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LETTURA E RIQUALIFICAZIONE URBANA DEL QUARTIERE DI SAN TELMO A BUENOS AIRES, Tesi di laurea di ANNA RITA DONATELLA AMATO

SAPIENZA UNIVERSITA’ DI ROMA
FACOLTA’ DI ARCHITETTURA VALLE GIULIA
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA ARCHITETTURA (RESTAURO)
TESI DI LAUREA IN PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA: LETTURA E RIQUALIFICAZIONE URBANA DEL QUARTIERE DI SAN TELMO A BUENOS AIRES
RELATORE: PROF. GIUSEPPE STRAPPA
CORRELATORE: ARCH. ALESSANDRO FRANCHETTI PARDO
TUTOR: LUIS EDUARDO TOSONI
LAUREANDA: ANNA RITA DONATELLA AMATO

Buenos Aires rispecchia in molti suoi aspetti le caratteristiche tipiche di una metropoli contemporanea costituitasi non più di duecento anni fa; i grattacieli del micro centro e di puerto madero, le enormi avenidas e la sua struttura urbana sempre perpendicolare, mostrano la sua forte connotazione di città di fondazione interamente pianificata .
In questo contesto, che non sembrerebbe lasciar spazio a riflessioni sul processo formativo del tessuto urbano, si riscontra invece, in gran parte del patrimonio edilizio presente, una costante inaspettata che fa tesoro di molte caratteristiche figlie di un tipo edilizio mediterraneo che ha più di duemila anni. Il tipo a corte, della domus romana, viene importato in Argentina e in generale in latino-america dalle colonizzazioni spagnole e diventa la matrice di quel tessuto urbano che oggi è l’essenza di Buenos Aires.
La casa de patios, come dimostrano gli studi di F. Diez, corrisponde al tipo base, le cui evoluzioni e trasformazioni hanno determinato la formazione di tipi sempre più vicini alle esigenze di densità e modernità della città argentina, costituendo organismi edilizi, come l’edificio entre medianeras, in cui si coniugano l’esigenza di verticalità con la memoria della corte come spazio di distribuzione e, forse l’aspetto meno condivisibile, le stesse dimensioni del lotto di una casa de medio patio (7,5m circa, 10 varas), diretta derivazione della casa de patios.
In questo contesto si collocano i progetti di riqualificazione dell’ex patronato de infancia e dei progetti residenziali di Defensa y Carlos Calvos e Paseo Colon y Estados Unidos.
In tutti gli interventi , che vorrebbero costituire una sorta di metodo guida per la progettazione nel tessuto storico, il tema base è quello della stretta connessione tra percorsi e organismo architettonico, intendendo come tale anche le corti e gli spazi aperti che in questo senso concorrono alla definizione dell’organismo urbano a cui sono direttamente collegate.

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EDILIZIA DI BASE E TESSUTI

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Rilievo dei piani terra nell’area di piazza di Palazzo Altieri a Roma

1. EDILIZIA DI BASE

prof. Giuseppe Strappa

Nell’ambito della lettura della realtà costruita, la nozione di tessuto è tra le più complesse. Essa esprime la solidarietà tra percorso e unità abitative che si aggregano a formare organismi di grado superiore. Il tipo di unità abitativa che è all’origine della gran parte dei processi formativi dei tessuti delle città italiane sviluppatisi a partire dal XIII-XIV secolo è soprattutto la casa a schiera, declinata in diverse varianti areali in tutta la penisola, dai tipi veneti che traducono in muratura organismi edilizi originati da matrici lignee, agli esempi segnatamente plastici dell’Italia cento-meridionale. Questo tipo di abitazione, che esprime la predisposizione dell’organismo edilizio singolo alla solidarietà urbana e all’aggregazione, e quindi alla formazione delle strutture fisiche della civiltà urbana, risulta notevolmente costante, e con costanza individuabile nel processo delle sue trasformazioni, all’interno delle diverse aree culturali, sia nel tipo bicellulare che (cui si farà soprattutto riferimento nel seguito), che in quello monocellulare derivato dal consumo della casa a corte (pseudoschiera). L’edilizia a schiera del XIII-XIV si struttura su una forma organica di utilizzazione del suolo che ha caratteri riconoscibili: la costruzione avviene occupando un lotto di terreno rettangolare affacciante su percorso nel lato corto, dove la forma rettangolare del lotto risponde a criteri economici. La parte più pregiata del terreno è infatti la parte che affaccia su strada, quella sulla quale saranno rivolti gli ingressi, le botteghe, le facciate delle case. Il frazionamento del terreno deve quindi mettere a profitto il fronte stradale, secondo norme e convenzioni che traducono esigenze spontaneamente radicate e, nel tempo, divenute norma. La ripartizione del terreno che ne deriva produce lotti di spessore pressoché costante e di profondità variabile.
Lo spessore costante dei lotti e, quindi, delle abitazioni, si spiega con la forza delle consuetudini, le quali corrispondono alle necessità unitariamente costruttive, economiche e distributive della casa. In altri termini è già in qualche modo previsto, nella mente di chi fraziona il terreno, uno stretto vincolo che lega insieme utilizzo del suolo, tipo abitativo e tipo di aggregazione (tessuto) che verrà individuato attraverso l’atto costruttivo: si possiede in modo quasi inconscio la cognizione dell’esito edilizio possibile. Il rapporto tra organismo urbano che deriverà da questo frazionamento, e tipo edilizio adottato in società in equilibrio è intimamente legato da regole imposte dall’uso e spontaneamente accettate.
Nella costruzione una parte del terreno verrà utilizzata per l’abitazione mentre un’area di pertinenza verrà lasciata libera ed inizialmente utilizzata ad orto. Lo spessore, la profondità del costruito, può variare entro limiti ristretti, perché le necessità e le capacità dell’abitante sono simili per tutte le costruzioni. Lo spessore del lotto, e quindi quello dell’abitazione che per motivi economici sfrutterà per intero il lato che affaccia sul percorso, dopo una fase iniziale in cui tra le diverse abitazioni viene lasciato uno spazio minimo per il deflusso delle acque (ambitus), coincide con lo spessore dell’unità costruita, dando origine alla “casa a schiera”. Esso coincide, anche, con le misure necessarie alla distribuzione delle funzioni: vani utilizzabili (spesso, nei tipi maturi, due per piano, dei quali uno con fronte su strada e l’altro sull’area di pertinenza); scale per il piano superiore (come le attività economiche verrano distribuite dove lo spazio è più prezioso, all’interno, dove lo spazio è meno prezioso, viene collocata la scala, elemento puramente distributivo); accesso dalla strada ai vani dell’abitazione ed all’area di pertinenza, attraverso un percorso interno che si può collocare indifferentemente su l’uno o l’altro dei lati della casa, spesso in corrispondenza di un’apertura specializzata nella parete su percorso. Si potrebbe teoricamente ritenere, solo in prima approssimazione, che la serie delle unità di schiera possa continuare all’infinito: si tratta di una struttura, come si è detto, seriale, e non esistendo un rapporto di necessità tra ognuna delle unità, se non l’adiacenza di due pareti murarie, al variare del loro numero nulla cambia nel carattere della struttura e del tipo edilizio. Le abitazioni vengono distribuite specializzando nel tempo (operando cioè mutazioni diacroniche del tipo matrice attraverso un progressivo adattamento alle trasformazioni delle necessità degli abitanti) al loro interno i vani, cominciando col massimizzare l’utilizzazione economica del piano terreno, e destinando il vano su strada a bottega: la società è ancora tendenzialmente omogenea e tutte le attività si svolgono nello stesso luogo (la città non ha ancora specializzato le proprie parti in produttive, commerciali ed abitative). Abitazione, produzione e commercio si svolgono unitariamente all’interno della stessa costruzione e molto spesso la bottega è, allo stesso tempo, luogo di produzione e di scambio.
L’ aggregazione degli elementi edilizi in strutture orizzontali e verticali concorre unitariamente alla definizione del tipo. La dimensione della luce della trave che dovrà coprire la campata libera tra muri ortogonali al percorso è pressoché costante, stabilita da consuetudini edilizie che rispecchiano, allo stesso tempo:

