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UNA NUOVA SCUOLA PER GLI ARCHITETTI

di Giuseppe Strappa


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in «Corriere della Sera» del 11.04.08

Una grande città come Roma ha bisogno, è ovvio, di buoni architetti. Ma non bastano le iniezioni di architettura, le grandi opere disegnate da star internazionali che possono servire, al più, a promuoverne l’ immagine. Occorre che a Roma si formino nuove generazioni di bravi architetti: la vera modernità, quella che trasforma i luoghi dove pulsa la vita, le periferie, i quartieri sovraffollati, le borgate, sarà progettata dalle centinaia di architetti che, ogni anno, sfornano le nostre facoltà. Ma è vero, come è stato scritto su queste pagine, che oggi questa formazione è un po’ provinciale. Il vero ritardo del nostro intero mondo dell’ architettura è, in realtà, e da anni, dovuto al terrore stesso di essere provinciali.  Sull’onda delle mode, delle nuove specializzazioni, delle contaminazioni tra  discipline, l’insegnamento si è frammentato in mille rivoli. Corsi di laurea triennali di ogni tipo dovrebbero ampliare l’ ’”offerta didattica”, secondo un’espressione da grande magazzino ormai in voga. Come se, per affrontare la complessità di un mondo in convulsa trasformazione, bastasse disperdersi nei suoi infiniti meandri. Inseguendo tendenze e specialismi, si è dimenticato, così, che il centro dell’attività dell’architetto è il progetto, la sintesi che unifica in un solo gesto costruttivo strutture, spazi, materiali, impianti.
Forse siamo allo stadio terminale di una schizofrenia genetica delle facoltà di architettura italiane, nate dall’unione di insegnamenti di ingegneria con quelli delle accademie di belle arti: due anime che non hanno mai trovato una vera fusione. Eppure la Scuola di Architettura romana delle origini ha rappresentato, unificando ogni disciplina nel progetto,  un modello diverso nel quadro italiano che ha prodotto non solo grandi architetti, ma figure importanti in molti campi della cultura: grandi storici, restauratori, archeologi, costruttori, scenografi, critici la cui originalità consisteva proprio nel vedere il mondo con gli occhi del progettista.
Per non essere provinciali forse basta guardare alle nostre spalle, pensare (come si sta, peraltro, sperimentando altrove) non ad facoltà universitaria, ma ad una moderna scuola dove ogni disciplina non si chiude nel proprio statuto, ma è concentrata su un solo scopo: l’educazione al progetto. Sarebbe una scelta contro quella perdita di centro che ha comportato la deriva superficiale dell’architettura italiana testimoniata dalle goffe e datate polemiche in corso. Ultima quella sui nuovi progetti milanesi che vede Mike Bongiorno e Fuksas parlare, con gli stessi argomenti, ancora del grattacielo come energia futura della città. Specchio di questa condizione è l’involontaria autoironia con la quale Milano si accinge a costruire i propri simboli contemporanei come scintillanti oggetti di design: una torre  strizzata e ritorta, un grattacielo puntellato, un altro ripiegato su sé stesso, curvo e molle, come afflosciato dopo uno slancio vitale.

