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ALESSANDRO ANSELMI arte e figure della modernità

locanselmi

nuovo corso di laurea triennale in scienze dell ’architettura
laboratorio di lettura e progetto dell ’architettura

ALESSANDRO ANSELMI
arte e figure della modernità

Ciclo di conferenze del nuovo corso di laurea triennale in scienze dell ’architettura

Introduce
Giuseppe Strappa

Intervengono
Paola Veronica ell ’Aira
Alfonso Giancotti
Luca Reale

lunedì 19 dicembre,2011,ore 12,00
Facoltà di Architettura,sede di Valle Giulia
via A.Gramsci 53,Aula Fiorentino

Organizzazione
Alessandro Camiz

Segreteria
Alessandro Bruccoleri,Pina Ciotoli,Virginia Stampete,Endriol Doko

 

l’arte della progettazione e l’avvenire delle scuole di architettura in italia

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Universita’ degli studi di Roma “La Sapienza”

Facoltà di Architettura “Valle Giulia”

Venerdì, 18 aprile 2008

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LECTIO MAGISTRALIS

l’arte della progettazione e

l’avvenire delle scuole di architettura in italia

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Prof.Giuseppe Strappa,

ordinario di Progettazione architettonica e urbana

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Il titolo generale di queste lezioni riguarda il ruolo sintetico dell’insegnamento della progettazione.

Non è un titolo neutrale.

Il momento attuale vede anzi, in Italia, una progressiva frammentazione e specializzazione della didattica di architettura, con le conseguenti derive tecniche da una parte, ed artistiche, dall’altra, ponendo quesiti ai quali, ritengo, la riforma stessa dei nostri corsi di laurea dovrebbe dare una risposta.

La tesi di questa lezione è che occorra riconsiderare per intero l’insegnamento della progettazione intendendolo soprattutto nella forma di una scuola.

La scissione cui ho fatto cenno, peraltro, tra le due anime dell’architettura, sintetica e analitica, è parte costituente, da lungo tempo, della pratica e della didattica di progetto.

Questa condizione sembra anzi informare un intero ciclo della storia stessa dell’architettura nel quale possono essere riconosciute due fasi segnate da due opposte condizioni di crisi.

La prima è costituita dalla nascita della grande ingegneria ottocentesca che rivendicava una propria autonomia estetica la quale finiva per relegare il ruolo dell’architetto in uno specialismo comunemente indicato, con una contraddizione terminologica, “artistico”.

Una divisione che non era affatto insita nello spirito dei progressi della scienza i quali sembravano, al contrario, predisporre all’unità delle discipline di progetto.

Io credo che gli architetti non seppero cogliere, allora, le grandi prospettive di reale sintesi artistica aperte dalla comprensione del rapporto tra sapere scientifico e forma architettonica.

Claude-Louis Navier ad esempio, aveva esposto, già nella prima metà dell’Ottocento, attraverso la sua rivoluzionaria raccolta di lezioni di Scienza delle costruzioni un’interpretazione “architettonica” del problema strutturale, legando la lettura della realtà fisica al metodo operativo, la scienza all’estetica.

Anche se sotto il solo aspetto della costruzione, Navier aveva gettato le premesse per distinguere alcuni caratteri fondamentali degli organismi architettonici: la serialità di strutture nelle quali i diversi elementi sono sostituibili senza che cambi il carattere dell’intera struttura, dalla progressiva organicità di altre nelle quali ogni elemento stabilisce con il suo intorno un rapporto di necessità tale che la sua stessa forma e dimensione influenza il carattere dell’intero organismo.

Il termine “congruenza”, impiegato nella soluzione dei problemi iperstatici, legava insieme deformazioni, sollecitazioni e forma delle strutture, ed è lo stesso termine che può essere impiegato per leggere la progressione di organicità nelle architetture, il loro graduale predisporsi alla collaborazione.

La stessa nozione di vincolo, contribuiva a spiegare, in termini logici, uno degli aspetti della nozione di nodo che gli architetti del passato avevano sempre intuito.