le necessità geometriche del vano abitabile ereditate da antecedenti elementari;
le capacità tecniche del costruttore relative all’area culturale di pertinenza;

le specifiche forme di individuazione di materiali nelle materie disponibili nel luogo. Dunque lo spessore del lotto necessario alla distribuzione coincide con la dimensione utile alla costruzione e varia nel tempo e nei diversi luoghi aggirandosi però sempre intorno ai 4/6 metri. Le murature che vengono costruite hanno una dimensione derivata dalla tradizione costruttiva, che è parte integrante del processo di formazione del tipo. Dovendo le murature sopportare un carico maggiore al piano terreno che a quello  superiore, il loro spessore risulta spesso variabile da un piano all’altro in funzione delle diverse sollecitazioni, dipendendo anch’esso dalle tecniche edilizie invalse in quell’area e in quel determinato arco temporale, e dai materiali disponibili. Una muratura in pietra fragile avrà uno spessore maggiore di una muratura di materiale resistente (in calcare compatto, ad esempio, o mattoni): il costruttore ha una cognizione spontanea del variare delle sollecitazioni, acquisita attraverso l’esperienza e la tradizione . Sa anche che, secondo una tecnica affinata attraverso miglioramenti successivi, l’occasione di diminuire lo spessore della muratura in corrispondenza del solaio (punto singolare che coincide, come vedremo, con uno dei nodi della costruzione), dove variano i carichi, costituisce un utile appoggio per le travi che reggono l’impalcato del solaio. Altre volte, quando la muratura è a sezione costante nei diversi piani, vengono messe in opera mensole sostenenti le travi perimetrali sulle quali disporre l’impalcato. Ma in genere la casa a schiera risulta riferibile a caratteri fortemente specifici del tipo, pur nella estrema diversificazione delle individuazioni areali, come risultato di condizioni di equilibrio “necessarie” tra componenti diverse.

 

Col termine edilizia di base si intende la parte di costruito destinata all’abitazione. L’abitazione è infatti la prima e fondamentale forma di spazio edificato della quale, nel tempo, l’uomo conserva la nozione più spontanea. L’edilizia di base si sviluppa a partire dal primo spazio aggregabile prodotto, la cellula elementare a base quadrangolare di 5-6 metri di lato, consolidatasi nell’uso. L’abitazione originaria costruita (non quindi “incontrata” come poteva accadere per il rifugio) è costituita da un vano nel quale è possibile svolgere per intero e contemporaneamente le funzioni legate alla vita domestica. Queste dimensioni entrano a far parte, nelle aree culturali più diverse e distanti, della coscienza spontanea del costruttore e sono, nel tempo, riscontrabili anche nelle misure del vano-base ricorrente in forme abitative o specialistiche più complesse, ottenute per moltiplicazione della cellula elementare. Le ragioni delle dimensioni della cellula elementare sono antropologiche, perché l’uomo non riesce a vivere in una dimensione minore, se non in ripari e rifugi nei quali non sono possibili che forme embrionali di vita domestica, ma anche tecnico-costruttive, legate all’uso di materiali che si adattano, pur non determinandole meccanicamente, alle dimensioni tipiche, alla statica delle pareti murarie che chiudono lo spazio abitato, delle travi che debbono coprirne la luce. Che le tecniche edilizie siano state finalizzate allo spazio della cellula elementare e non viceversa è dimostrato dalla costanza delle dimensioni in aree di diversissima cultura materiale: da quelle lignee a quelle murarie fino alle aree nelle quali l’abitazione è stata scavata nella roccia, dove (si veda il caso delle abitazioni trogloditiche di di Peschici e Monte Sant’Angelo in Puglia, e quelle, notissime, di Matera in Basilicata) le dimensioni non variano per volumi interamente scavati, parzialmente scavati, totalmente esterni. L’edilizia di base si articola, nei suoi termini logico-processuali, nell’aggregazione di cellule elementari costituenti:
abitazione unifamiliare isolata, distribuita direttamente su percorso attraverso accesso indipendente, utilizzata da un solo nucleo familiare e costituita da sistemi (statico costruttivo, distributivo, leggibilità) autosufficienti e indipendenti a partire dalle fondazioni fino alla copertura. La casa unifamiliare isolata non è aggregabile.
abitazione unifamiliare aggregata, distribuita direttamente su percorso attraverso accesso indipendente, utilizzata da un solo nucleo familiare, ma con sistema statico-costruttivo non indipendente, avente elementi o strutture di elementi in comune con le abitazioni adiacenti in modo tale da concorrere, per aggregazione, a formare organismi a scala maggiore, la cui unità aggregativa è l’alloggio su uno o più piani costituito, in genere, da abitazioni a schiera;
abitazione plurifamiliare in linea, processualmente derivata dalla rifusione di abitazioni unifamiliari aggregate e utilizzata da due o più nuclei familiari che si servono di comuni sistemi di distribuzione (scale, ballatoi, ascensori ecc.), oltre che comuni sistemi statico-costruttivi, e quindi con alloggi non indipendenti rispetto all’accesso dal percorso. La casa in linea è costituita da uno o più corpiscala aggregati linearmente che costituiscono un unico edificio seriale. Si definisce “corposcala” la struttura costituita dal vano scala e dagli alloggi che da esso sono distribuiti. L’unità aggregativa interna è l’alloggio costituito dall’appartamento su un piano.
abitazione plurifamiliare isolata, processualmente derivata dall’abitazione in linea, utilizzata da due o più nuclei familiari che si servono di un comune sistema di distribuzione (scale, ballatoi, ascensori ecc.) e quindi con alloggi non indipendenti. L’abitazione plurifamiliare isolata è costituita da un solo corposcala e non è aggregabile. L’unità aggregativa interna è l’alloggio costituito dall’appartamento su un piano.