Archeologia e città

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 02.09.2004

Nel 1527 il topografo Marco Fabio Calvo leggeva nei resti della Roma antica, da quella quadrata di Romolo a quella radiocentrica di Augusto, geometrie sempre più complesse che finivano per proporre, insieme, una ricostruzione simbolica e una figura di città ideale: i frammenti enigmatici e inselvatichiti dell’impianto antico sembravano annunciare, agli occhi degli uomini del Rinascimento, la forma  condivisa della città ideale e futura.
Ma la coscienza dell’antico come patrimonio collettivo doveva essere già viva fin dal V secolo se editti come quelli emanati dagli imperatori Onorio e Maggioriano richiedevano che le spoglie della passata grandezza fossero reimpiegate solo per costruire nuove opere pubbliche. Un riuso, peraltro, nel quale l’intelligenza del ruolo strutturale e simbolico della rovina costituiva, quando la scarsità di risorse induceva al saccheggio dei monumenti classici, una forma attiva di tutela. Forse l’esito più alto della familiarità romana con l’antico è stato fornito dal genio di Michelangelo con la sintesi architettonica di S.Maria degli Angeli, dove gli spazi solenni e la materia stessa delle terme di Diocleziano vengono trasmessi alla basilica cristiana. In questa consuetudine, profonda e ammirata, con un passato operante che pervade la città moderna e che abita come sostrato profondo i suoi edifici, è contenuto il carattere più autentico della Roma storica: materiale magmatico composto di segni sparsi, frammenti esplosi e riassorbiti il cui senso è dato dalla loro inevitabile associazione alle forme della vita che fluisce. Sulla comprensione di questo dato evidente e sul rispetto scrupoloso delle testimonianze dovrebbe essere fondata, credo, ogni operazione sul patrimonio archeologico. Mostrando due opposti pericoli.
Il primo è costituito dall’irruzione nelle aree archeologiche dell’architettura internazionale “firmata”. La qualità  delle trasformazioni non può essere assicurata invitando, come sembra si voglia fare, architetti dello star system  a presentare progetti che saranno giudicati da colleghi di uguale orientamento. Il nostro patrimonio archeologico non ha bisogno di immagini spettacolari che ridurrebbero, secondo un dilagante “effetto Bilbao”, i resti antichi a sfondo di estetizzanti virtuosismi (va riconosciuto a Massimiliano Fuksas, in proposito, il merito di aver presentato la sua proposta come diagramma e affermazione di principio).
Il secondo è costituito dalla deriva specialistica di un’archeologia intesa come scienza da laboratorio, che accumula conoscenze attraverso l’indagine e le ordina in polverosi scaffali. Lo scavo, senza un’idea di città che unisca restauro e ruolo contemporaneo delle testimonianze antiche non  è solo è inattuale, può essere dannoso. E poiché il nome che si da alle cose finisce per trasformarle, forse dovremmo smettere di impiegare termini come “parco archeologico” che prefigurano la fine del ruolo vitale dell’antico e la sua trasformazione in oggetto di una contemplazione antiquaria e vagamente cimiteriale.

KUSTURICA ALL’ACQUARIO ROMANO

 

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 20.09.2004

Eschimesi e bande musicali, tartarughe, abiti da sposa e pesci, tenuti insieme da un solo vortice vitale e surreale: il mondo visionario di Kusturica che irrompe tra le vecchie mura dell’Acquario Romano sembra dare forma simbolica a questa Notte bianca del 2004, alla fusione di città, spettacolo ed arte.
Le foto del set di Underground, le immagini del back stage di Gatto nero gatto bianco, le musiche dei tromboni, delle balalaike, delle chitarre elettriche del gruppo Zabranjeno  Pusenje, non potevano essere accolte in un posto migliore: un edificio dalla storia strampalata come un film di Kusturica, nato come stabilimento per la produzione ittica dalla truffa di un fantasioso avventuriero comasco ma dove si svolgevano, invece, “mescendo l’utile e il dolce”, balli e veglioni sotto lo sguardo stupito di murene e polpi che osservavano meditabondi dai cristalli delle vasche. Perfino la gara, epica e stravagante, tra Buffalo Bill ed i butteri della Maremma si svolse in questo circo ovale, vagamente folle, cui l’architetto Bernich aveva dato un bizzarro sussiego.
La presenza di Emir Kusturica nell’Acquario, trasformato oggi in Casa dell’Architettura, potrebbe essere spiegata con la recente idea del regista di Sarajevo di costruire, con materiali locali, un villaggio tra le montagne della Serbia martoriata, una piccola città ideale destinata a realizzare l’impossibile utopia dell’arte che sconfigge il mercato. Ma in realtà i motivi sono più generali e complessi. Perché, soprattutto, l’opera di Kusturiza affronta uno dei temi più urgenti dell’architettura contemporanea proponendo la rara sintesi tra l’espressione di sentimenti e messaggi universali e la testimonianza di un mondo locale ancorato alle proprie radici: un universo di frontiera dove l’architettura, i dipinti, la musica, hanno paternità precarie, sembrano possedere la poesia, struggente e anonima, di un canto gitano.  L’arte come continuazione e aggiornamento di processi dinamici in atto, testimonianza del fluire, disgregarsi e fondersi della vita, rappresentazione delle sue diversità. Le cose, ci dice Kusturica, si conoscono attraverso il loro contrario e le dissonanze sono il sale della terra. Indicando, tuttavia, come ogni forma dialoghi con le altre, finisca, rinnovandosi, per contaminarsi, per contenere una fertile parte del  carattere opposto. Non è poca cosa in un mondo che nelle differenze riconosce ormai solo il pericolo di nuovi conflitti e dove le stesse immagini di una corporation globale si vendono altrettanto bene a Bilbao come a Los Angeles.
Ma la forza del regista serbo sta tutta nella capacità di trasmettere questo selvaggio ottimismo in modo immediato: sotto le nuvole di Roma, il furore circolare della banda di Kusturica pareva frullare in cielo la storia e i fantasmi del luogo e raccogliere, insieme, l’allegria di una notte in cui la città illuminata a festa e il fiume in piena dei suoi abitanti d’ogni etnia e colore, sembravano, per una volta, fondersi in una sola, fantastica architettura in movimento.