Molte delle considerazioni sulla conformità e proporzione tra le parti di una costruzione elaborate per secoli dai trattatisti, trovavano un primo legame, seppure parziale, con la fisica e la matematica, dimostrando come intuizione e scienza potevano divenire due aspetti di uno stesso processo di conoscenza: espressione, appunto, dell “arte della costruzione”.

L’inadeguatezza a comprendere questo momento di potenziale sintesi era, in realtà, conseguenza di una trasmissione dei saperi fondata sulla scissione tra Écoles des Ponts et Chaussées e Academies des Beaux-Arts, portato di una cultura della progressiva specializzazione del lavoro funzionale ai nuovi equilibri sociali ed economici.

Aspetto, quest’ultimo, che Schopenhauer metteva in luce con profetica chiarezza, peraltro, con la pubblicazione del suo “La filosofia delle università” denunciando il ruolo funzionale dell’ insegnamento universitario al potere economico e politico.

Solo un grande, dimenticato architetto e ingegnere romano, Giovan Battista Milani, tradurrà, molto tempo dopo, queste considerazioni in didattica progettuale riproponendo la nozione di organismo come sintesi di strutture collaboranti, come solidarietà tra costruzione e forma.

E, tuttavia, la parzialità delle successive ricerche, non solo tecnico-scientifiche, dimostra come le conseguenze della crisi sia ancora operante, le contraddizioni non risolte.

Questa lunga frattura ha condotto, ritengo, ad una seconda fase di crisi, ancora in corso, simmetrica ed opposta alla precedente, individuabile nell’esaltazione di nuovi specialismi, che inducono alla contemporanea subordinazione dell’intero organismo architettonico alla potenza mediatica di forme elaborate con tecniche analogiche, funzionali al mercato globale dell’immagine.

Il nuovo distacco tra forma e costruzione, il fascino della grafica computerizzata che trascina ad equivocare il mezzo col fine, induce, questa volta, ad esaurire per intero il senso della costruzione nella sua autonoma superficie, proprio quando la tecnica,di nuovo, consentirebbe inediti strumenti di progetto capaci di controllarne, insieme, tutte le componenti. Il risultato è quello di una città dispersa costituita da oggetti non collaboranti, della perdita della nozione di tessuto,

Nell’ansia di immergersi nella contemporaneità, le università hanno coltivato un vero, nuovo genere letterario che sembra produrre una sorta di consenso estetico a questa forma della città contemporanea.

Vorrei dire in proposito, anticipando alcune conclusioni, che forse, al contrario, non bisognerebbe aver paura di introdurre nel nostro insegnamento quel tanto di inattuale che permetterebbe di vedere le cose in prospettiva, favorendo la formazione di una coscienza critica rispetto alle presenti condizioni della città.

In realtà il termine crisi dovrebbe contenere, come indica la sua etimologia, la nozione di critica: la messa in discussione di una realtà in trasformazione che, per ora, sembra ancora non aver luogo.

Si ripropone, ancora una volta, l’inadeguatezza delle università a fornire un’ analisi e un giudizio indipendente dalle condizioni stabilite dal potere. Con la differenza che il potere è ormai costituito da un sistema di mercato sovranazionale nel quale l’ informazione svolge un ruolo fondamentale di mediazione.

Non a caso in molte nostre facoltà vengono proposti come esempi di ricerca progressiva le opere delle grandi firme internazionali, le quali producono, con ogni evidenza, architettura ufficiale. E cioè, per definizione, il contrario stesso della sperimentazione.

Parafrasando una citazione tratta dallo scritto di Schopenhauer sulle università si potrebbe affermare che oggi, di fatto “se un’idea (ma anche un progetto) nega i principi della città contemporanea essa è ritenuta falsa, oppure, anche se vera, è inutile”.

Oggi, in un mondo in convulso e spesso drammatico cambiamento, è invece necessario ripensare in termini liberi e critici la forma dell’architettura, della città, del territorio. Collegandola a necessità reali.