2. TESSUTO COME FORMA TIPICA DI AGGREGAZIONE

Da quanto accennato deriva come sia inevitabile il rapporto di congruenza che deve necessariamente instaurarsi tra tipo di abitazione e forme di aggregazione delle abitazioni stesse, e come un ruolo fondamentale sia svolto, in questo senso, dalla presenza dei percorsi che distribuiscono e orientano le unità abitative, determinandone, anche, le varianti tipologiche.
Nelle aree dove l’uso del suolo è più intenso e la progressiva pressione demografica induce ad uno sfruttamento intensivo della superficie del terreno, il tipo abitativo, sempre basato sulla cellula elementare, si deve adeguare alle necessità di relazione diretta tra le singole unità.

Case a schiera in via Santa Maria del Pianto a Roma

L’associazione di singole unità abitative tra loro a formare unità di scala superiore si sviluppa secondo leggi proprie, variabili nello spazio e nel tempo, tanto che si può parlare di tessuti intesi come tipi di aggregazione. Risulta chiaro che possiamo parlare soprattutto di tessuti, per quanto riguarda l’edilizia abitativa, costituiti da tipi congruenti con la nozione di aggregabilità: la casa a schiera è un organismo edilizio aperto che ha bisogno, per essere completato, dell’inserimento nell’ aggregato urbano, mentre possiamo parlare meno frequentemente di tessuti per l’edilizia specialistica, i cui tipi hanno una loro compiutezza (caso estremo i tipi polari, ad impianto centrale) e quindi una minore disponibilità all’aggregazione.

Alla formazione del tipo di aggregazione concorrono le forme di perimetrazione e utilizzazione del territorio, relazionate unitariamente ai tipi edilizi vigenti ed ai materiali impiegati.
Il processo di mutazione dall’unità all’aggregazione, non costituisce uno svolgimento lineare di tipo evoluzionista, ma l’intersezione di conquiste, ritorni, riprese di sviluppo: la casa pluricellulare nasce qualitativamente, essa stessa, come aggregazione di cellule elementari organizzate in base alla coscienza del tipo, non come semplice successione cronologica di addizioni (successione riscontrabile solo in intorni temporali ristretti) come dimostrano le abitazioni delle civiltà preurbane, spesso costituite dalla fusione di elementi unicellulari perfettamente individuabili anche nelle strutture complesse.
La prima e più semplice forma di aggregazione, successiva alla disposizione di unità edilizie autonome su percorso, è costituita dall’unione a schiera di unità abitative a struttura non indipendente, con porzioni dell’involucro esterno (spesso le due pareti murarie ortogonali all’affaccio su strada) in comune con le unità adiacenti. La nuova scala edilizia che ne deriva (quella dell’aggregato edilizio) è relativa ad un organismo (organismo aggregativo) di scala superiore all’abitazione elementare, che può essere ora riguardata come semplice elemento di schiera, di passo unicellulare.
La scala dell’aggregato costituisce il momento di passaggio tra edificio e città. Da questa considerazione deriva una possibile schematizzazione generale delle diverse scale di formazione degli organismi che costituiscono il territorio antropizzato:

organismo edilizio;
organismo aggregativo;
organismo urbano;
organismo territoriale.

La forma di costruzione preaggregativa precedente la formazione della schiera è costituita dalla ripetizione delle unità edilizie lungo il percorso, separate da un ridottissimo distacco, ambitus, necessario al deflusso delle acque dalle coperture, organizzate con le linee di displuvio parallele al percorso ed i colmi ad esso ortogonali. Sebbene in alcune aree le falde conservino a lungo, anche dopo la formazione della serie, la disposizione delle unità isolate, presto la linea di colmo si dispone parallelamente al percorso (soprattutto in aree plastico-murarie) legando le singole unità in rapporto di maggiore organicità.

 

Le forme più elementari di schiera ripetono le abitazioni monocellulari adiacenti una all’altra attraverso un muro comune ortogonale al percorso di affaccio.
In Puglia e in Basilicata esistono esemplari forme aggregative originate da tipi elementari: a Matera i lamioni sono costituiti da vani monocellulari, non sempre regolari, con copertura a botte ortogonale al percorso, che formano l’aggregato semplicemente per ripetizione, iniziando a costituire un embrione di organismo urbano; la fase definibile “successiva” per via logica è il tipo a due piani, che in sezione presenta vani indipendenti distribuiti su ambedue i percorsi a livello superiore e inferiore.
Esempio analogo, ma di progressiva complessità, è costituito dalle case ad alloggi sovrapposti, servite da scale indipendenti che collegano lo spazio esterno all’alloggio senza mediazioni (dato che consente di parlare ancora di abitazioni unifamiliari), come è riscontrabile in diverse aree europee, dagli esempi embrionali di aggregati abitativi direttamente uniti al percorso di Procida, ai tipi olandesi tradizionali utilizzati anche dall’edilizia moderna e contemporanea. Normalmente il raddoppio della cellula elementare, nell’ambito della stessa unità edilizia avviene in profondità, ad occupare la parte di area di pertinenza immediatamente adiacente alla cellula su percorso, e in verticale, mantenendo sempre, comunque, la dimensione monocellulare dell’affaccio su strada, che costituirà la dimensione base leggibile nella formazione del tessuto della città anche in fasi di rifusioni e plurifamiliarizzazioni. Con la formazione del piano superiore, parallelamente a quanto avviene per la casa unifamiliare, le cellule si specializzano a formare lo spazio per la bottega e quello superiore per l’abitazione propriamente detta. Il piano superiore, inizialmente servito da scala esterna (profferlo) viene raggiunto nei tipi successivi da scala interna servita da un’apertura specializzata e distinta da quella della bottega, rendendo leggibile all’esterno la specializzazione interna.

Lo sviluppo della casa a schiera avviene dunque per raddoppi di cellule, con progressiva specializzazione dei vani : al piano terra, oltre la bottega (o atrio), il vano scala, il passaggio all’area di pertinenza, il magazzino, e al piano superiore l’abitazione propriamente detta, che aumenta il grado di specializzazione con la progressiva moltiplicazione verticale delle cellule e la distinzione della zona giorno dalla zona notte. La posizione della scala varia in funzione della specializzazione del piano terreno:
– nella casa a bottega la scala si dispone in genere ortogonalmente alla strada, in diretta corrispondenza dell’ingresso, in modo da separare nettamente i vani specializzati dai vani abitativi attraverso il muro che si rende necessario per sostenere le travi di solaio tessute parallelamente alla strada;
– nella casa ad atrio, ad uso completamente abitativo, la scala si dispone di preferenza parallelamente alla strada, nel fondo del vano, con le prime alzate sul lato opposto all’ingresso, in modo da avere altezza sufficiente da permettere il passaggio diretto dall’accesso al vano posteriore ed all’area di pertinenza.
Naturalmente, oltre a queste soluzioni tipiche e generalizzate, esistono molte altre possibili dislocazioni della scala dovute a componenti areali o alla presenza di tipi-sostrato, come nel caso della scala esterna che occupa l’area di pertinenza nelle “corti-schiera” fiorentine originate dal consumo della domus.
La leggibilità è, nelle fasi spontanee di formazione delle unità di schiera, direttamente dettata dalla dimensione e posizione delle aperture, con la specializzazione indicata spesso all’esterno dalla porta con bancale per esposizione delle botteghe al piano terreno, e apertura di minori dimensioni per l’accesso alle scale ed all’area di pertinenza, e inoltre dall’uso di marcapiani e marcadavanzali e, in generale, dai nodi tettonici che indicano il diverso carattere (elastico-ligneo o plastico-murario) dei tipi pertinenti ad aree diverse.

