indagano la qualità estetica delle cose che hanno perso equilibrio e proporzione. Dal Robert Venturi del caos di Las Vegas, al Rem Koolhaas della New York dei deliranti disastri nasce l’epica metropolitana del moderno nomade eternamente in viaggio tra universi frammentati. La quale ha contribuito, bisogna pur dirlo, all’abbandono di quelle ricerche sull’abitazione che hanno costituito, da Morris a Le Corbusier, l’origine e il sale dell’architettura moderna.
Oggi, persa la carica provocatoria, questo pensiero sperimentale si è trasformato in genere letterario frequentatissimo e vagamente lugubre dove il termine “bellezza” viene ormai rimosso, schivato dagli intellettuali.
Tanto che esso, associato al tema della metropoli, genera un singolare cortocircuito. E’ quello che è accaduto nel recente convegno al Palazzo dei Congressi (Corriere del 24 e 25 scorso) che, con il titolo “La bellezza dove non c’è”, poneva il problema della rigenerazione delle periferie romane, dell’hinterland verso il mare che l’EUR spa si propone di rinnovare.
Se l’aver dimenticato il ruolo della bellezza e del giudizio sintetico che essa contiene sembra averci privato di uno dei grandi strumenti di orientamento nel caos del mondo, le schegge delle borgate romane che scorrono dietro i finestrini di un’auto sembrano ancora indicare, senza bisogno di dimostrazioni, che il bello è altrove.
In realtà la città, anche quella del passato, è sempre stata un mondo di frammenti e i centri storici che abbiamo ereditato sono stati anche, e per lungo tempo, luoghi invivibili.
Ma l’uomo del medioevo vedeva nella polvere e nei blocchi di pietra che affollavano le piazze la forma della città ventura. E gli architetti del Quattrocento disegnavano la Roma antica non per quello che era, ma per quello che avrebbero voluto che fosse. Questo desiderio struggente era il vero progetto di futuro.
Forse anche noi, liberandoci dalle incrostazioni delle teorie (ma anche dalle nostalgie per il passato), dovremmo provare a guardare alla catastrofe, alle rovine della speculazione edilizia romana con occhi nuovi. Accettare il mutamento delle cose sapendo che si potranno ancora ricomporre in nuova bellezza. O, almeno, desiderarlo.

LE CITTA’ NELLA CITTA’

CONVEGNO INTERNAZIONALE ALL’EUR

in «Corriere della Sera» del 22.10.2006

di Giuseppe Strappa

Nella metropoli della densificazione e della babele dei linguaggi, che, in America come in Cina, esplode e si disperde in frammenti, il virtuale sembra sostituire la realtà e l’immateriale la fisicità dei paesaggi urbani.
La stessa nozione di città, intesa come spazio dove l’uomo non solo vive e lavora, ma s’identifica con i luoghi deputati alla vita civile, sembra sgretolarsi.

Paesaggi di reti tendono a separarsi dalle forme reali, dai luoghi fisici: l’immagine mentale  di una metropolitana, della distribuzione commerciale, dei collegamenti autostradali o aeroportuali, è ormai una rappresentazione convenzionale come le icone sul desktop di un computer. E Bill Gates promette l’avvento di un uomo nuovo, telematico, liberato dall’appartenenza al luogo, che può essere “qui e là e in ogni possibile posto”.

Dopo i fiumi d’inchiostro e di bite spesi ad alimentare questa retorica della delocalizzazione e le sue fughe dalla realtà, forse è il momento di chiedersi se non stiamo perdendo i reali termini del problema. Non tanto perché il 50% degli abitanti del nostro pianeta non ha mai fatto una telefonata, ma soprattutto perché abitare e leggere e-mail in un condominio di Calcutta o in un attico di New York non sarà mai la stessa cosa.

E forse l’uomo, soprattutto il nuovo, mitizzato, nomade metropolitano, ha ancora bisogno di appartenenza, degli spazi essenziali dove la vita affonda le sue radici. L’accettazione della città dispersa, combinatoria, costruita per frammenti sembra segnare, peraltro, la rinuncia definitiva a quella carica ideale, ottimista ed utopica, che aveva dato senso all’architettura moderna, finendo per assegnare all’architetto contemporaneo il ruolo, omologato e rassicurante, di autore di spettacoli urbani.

La crisi della metropoli contemporanea, il suo governo, le ideologie che ha generato sarà il tema di un convegno internazionale che si svolgerà il 13 e 14 maggio al Palazzo degli Uffici all’EUR.

Proprio l’immagine dell’EUR, con il richiamo alla concreta fisicità di città moderna-non moderna che la sua architettura contiene, può indicare alcuni argomenti di riflessione: la validità e la durata dell’architettura urbana; i guasti della specializzazione nell’arte di costruire le città di due momenti separati, il piano urbanistico (lo zoning, gli standard), ed il frammento edilizio che, quando raggiunge la qualità della grande architettura, si compiace narcisisticamente del suo isolamento. La crisi del piano e la caduta di significato civile dell’architettura sono, in questo senso, due facce di uno stesso problema.

La fortuna critica e storiografica dell’EUR ha avuto nel tempo alterne vicende. Oggi  è un po’ fuori moda e si torna a parlare dell’arretratezza del suo impianto “ottocentesco”. Ma, se è vero che il suo modello, rigido e marmoreo, è ormai inattuale, il suo impianto ha in realtà fondamenta molto più antiche che riportano all’essenza della città italiana. E proprio questa  è la sua forza: la capacità di trasmettere, se si guarda oltre le tendenze del momento, la dimenticata, fondamentale nozione di tessuto, il legame tra edificio e città, tra  struttura di percorsi ed architettura, tra episodio eccezionale e continuità edilizia. Nozioni che non sono né vecchie né nuove facendo parte del modo dell’uomo di abitare e orientare lo spazio. Averle dimenticate è uno dei disastri della città contemporanea.

Non a caso l’EUR, che pure nel dopoguerra assomigliava ad una città di rovine più che ad un quartiere in costruzione, ha resistito ai disastri del boom edilizio ed è oggi capace di accogliere il plurale e il diverso, il Palazzo della Democrazia Cristiana come la nuvola di Fuksas.

La vicenda dell’EUR, generato dal demone della compiutezza incorruttibile, dove la  storia ha stratificato nel tempo, invece, segni disuguali e contraddittori, c’insegna come governare i processi di trasformazione della città contemporanea significhi anche accettarne, senza presunzioni di totalità, il carattere aperto, la continua dialettica. Ed anche la sua parte arbitraria e ingovernabile, distinguendo l’essenziale della forma urbana, la struttura profonda e riconoscibile, dall’inevitabile arbitrio del casuale, del particolare, dell’individuale. L’Eur sembra mettere in guardia intellettuali e progettisti dalle seduzioni delle profondità astratte, invita a ridiventare chiari e concreti.

Perché la città contemporanea non è solo il mondo dell’accidentale e del fortuito, è anche un testo continuamente riscritto, alla cui vitalità occorre il grande respiro, la chiarezza di una struttura condivisa nella quale riconoscere la lingua colta delle grandi architetture civili e, insieme, il flusso delle mutazioni combinatorie, il contributo dal basso dei tanti singoli edifici, il molteplice e l’eterogeneo del parlato quotidiano che rinnova e dà ricchezza al linguaggio.