mercoledì 21 novembre 2018, h.16.30
Facoltà di Architettura. Aula Magna.
Piazza Fontanella Borghese
mercoledì 21 novembre 2018, h.16.30
Facoltà di Architettura. Aula Magna.
Piazza Fontanella Borghese
This lecture will be based on a research focusing on the Nanjing City Wall led by Prof. Cheng Yuning for more than 15 years. The lecture will be divided into 3 parts. Firstly, a brief review on the origins and development of China’s city wall, including Nanjing, will be introduced. Then, a specific spatial analysis will be carried out to compare the different development periods of the city and the surrounding space in history. The space evolution and the relationship between the city and the wall will be demonstrated and summarized. In the end, an urban project including the city wall area design, preservation guidelines and the detailed design of each wall segment will be presented for discussion.
di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 4 marzo 2013
Il vuoto urbano tra piazza della Moretta e il Tevere, derivato dalle demolizioni operate nel ’39 per unire piazza della Chiesa Nuova a ponte Mazzini, è uno dei nodi architettonici più controversi del nostro centro storico.
Dopo la guerra, tra le tante rovine lasciate dal fascismo, la ferita di piazza della Moretta è divenuta quasi un simbolo, un buco nero della memoria urbana sul quale si sono esercitati infiniti architetti sperimentando idee, metodi, progetti. Su fronti opposti. All’inizio degli anni Ottanta, ad esempio, Maurizio Sacripanti vi pose il suo fantasmagorico e provocatorio Museo della Scienza; non molto dopo Gianfranco Caniggia indicò, al contrario, la via del “riammagliamento”, la continuazione dell’edilizia storica, come se la città ricucisse le proprie ferite.
Che questa lunga e nobile storia di riflessioni e confronti si debba concludere, come sembra ormai stabilito, con la desolante decisione di costruire un albergo di lusso, a sorpresa, senza un concorso, senza alcuna partecipazione, sembra un segno dei tempi.
Ci sarebbe molto da discutere su come i pilastri delle nuove costruzioni invaderanno i fragili resti antichi o su quale interesse pubblico giustifichi un enorme intervento che attrae traffico proprio in un luogo che dalle auto andrebbe solo difeso. E non si comprende quale logica la Soprintendenza abbia seguito, quali illustri opinioni abbia ascoltato per permettere che s’intervenga tanto pesantemente sull’immagine di un luogo straordinario come via Giulia, la strada più importante dell’intero Rinascimento italiano, dove hanno lasciato il segno Bramante, Borromini, Sangallo.
Ma il problema è più generale: riguarda il modo casuale e senza regole attraverso il quale i nuovi interventi sembrano “capitare” in un centro storico abbandonato agli interessi privati.
Perché, a seguire la tragicomica successione degli eventi, sembrerebbe proprio che al nuovo progetto si sia arrivato “per caso”. Nel 2009 iniziano i lavori per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. A scavo inoltrato, ecco la sorpresa: si scopre che il sottosuolo di Roma è inaspettatamente ingombro di rovine antiche e che i lavori, purtroppo, non possono andare avanti. Però il Grande Buco è stato ormai creato, insieme a un potenziale contenzioso con la Cam, la società appaltatrice. E allora, che fare? Nulla. Meglio attendere. Finché, quando l’attenzione è distratta dalle elezioni, appare una soluzione già definita, conciliatoria. Un progetto con tanto di approvazioni e pareri favorevoli, bell’e pronto per essere realizzato: oltre all’hotel a cinque stelle, un ristorante, appartamenti di lusso in vicolo delle Prigioni e sul lungotevere e, visto che ci siamo, altre abitazioni su un’area libera in via Bravaria che nulla ha a che vedere con lo scavo. E poi posti auto, un urban center con sala per eventi e convegni… E, al di sotto, le ossa degli stabula romani, centro e ragione dell’intera operazione, sepolte tra fondazioni e parcheggi.
Un disastro urbano legato a un affare immobiliare che la società Cam definisce, con involontaria ironia, “l’unica soluzione sensata e storicamente fondata”.
di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 02.09.2004
Nel 1527 il topografo Marco Fabio Calvo leggeva nei resti della Roma antica, da quella quadrata di Romolo a quella radiocentrica di Augusto, geometrie sempre più complesse che finivano per proporre, insieme, una ricostruzione simbolica e una figura di città ideale: i frammenti enigmatici e inselvatichiti dell’impianto antico sembravano annunciare, agli occhi degli uomini del Rinascimento, la forma condivisa della città ideale e futura.
Ma la coscienza dell’antico come patrimonio collettivo doveva essere già viva fin dal V secolo se editti come quelli emanati dagli imperatori Onorio e Maggioriano richiedevano che le spoglie della passata grandezza fossero reimpiegate solo per costruire nuove opere pubbliche. Un riuso, peraltro, nel quale l’intelligenza del ruolo strutturale e simbolico della rovina costituiva, quando la scarsità di risorse induceva al saccheggio dei monumenti classici, una forma attiva di tutela. Forse l’esito più alto della familiarità romana con l’antico è stato fornito dal genio di Michelangelo con la sintesi architettonica di S.Maria degli Angeli, dove gli spazi solenni e la materia stessa delle terme di Diocleziano vengono trasmessi alla basilica cristiana. In questa consuetudine, profonda e ammirata, con un passato operante che pervade la città moderna e che abita come sostrato profondo i suoi edifici, è contenuto il carattere più autentico della Roma storica: materiale magmatico composto di segni sparsi, frammenti esplosi e riassorbiti il cui senso è dato dalla loro inevitabile associazione alle forme della vita che fluisce. Sulla comprensione di questo dato evidente e sul rispetto scrupoloso delle testimonianze dovrebbe essere fondata, credo, ogni operazione sul patrimonio archeologico. Mostrando due opposti pericoli.
Il primo è costituito dall’irruzione nelle aree archeologiche dell’architettura internazionale “firmata”. La qualità delle trasformazioni non può essere assicurata invitando, come sembra si voglia fare, architetti dello star system a presentare progetti che saranno giudicati da colleghi di uguale orientamento. Il nostro patrimonio archeologico non ha bisogno di immagini spettacolari che ridurrebbero, secondo un dilagante “effetto Bilbao”, i resti antichi a sfondo di estetizzanti virtuosismi (va riconosciuto a Massimiliano Fuksas, in proposito, il merito di aver presentato la sua proposta come diagramma e affermazione di principio).
Il secondo è costituito dalla deriva specialistica di un’archeologia intesa come scienza da laboratorio, che accumula conoscenze attraverso l’indagine e le ordina in polverosi scaffali. Lo scavo, senza un’idea di città che unisca restauro e ruolo contemporaneo delle testimonianze antiche non è solo è inattuale, può essere dannoso. E poiché il nome che si da alle cose finisce per trasformarle, forse dovremmo smettere di impiegare termini come “parco archeologico” che prefigurano la fine del ruolo vitale dell’antico e la sua trasformazione in oggetto di una contemplazione antiquaria e vagamente cimiteriale.