3. GERARCHIZZAZIONE DEI PERCORSI

Da quanto esposto risulta chiaro come l’ambiente costruito possa essere solo strumentalmente ed in prima approssimazione studiato per parti: come gli edifici non possano essere considerati autonomamente, ma concorrano alla formazione di unità a scala maggiore che ne condizionano i caratteri. I concetti che abbiamo espresso per i tipi edilizi sono in qualche modo estendibili anche ai tessuti urbani: si intende per tessuto la somma dei caratteri, processualmente determinati, che contraddistinguono la formazione di un aggregato edilizio. In altre parole, la nozione di tessuto sta a quella di aggregato come la nozione di tipo sta a quella di edificio. Un tessuto edilizio è dunque contraddistinto da una legge riconoscibile, iterativa e individuabile. Da questo punto di vista potremmo parlare di organismi edilizi che si compongono a formare organismi a scala superiore: l’organismo urbano, per poi riconoscere che tra questi due estremi di scala esiste un salto logico (che è anche anche un salto storico-processuale), nel senso che il passaggio tra l’edificio e la città avviene attraverso leggi aggregative che formano (individuano) parti di organismo urbano riconoscibili. L’organismo aggregativo rappresenta dunque il passaggio di scala fondamentale che fornisce la misura di come la città sia, essa stessa, il risultato di un processo di successivi incrementi storicamente individuato.Il percorso originario, dal quale l’aggregato prende inizio, è la traccia visibile di un attraversamento che unisce due punti del territorio particolarmente rilevanti, detti poli. Nella realtà costruita sono riscontrabili quattro tipi principali di percorso che corrispondono ad altrettante fasi di sviluppo e trasformazione degli aggregati urbani:

 

–  Percorso matrice, che esiste prima che intervenga la costruzione. Dunque l’edilizia su percorso matrice corrisponde alla prima fase di edificazione ed è l’edilizia più antica, su lotti in genere meno regolari di quelli successivi, perché l’atto costruttivo non obbedisce ancora a convenzioni istituzionalizzate (esiste una “coscienza spontanea della norma”, alla quale nel tempo si sostituisce una “coscienza critica e istituzionalizzata della norma”) e, allo stesso tempo, il valore del suolo permette ancora estensioni dei lotti spontaneamente adeguate alle necessità edilizie più che condizionate dal loro valore di mercato, come avviene invece in fasi successive dove, in alcuni casi, si formano veri e propri regolamenti edilizi, indicati negli statuti dei comuni.
Percorsi di impianto edilizio, cronologicamente successivi e gerarchicamente subordinati al primo, sono tracciati in funzione dell’edificazione in profondità. Col progressivo allontanamento dal polo, il valore del terreno sul percorso diminuisce rispetto a quello retrostante la prima fascia di edificazione. Per motivi di carattere economico-funzionale è intuibile come, dopo la prima edificazione su percorso matrice, l’aggregato tenda ad utilizzare la fascia retrostante, piuttosto che continuare un’espansione lineare che virtualmente occuperebbe l’intero percorso, con evidente perdita di significato delle nozioni di nodo e polo. Questa seconda fase di edificazione, in generale, avviene orientando percorsi ortogonali al percorso matrice, distanti tra loro la profondità di due dei nuovi lotti. All’intersezione tra percorso matrice e percorso di impianto si formano inevitabilmente, data la possibile duplicità di affaccio dell’edificio d’angolo e, soprattutto, la necessità di sfruttare la relativa area di pertinenza con affaccio su percorso di impianto, varianti sincroniche del tipo base dette varianti di intasamento.
Percorsi di collegamento che uniscono tra loro i percorsi di impianto edilizio. Tali percorsi si possono formare soprattutto in due modi:

– per soppressione delle abitazioni insistenti su due lotti contigui ortogonali al percorso di impianto (una sorta di percorso di ristrutturazione, come vedremo, a scala limitata). In questo caso l’intervento è riconoscibile per il parallelismo dei lotti sul nuovo percorso e la sincronicità delle costruzioni relative.
– per costruzione intenzionale di un nuovo percorso nella fase successiva di espansione, seguente la formazione ed il completamento dell’isolato. In questo caso la programmazione è riconoscibile per essere i nuovi lotti orientati ortogonalmente al nuovo percorso (la tendenza è sempre a massimizzare l’affaccio su percorso), e, spesso, per la diacronicità del costruito nelle due fasi successive di costruzione sui due lati del percorso.
Percorsi di ristrutturazione (non necessariamente sempre presenti negli organismi aggregativi) intervengono alla conclusione del processo di edificazione, nei tessuti maturi nei quali si formano nuovi poli che creano nuove esigenze di collegamento. Sono quindi percorsi “traumatici” che si sovrappongono all’organismo preesistente, considerato obsoleto sulla base di una nuova nozione di tessuto.
La formazione del percorso di collegamento che completa la perimetrazione di un insieme di lotti dà origine all’isolato, componente tra le più stabili degli organismi aggregativi che, rendendo discreto il processo di aggregazione, costituisce la premessa geometrica alla costruzione della città ottocentesca: la dialettica della città moderna si forma attraverso un’interpretazione critica di accettazione od opposizione della geometria della formazione dell’isolato.

Case a schiera moderne.    Oud,  Kiefhoek – piante

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l’arte della progettazione e l’avvenire delle scuole di architettura in italia

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Universita’ degli studi di Roma “La Sapienza”

Facoltà di Architettura “Valle Giulia”

Venerdì, 18 aprile 2008

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LECTIO MAGISTRALIS

l’arte della progettazione e

l’avvenire delle scuole di architettura in italia

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Prof.Giuseppe Strappa,

ordinario di Progettazione architettonica e urbana

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Il titolo generale di queste lezioni riguarda il ruolo sintetico dell’insegnamento della progettazione.

Non è un titolo neutrale.

Il momento attuale vede anzi, in Italia, una progressiva frammentazione e specializzazione della didattica di architettura, con le conseguenti derive tecniche da una parte, ed artistiche, dall’altra, ponendo quesiti ai quali, ritengo, la riforma stessa dei nostri corsi di laurea dovrebbe dare una risposta.

La tesi di questa lezione è che occorra riconsiderare per intero l’insegnamento della progettazione intendendolo soprattutto nella forma di una scuola.

La scissione cui ho fatto cenno, peraltro, tra le due anime dell’architettura, sintetica e analitica, è parte costituente, da lungo tempo, della pratica e della didattica di progetto.

Questa condizione sembra anzi informare un intero ciclo della storia stessa dell’architettura nel quale possono essere riconosciute due fasi segnate da due opposte condizioni di crisi.