ALESSANDRO ANSELMI, LA SCOPERTA DELLA LEGGEREZZA

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di G. Strappa

in «Corriere della Sera» del 12.03.2004

Architetto romano alla soglia dei settant’anni, Alessandro Anselmi è stato protagonista di una vicenda intellettuale esemplare, per molti versi, della travagliata ricerca di una via all’architettura contemporanea originale e, insieme, radicata nella nostra cultura,
Una ricerca iniziata negli anni ‘60, quando, all’interno del GRAU (Gruppo Romano Architetti e Urbanisti) sperimentava ingegnosi ordigni concettuali che avevano esito in forme misteriose e complesse, dove riaffioravano i segni di una classicità evocata con struggente nostalgia, impossibile da ricostruire nella sua unità e destinata a spezzarsi, nell’alveo più consolidato della tradizione romana, in frammenti da ricomporre.
Esperimenti solitari, piranesiane archeologie d’invenzione che fissavano implacabili leggi geometriche cui obbedire con lo scrupolo dell’ossessione. Era, quello del GRAU, un mondo confinato, una struttura chiusa, di un’eleganza macchinosa e anelastica, a volte incline ad una gravità quasi funeraria della quale rimane, monumento straordinario e celebratissimo, il cimitero costruito nella cittadina di Parabita. Questo sistema infinitamente astratto (Isti mirant stella era il motto di uno dei loro progetti più riusciti) che sembrava dare un rigido ordine al pensiero, predisponeva inaspettatamente a cogliere anche il lato composito, lacerato ed ambiguo del reale.
E da questo mondo, infatti, Anselmi sembra emergere negli anni ’80 scoprendo, improvvisamente, la leggerezza. Una rivelazione coltivata con furore, che genera le scenografie curvilinee del municipio di Rezé les Nantes, le superfici piegate del centro per uffici di Pietralata, del municipio di Fiumicino, dove una stessa parete sembra flettersi a formare la piazza, le pareti verticali, le coperture secondo un estro nuovo nel quale l’uso unificante e spettacolare del disegno risulta, a ben guardare, profondamente barocco. Con, in più, quel pizzico di romanesca ironia che permette di mantenere un distacco vitale dagli oggetti: quella leggerezza, appunto, che non è superficialità, ma un modo di comprendere in forma agile e sintetica l’essenziale delle cose evitando il gravame di farraginosi significati.
Nella sua fertile e attivissima maturità Anselmi, pur attento al panorama internazionale, non si è lasciato sedurre dalle mode, dal “mal francese” che rende provinciale anche una grande capitale dell’architettura come Roma alla quale pure hanno attinto i protagonisti della vicenda contemporanea, da Louis Kahn a Robert Venturi. Al contrario, come un abile funambolo in bilico sopra il magma indistinto del consumismo universale, Anselmi è riuscito ad esportare la propria ricerca, dimostrando come oggi occorra pensare globalmente ma agire mantenendo ben salde le proprie radici.
La grande mostra organizzata dal DARC sull’opera di Alessandro Anselmi che si inaugura oggi, venerdì, 12 marzo, al MAXXI di via Guido Reni, costituisce, dunque, non solo l’omaggio doveroso che la cultura architettonica romana riserva ad uno dei suoi esponenti più significativi ma, si spera, anche un segnale.