La prima è costituita dalla nascita della grande ingegneria ottocentesca che rivendicava una propria autonomia estetica la quale finiva per relegare il ruolo dell’architetto in uno specialismo comunemente indicato, con una contraddizione terminologica, “artistico”.

Una divisione che non era affatto insita nello spirito dei progressi della scienza i quali sembravano, al contrario, predisporre all’unità delle discipline di progetto.

Io credo che gli architetti non seppero cogliere, allora, le grandi prospettive di reale sintesi artistica aperte dalla comprensione del rapporto tra sapere scientifico e forma architettonica.

Claude-Louis Navier ad esempio, aveva esposto, già nella prima metà dell’Ottocento, attraverso la sua rivoluzionaria raccolta di lezioni di Scienza delle costruzioni un’interpretazione “architettonica” del problema strutturale, legando la lettura della realtà fisica al metodo operativo, la scienza all’estetica.

Anche se sotto il solo aspetto della costruzione, Navier aveva gettato le premesse per distinguere alcuni caratteri fondamentali degli organismi architettonici: la serialità di strutture nelle quali i diversi elementi sono sostituibili senza che cambi il carattere dell’intera struttura, dalla progressiva organicità di altre nelle quali ogni elemento stabilisce con il suo intorno un rapporto di necessità tale che la sua stessa forma e dimensione influenza il carattere dell’intero organismo.

Il termine “congruenza”, impiegato nella soluzione dei problemi iperstatici, legava insieme deformazioni, sollecitazioni e forma delle strutture, ed è lo stesso termine che può essere impiegato per leggere la progressione di organicità nelle architetture, il loro graduale predisporsi alla collaborazione.

La stessa nozione di vincolo, contribuiva a spiegare, in termini logici, uno degli aspetti della nozione di nodo che gli architetti del passato avevano sempre intuito.

Molte delle considerazioni sulla conformità e proporzione tra le parti di una costruzione elaborate per secoli dai trattatisti, trovavano un primo legame, seppure parziale, con la fisica e la matematica, dimostrando come intuizione e scienza potevano divenire due aspetti di uno stesso processo di conoscenza: espressione, appunto, dell “arte della costruzione”.

L’inadeguatezza a comprendere questo momento di potenziale sintesi era, in realtà, conseguenza di una trasmissione dei saperi fondata sulla scissione tra Écoles des Ponts et Chaussées e Academies des Beaux-Arts, portato di una cultura della progressiva specializzazione del lavoro funzionale ai nuovi equilibri sociali ed economici.

Aspetto, quest’ultimo, che Schopenhauer metteva in luce con profetica chiarezza, peraltro, con la pubblicazione del suo “La filosofia delle università” denunciando il ruolo funzionale dell’ insegnamento universitario al potere economico e politico.

Solo un grande, dimenticato architetto e ingegnere romano, Giovan Battista Milani, tradurrà, molto tempo dopo, queste considerazioni in didattica progettuale riproponendo la nozione di organismo come sintesi di strutture collaboranti, come solidarietà tra costruzione e forma.

E, tuttavia, la parzialità delle successive ricerche, non solo tecnico-scientifiche, dimostra come le conseguenze della crisi sia ancora operante, le contraddizioni non risolte.

Questa lunga frattura ha condotto, ritengo, ad una seconda fase di crisi, ancora in corso, simmetrica ed opposta alla precedente, individuabile nell’esaltazione di nuovi specialismi, che inducono alla contemporanea subordinazione dell’intero organismo architettonico alla potenza mediatica di forme elaborate con tecniche analogiche, funzionali al mercato globale dell’immagine.

Il nuovo distacco tra forma e costruzione, il fascino della grafica computerizzata che trascina ad equivocare il mezzo col fine, induce, questa volta, ad esaurire per intero il senso della costruzione nella sua autonoma superficie, proprio quando la tecnica,di nuovo, consentirebbe inediti strumenti di progetto capaci di controllarne, insieme, tutte le componenti. Il risultato è quello di una città dispersa costituita da oggetti non collaboranti, della perdita della nozione di tessuto,

Nell’ansia di immergersi nella contemporaneità, le università hanno coltivato un vero, nuovo genere letterario che sembra produrre una sorta di consenso estetico a questa forma della città contemporanea.

Vorrei dire in proposito, anticipando alcune conclusioni, che forse, al contrario, non bisognerebbe aver paura di introdurre nel nostro insegnamento quel tanto di inattuale che permetterebbe di vedere le cose in prospettiva, favorendo la formazione di una coscienza critica rispetto alle presenti condizioni della città.

In realtà il termine crisi dovrebbe contenere, come indica la sua etimologia, la nozione di critica: la messa in discussione di una realtà in trasformazione che, per ora, sembra ancora non aver luogo.

Si ripropone, ancora una volta, l’inadeguatezza delle università a fornire un’ analisi e un giudizio indipendente dalle condizioni stabilite dal potere. Con la differenza che il potere è ormai costituito da un sistema di mercato sovranazionale nel quale l’ informazione svolge un ruolo fondamentale di mediazione.

Non a caso in molte nostre facoltà vengono proposti come esempi di ricerca progressiva le opere delle grandi firme internazionali, le quali producono, con ogni evidenza, architettura ufficiale. E cioè, per definizione, il contrario stesso della sperimentazione.

Parafrasando una citazione tratta dallo scritto di Schopenhauer sulle università si potrebbe affermare che oggi, di fatto “se un’idea (ma anche un progetto) nega i principi della città contemporanea essa è ritenuta falsa, oppure, anche se vera, è inutile”.

Oggi, in un mondo in convulso e spesso drammatico cambiamento, è invece necessario ripensare in termini liberi e critici la forma dell’architettura, della città, del territorio. Collegandola a necessità reali.

Eppure perfino di fronte alle immense conurbazioni che sorgono nelle aree più povere del mondo, ad esempio, o di fronte alle distruzioni e alle emergenze delle aree di conflitto, l’architetto sembra invece, auto-esonerarsi dal penetrare nella struttura dei problemi, osservare da lontano e proporre distaccate considerazioni estetiche, come isolato in un grazioso salotto.

E veniamo alla nostra situazione.

Non occorre ricordare come nella didattica di architettura italiana la scissione cui ho fatto cenno abbia configurato un doppio binario formativo il quale, originato dalle accademie di Belle Arti e dai Politecnici, giustappone senza fonderli due opposti tipi insegnamento: intuitivo-artistico l’uno, logico-tecnico l’altro.

Una dicotomia che non solo si va accrescendo, ma che si ripropone oggi in modo ancora più chiaro con la formazione di due corsi di laurea paralleli (in architettura e in ingegneria-architettura) che hanno uguale fine ma ambiti culturali assai diversi.

Credo che l’origine di molti dei problemi della nostra didattica progettuale derivi dal fatto che la formazione delle facoltà di architettura ha recepito appieno lo spirito e la logica dell’insegnamento universitario.

L’ università è il luogo dove si insegnano i principi universali di ogni disciplina la quale, per questo, possiede un corpus autonomo di regole e metodi.

La sua origine, va ricordato, è legata alla sabauda legge Boncompagni che possedeva un forte carattere centralista e statalista, carattere che è rimasto nonostante le tante riforme apparentemente autonomistiche succedutesi nel tempo. Al loro interno le facoltà sono, per istituzione, strutture amministrative delegate a coordinare corsi di studio cui afferiscono discipline indipendenti, “liberate” dall’onere dei rapporti reciproci, legate dalla sola affinità scientifica. La ricerca e le relative occasioni di sintesi avvengono invece all’interno dei dipartimenti, in luoghi lontani dalla didattica.

Ma le esigenze dell’insegnamento del progetto vanno nella direzione opposta.

Io credo che l’avvenire dell’insegnamento dell’architettura non risieda nell’affrontare la complessità del mondo contemporaneo inseguendone i frammenti specialistici, come si è ritenuto di fare con la prolificazione delle lauree triennali, spesso statuti spesso incerti e fragili, ma nella rifondazione del centro disciplinare delle scienze di architettura, che non può che essere la sintesi progettuale.

Occorre cioè rifondare una scuola come luogo dove tutte le discipline, pur nella totale libertà di ricerca, collaborino (convergano) ad un comune fine didattico.

La tradizione moderna indica, peraltro, questa direzione, confermata non solo da esempi internazionali come il Bauhaus, ma anche dal dibattito italiano sulla formazione delle scuole di architettura che, profeticamente, educatori come Camillo Boito avrebbero voluto tenere lontane dalla logica universitaria.

La stessa tradizione di Valle Giulia, dalla sua fondazione nel 1921 è stata quella di una scuola dove Gustavo Giovannoni sulla scia delle convinzioni di Boito, proponeva la figura dell’”architetto integrale”, nella quale ogni materia impartita doveva essere finalizzata alla comprensione della realtà costruita e della sua storia, comprensione che per larga parte doveva coincidere col progetto stesso.

Oggi quel tipo di insegnamento non è più attuale.

Non solo per il numero degli studenti che sono passati dagli iniziali 55 a diverse migliaia, ma perché sono cambiate le condizioni al contorno: il mercato del lavoro, la complessità delle tecniche, la divisione del processo produttivo. E, tuttavia, ritengo, rimangono vitali alcuni principi fondanti.

Perché le mie affermazioni non sembrino astratte, vorrei proporre tre argomenti concreti di riflessione su come i diversi ambiti disciplinari potrebbero concorrere, a mio avviso, alla formazione di una scuola.

I materiali e le strutture

Proprio il processo di crescente astrazione del modo con cui viene comunicata l’architettura, insieme alla progressiva specializzazione delle discipline che concorrono al progetto, ha indotto a considerare i materiali, gli elementi, le strutture che danno forma all’organismo architettonico come la conclusione di un processo ideativo, la parte che riguarda la “realizzazione” , la traduzione di un programma in realtà costruita.

La conseguenza è che gli studenti “subiscono” oggi la tecnica costruttiva come un pesante compromesso tra ideazione soggettiva e realtà materiale.

In una scuola di architettura il loro studio dovrebbe indicare come materiali e strutture siano parti costituenti dell’invenzione stessa della forma.

Anzi, se si può propriamente parlare di atto “creativo” nel mestiere di architetto, questo riguarda la scelta del materiale, l’attribuzione (che è frutto della nostra coscienza) di caratteri alla materia, riconoscendone le attitudini alla costruzione.

Presso ogni civiltà la creazione è soprattutto ordinamento della materia operato distinguendone i caratteri con un gesto che è, dunque, fondamentalmente architettonico: la trasformazione del caos iniziale della materia in cosmos, in sistema ordinato di elementi.

Credo che se vogliamo proteggere i nostri studenti dalla cultura delle riviste, insegnare loro a non imitare, ad essere originali, dobbiamo indicargli questa origine, anche fisica, delle cose.

Si pensi, a dimostrazione di quanto detto, al flusso di materiali innovativi che stanno irrompendo nel modo dell’architettura contemporanea (vero caos artificiale che attende di essere trasformato in cosmos) al quale l’architetto ha il compito di attribuire carattere e finalizzazione costruttiva. In modo non molto diverso, a ben guardare, dal primo costruttore che si trovava, all’origine stessa dell’architettura, di fronte alla diversa plasticità della pietra e dell’argilla o all’elasticità dei rami e del tronco d’albero.

E’, in fondo, l’eterna nozione aristotelica di “materia segnata”, che andrebbe riconsiderata in un momento nel quale la ricerca sulle strutture segue ormai una specializzazione estrema, una deriva matematica ed astratta che sembra far perdere, come ci ha insegnato Edoardo Benvenuto, il contatto con la fisicità dei materiali e la forma concreta delle cose.

Credo che dovremmo far comprendere soprattutto ai nostri studenti come l’architettura sia una condizione di precario equilibrio nel grande flusso delle trasformazioni della materia e della storia, e poi riproporre in questa luce l’insegnamento di Mies Van der Rohe che spiegava come “ nuovi materiali, nonché nuovi sistemi costruttivi, di per sé non garantiscono alcuna superiorità. Ogni materiale vale per quello che si sa ricavarne.”

La rappresentazione

Quest’area disciplinare ha sempre avuto, nella Scuola romana, un fondamento critico, a partire dal “rilevamento filologico” di Giovannoni, che prevedeva lo studio “anatomico” dell’organismo costruttivo e il suo collocamento nel contesto più generale dei tipi consolidati, Non a caso nei disegni che ci sono pervenuti di Giovannoni non è possibile spesso distinguere la parte di rilievo dalla ricostruzione per fasi.

E in tempi più recenti i corsi di elementi di architettura e rilievo dei monumenti, confermavano come, almeno nelle intenzioni, lettura e progetto dovessero essere legate nello stesso insegnamento.

Un particolare problema ha sempre posto, sotto questo aspetto, l’insegnamento di disegno dal vero che ha costituito fino a tempi recenti uno strumento fondamentale dell’educazione al progetto.

La sua decadenza negli insegnamenti di architettura è molto precedente all’introduzione del disegno al computer. Nel ’57, in occasione del 1° Convegno dei docenti di Disegno dal Vero, a Firenze, Luigi Vagnetti poneva con molta chiarezza il problema, sostenendo che se il disegno doveva avere solo valore strumentale, sarebbe stato opportuno toglierlo dagli insegnamenti di architettura perché l’abilità manuale che ne derivava poteva essere ottenuta come esito secondario di molti altri insegnamenti.

E tuttavia, notava Vagnetti, alcuni dati della realtà non possono essere indagati attraverso alcuna “scienza del disegno” perché sono legati a fenomeni “la cui percezione ed il cui studio non sopportano il binario di alcuna teoria scientifica”.

Credo che, nell’attuale fase di progressiva astrazione del rapporto tra realtà e rappresentazione, recuperare la relazione diretta tra l’occhio che osserva e la mano che disegna possa essere ancora uno strumento fondamentale di educazione.

Ma va anche compresa la grande utilità didattica delle nuove tecniche dove software innovativi consentono la costruzione diretta della forma, non la sua derivazione da processi simbolici. Un procedimento che consente di superare l’eterno problema della rappresentazione del progetto secondo i piani della pianta, della sezione e del prospetto che, come sa bene ogni docente di progettazione, costituiscono un ostacolo alla trasmissione dell’idea sintetica di forma come aspetto visibile del sistema di relazioni tra spazio e materiali organizzati in strutture.

La storia, infine

Sull’utilità e sul danno della storia per gli architetti si è scritto molto.

Lo stesso Piacentini scriveva che “la storia non può darci suggerimenti per la vita di tutti i giorni”

La salvezza dalla storia (intuizione latente nel pensiero moderno che i grandi architetti del passato, tuttavia, inconsciamente possedevano) consiste nel riconoscere i nessi che individuano nel tempo la struttura processuale profonda e operante dei fenomeni, nel coglierne la capacità di rigenerazione a partire dalle matrici formative.

Questo uso della storia dovrebbe liberarci, auspicabile corollario, tanto dalle letture estetizzanti che hanno contribuito ad immettere la nostra disciplina nel circuito del puro consumo dell’immagine, quanto dalla storiografia intesa come museo, in fondo, davvero poco utile.

Io credo, dunque, che la storia, agli architetti, serva moltissimo. Non la storia consolatrice, quella che Nietzsche definiva “storia monumentale” del passato come modello, ma la storia critica, la comprensione dei processi formativi che servono all’operare

I padri fondatori di questa Scuola insegnavano la storia dei monumenti come riprogettazione.

Vincenzo Fasolo ricostruiva alla lavagna l’essenza degli organismi architettonici spiegandone i rapporti di necessità tra le parti, come costruendoli davanti agli occhi degli studenti. Era storia, la sua, ma anche disegno, strutture, progetto.

E “la storia operante “ di Saverio Muratori come la “critica operativa” di Bruno Zevi possono essere riguardate come diversi aspetti del comune problema di leggere la storia come rivolta al mondo concreto delle azioni umane, stratificazioni di esperienze e sperimentazioni sul modo di costruire e abitare lo spazio.

L’architettura, a differenza delle arti visive, non è solo raffigurazione della realtà: è la realtà, e la sua storia è quella di un flusso d’esperienze che dimostrano come l’uomo abbia cercato di abitare lo spazio riuscendovi, a volte, con sapienza e gioia e come questo sia ancora possibile.

Quindi non solo la storia della personalità degli artisti, non solo quello che è individuale ed unico, ma, soprattutto, se non vogliamo rendere allo studente un’immagine deformata della realtà contemporanea, quello che è generale e tipico.

Non ho considerato, in queste brevi riflessioni, discipline come l’urbanistica, il restauro, il paesaggio, per l’evidente ragione che costituiscono aspetti diversi di una comune disciplina di progetto dove l’oggetto è di volta in volta, la grande scala, l’eredità storica, la forma del territorio. Campi di applicazione che prevedono problemi e tecniche specifici, ma una comune formazione.

Per concludere.

Il progetto è dunque arte: non solo come espressione di un mondo individuale, nell’accezione romantica che da tre secoli informa la nostra disciplina, ma, se davvero vogliamo rinnovare il nostro insegnamento, come arte della sintesi, della capacità, insieme, di conoscere, interpretare, operare.

Credo che di questa considerazione si dovrebbe tener conto nella formazione delle nuove strutture per la didattica di architettura, cercando di superare il pericolo di arroccamenti e fughe specialistiche, attraverso il tentativo di una ristrutturazione orientata al principio di costruire una nuova scuola, dove il progetto non sia una delle discipline insegnate allo studente, ma possa, di nuovo, costituire il catalizzatore delle diverse discipline.

Un “organismo didattico” dotato della indispensabile elasticità e capacità di adattamento, ma dove anche, come in un’architettura ben disegnata, ogni elemento stabilisca con gli altri alcune solide relazioni di necessità, in modo che l’alchimia dei crediti non si sostituisca alla chiara visione dei fini dell’insegnamento.

E dove il recente titolo ministeriale di Scienze dell’Architettura non finisca per costituire un bizzarro esorcismo contro la corrente deriva irrazionale di un’ arte ed un insegnamento che rischiano di perdere il loro centro e la loro identità.

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Giovan BattistaMilani, , L’ossatura murale, Torino, s.d. [” 1920]

URBANISTICA E ARCHITETTURA DELLA CITTA’

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L’URBANISTICA E L’ARCHITETTURA DELLA CITTA’
Lezione del prof. Maurizio Marcelloni al corso di Figure dell’Architettura Contemporanea
appunti schematici a cura dell’ arch.  Giancarlo Galassi

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La lezione inizia richiamandosi al libro di Scipione Guarracino, Le et�
della storia. I concetti di Antico, Medievale, Moderno e Contemporaneo
,
(Bruno Mondadori,  2001) nel quale l’autore dimostra che la storia è sempre
finalizzata dagli storici alle proprie dimostrazioni.

Un termine per definire la crisi della città moderna, il passaggio
alla città contemporanea che avviene a partire dalla metà degli anni ’
70 del secolo scorso,  può essere quello di “ambiguità”.

Fino agli anni ’50 la città è “compatta” e si sviluppa per addizioni.
L’architetto-urbanista moderno, avendo questo modello di
riferimento, pensa all’ampliamento della città per addizioni in tre
dimensioni.

Al 1942 risale la legge urbanistica n.1150, una legge esemplare che è
stata presa a modello in tutta Europa.

In particolare sanciva che il Piano Regolatore Generale (PRG) è 1) esteso a tutto il territorio comunale 2) valido a tempo indeterminato, aprendo così un campo di lavoro immenso per gli
urbanisti e pianificando una strategia di sviluppo per i successivi 30-
40 anni.

La legge ha cominciato ad essere in realtà applicata, dopo la Ricostruzione,
dalla fine degli anni ’50 e con essa l’urbanistica perde la sua
tridimensionalità.

Numerose figure di urbanisti come Quaroni, Astengo, Samonà, Piccinato,
De Carlo… avevano continuato a impostare il loro lavoro in termini
tridimensionali ma quando l’adozione dei PRG diviene routine
professionale generalizzata, l’urbanistica perde il suo rapporto con la
terza dimensione e a questo si può schematicamente attribuire il rifiuto della pratica
urbanistica da parte di Quaroni mentre Astengo si adegua alle circostanze demandando a
una fase successiva, il Piano Particolareggiato Attuativo (PPA) il
problema della tridimensionalità.

A partire dalla fine degli anni ’70 si è cominciato a capire che il
PRG non funzionava perchè 1) prevedeva tempi troppo lunghi per il suo
completamento e 2) aveva bisogno di analisi complesse che richiedevano
a loro volta tempi lunghi che andavano ad aggiungersi alle lunghezze
dei tempi tecnici della burocrazia, determinando così, spesso, un
periodo di non meno di 10 anni per l’adozione di un piano.

Quando un PRG diviene legge (ci vogliono in media 10 anni perchè le decisioni prese in fase di progetto divengano norma) la città è già cambiata.

Cosa ha modificato la validità del PRG secondo la legge del ’42?  1)
La crisi economica dovuta al petrolio della metà degli anni ’70 che
mette in diffcioltàla produzione industriale elemento propulsivo della
conurbazione. Una conseguenza di questo fenomeno sono le aree dismesse
all’interno delle città. Utile il merito il testo di Jane Jacobs, Vita
e morte delle grandi città, Einaudi 1961 (rist. 2009).

Altro elemento di modificazione è stato  2) che tra la fine dei ’70 e
l’inizio degli anni ’80 la rivoluzione informatica cambia il modo di
comunicare così come ci ha chiarito nei suoi scritti Manuel Castells.

Ma c’è da dire che, se anche il telelavoro è ancora una prospettiva
importante per migliorare la qualità della vita in città, l’uomo
resterà sempre un’animale sociale e il problema del traffico non può
essere risolto nell’attesa della diffusione del telelavoro.

Ancora 30 anni fa era facile riconoscere un abitante della città da
un residente in un comune del circondario, oggi che la conoscenza, l’
informazione, si è generalizzata, non è possibile più riconoscere un
cittadino da un abitante di un piccolo centro.

Si inizia a pensare di dislocare funzioni urbane importanti nei
comuni circostanti la città, un’operazione che va sotto il nome di
competitività urbana.

Contro la decadenza delle città nascono i cosiddetti Piani
Strategici, ovvero i piani delle 4 / 5 cose che strutturalmente
consentano di far ripartire economicamente una città come accaduto a
Barcellona, a Birmingham e a Bilbao: si tratta di rimettere in modo,
decadute le industrie, il processo economico ricostruendone altrimenti
le basi.

A questo punto il piano del ’42 è in crisi definitiva. Le modalità di
intervento devono essere completamente altre, anche di riavvicinamento
tra architettura e urbanistica.

Ed è il Piano Urbano che fa saltare completamente un PPA e il PRG.

Le novità sono:

1) L’adozione di un Piano Strategico inteso non come piano
urbanistico in senso stretto ma tale da individuare pochi punti di
intervento che abbiano delle ricadute economiche: ad esempio la Nuova
Fiera di Roma vicino all’aereoporto o il nuovo Palazzo dei Cingressi
all’Eur, strutture che dovrebbero far risalire Roma nella classifica
delle città congressuali” (ora è al 75° posto), determinando un
importante indotto così come avvenuto a Barcellona e a Bilbao. Dal
punto di vista gestionale c’è da dire che Roma è molto indietro.

2) mettere in moto, tramite il Piano Strategico, un movimento di
autonomia dei comuni vicini. Cambiando i criteri localizzativi delle
funzioni strategiche si collocano importanti edifici fuori della grande
città secondo un processo di metropolizzazione della periferia.

Le funzioni prima localizzate nel Centro Storico vengono spostate in
piccoli comuni, vedi l’esempio del nuovo centro servizi della Banca d’
Italia a Frascati (4000 addetti).

Si passa così dal concetto di “area metropolitana” a quello di “citt�
metropolitana” proprio per il rapporto dialettico che si stabilisce tra
città e comuni del circondario.

Parigi in proposito si è inventata i grandi progetti di bordo
realizzati al confine tra la città e i comuni vicini.

La città metropolitana è fondata su un policentrismo a geometria
variabile.

3) Cambiare la tradizionale antitesi città-campagna cosicché l’
immagine più vicina alla città contemporanea è quella dell’arcipelago:
Roma come arcipelago metropolitano (Altre definizioni: metapolis, citt�
diffusa) con il vuoto della campagna è all’interno della città di
Roma.

Andrè Corboz in Ordine sparso – Saggi sull’arte, il metodo, la citt�
e il territorio,  Angeli 2006, scrive un testo sull’evoluzione dell’
urbanistica (anche su come si fa ricerca) ein particolare definisce il
territorio come palinsesto, il territorio ‘parla’ e definisce la
scomparsa della contrapposizione città-campagna.

Ilya Prigogine (premio Nobel per la chimica) ha sviluppato la Teoria
della Complessità che mette in crisi il positivismo che sosteneva che
la complessità potesse comunque essere disvelata per segmenti.
Prigogine sostiene che la complessità non si disvela, nell’universo
delle possibilità c’è un solo punto fermo: l’incertezza. Occorre
accettare questa incertezza e viverla bene!

L’urbanistica come programmazione non serve più, occorre, piuttosto,
partire dal basso e ogni volta ‘reinventare’. Gli urbanisti che hanno
pianto perché la realtà non andava secondo i loro PRG hanno allora
messo in crisi i loro strumenti (cfr. un articolo di Bernardo Secchi, I
tempi sono cambiati).

I nuovi strumenti che cercano di stare al passo con la complessit�
sono: 1) la Pianificazione Strategica e 2) la Pianificazione
Strutturale. Vengono selezionati solo alcuni elementi che strutturano
il territorio: la viabilità, il sistema ambientale ecc…, tutto il resto
è demandato ad altre figure, a piani locali.

Il vecchio PRG conteneva tutto, oggi invece con una maggiore
flessibilità, si demanda a piani di scala inferiore.

Tra gli strumenti operativi non si parla più di PPA o di
lottizzazione ma di Programmi Integrati (PrIn) che tengono in
considerazione tutti le figure che operano nel territorio.

Il Progetto Urbano diviene uno strumento complesso che interviene su
un pezzo di città trasformandolo fisicamente e funzionalmente. Il
progetto si cala a scala urbana nella realtà esistente contribuendo a
migliorare la qualità della vita delle persone che abitano il
territorio oggetto d’intervento.

I nuovi metodi sono 1) “Pianificar facendo” invertendo il meccanismo
dialettico tra strategie  e operazioni concrete di costruttori e
pianificatori. La processualità allora è fondamentale: il piano viene
aggiornato con il contributo di tutti i soggetti coinvolti (le
ferrovie, la regione…).

Il piano di Roma, già attuato in questo senso, ha sconvolto gli
urbanisti.

Insomma: gestione e attuazione camminano insieme.

Altro metodo: 2) Progetto Urbano e Policentrismo: formazione di
grandi magneti di rango urbano che competono con il centro storico e
riqualificano le periferie.

Di fronte alla complessità non ci sono scorciatoie, l’urbanistica
tradizionale ha le armi spuntate.

La sperimentazione ha trovato inoltre, con la recente crisi economica
(una crisi tipica di una società postindustriale) una nuova ragione.
Alla crisi economica si somma poi la crisi ambientale.

In Inghilterra esistono i cosiddetti piani di Transition City che
sperimentano modelli di sviluppo sostenibile prevedendo in 10/15 anni
un cambio di stile di vita.

Per spiegare la complessità proprio Prigogine usa la metafora della
città, esemplare organismo dissipativo cioè in grado di consumare più
di quanto produce.

L’architetto urbanista contemporaneo deve forzare al massimo le
possibilità che gli sono offerte; densificare salvando la
discontinuità, in una condizione di trasformazione continua che
utilizzi la mixité, le funzioni integrate miste.