Eppure perfino di fronte alle immense conurbazioni che sorgono nelle aree più povere del mondo, ad esempio, o di fronte alle distruzioni e alle emergenze delle aree di conflitto, l’architetto sembra invece, auto-esonerarsi dal penetrare nella struttura dei problemi, osservare da lontano e proporre distaccate considerazioni estetiche, come isolato in un grazioso salotto.

E veniamo alla nostra situazione.

Non occorre ricordare come nella didattica di architettura italiana la scissione cui ho fatto cenno abbia configurato un doppio binario formativo il quale, originato dalle accademie di Belle Arti e dai Politecnici, giustappone senza fonderli due opposti tipi insegnamento: intuitivo-artistico l’uno, logico-tecnico l’altro.

Una dicotomia che non solo si va accrescendo, ma che si ripropone oggi in modo ancora più chiaro con la formazione di due corsi di laurea paralleli (in architettura e in ingegneria-architettura) che hanno uguale fine ma ambiti culturali assai diversi.

Credo che l’origine di molti dei problemi della nostra didattica progettuale derivi dal fatto che la formazione delle facoltà di architettura ha recepito appieno lo spirito e la logica dell’insegnamento universitario.

L’ università è il luogo dove si insegnano i principi universali di ogni disciplina la quale, per questo, possiede un corpus autonomo di regole e metodi.

La sua origine, va ricordato, è legata alla sabauda legge Boncompagni che possedeva un forte carattere centralista e statalista, carattere che è rimasto nonostante le tante riforme apparentemente autonomistiche succedutesi nel tempo. Al loro interno le facoltà sono, per istituzione, strutture amministrative delegate a coordinare corsi di studio cui afferiscono discipline indipendenti, “liberate” dall’onere dei rapporti reciproci, legate dalla sola affinità scientifica. La ricerca e le relative occasioni di sintesi avvengono invece all’interno dei dipartimenti, in luoghi lontani dalla didattica.

Ma le esigenze dell’insegnamento del progetto vanno nella direzione opposta.

Io credo che l’avvenire dell’insegnamento dell’architettura non risieda nell’affrontare la complessità del mondo contemporaneo inseguendone i frammenti specialistici, come si è ritenuto di fare con la prolificazione delle lauree triennali, spesso statuti spesso incerti e fragili, ma nella rifondazione del centro disciplinare delle scienze di architettura, che non può che essere la sintesi progettuale.

Occorre cioè rifondare una scuola come luogo dove tutte le discipline, pur nella totale libertà di ricerca, collaborino (convergano) ad un comune fine didattico.

La tradizione moderna indica, peraltro, questa direzione, confermata non solo da esempi internazionali come il Bauhaus, ma anche dal dibattito italiano sulla formazione delle scuole di architettura che, profeticamente, educatori come Camillo Boito avrebbero voluto tenere lontane dalla logica universitaria.

La stessa tradizione di Valle Giulia, dalla sua fondazione nel 1921 è stata quella di una scuola dove Gustavo Giovannoni sulla scia delle convinzioni di Boito, proponeva la figura dell’”architetto integrale”, nella quale ogni materia impartita doveva essere finalizzata alla comprensione della realtà costruita e della sua storia, comprensione che per larga parte doveva coincidere col progetto stesso.

Oggi quel tipo di insegnamento non è più attuale.

Non solo per il numero degli studenti che sono passati dagli iniziali 55 a diverse migliaia, ma perché sono cambiate le condizioni al contorno: il mercato del lavoro, la complessità delle tecniche, la divisione del processo produttivo. E, tuttavia, ritengo, rimangono vitali alcuni principi fondanti.

Perché le mie affermazioni non sembrino astratte, vorrei proporre tre argomenti concreti di riflessione su come i diversi ambiti disciplinari potrebbero concorrere, a mio avviso, alla formazione di una scuola.

I materiali e le strutture

Proprio il processo di crescente astrazione del modo con cui viene comunicata l’architettura, insieme alla progressiva specializzazione delle discipline che concorrono al progetto, ha indotto a considerare i materiali, gli elementi, le strutture che danno forma all’organismo architettonico come la conclusione di un processo ideativo, la parte che riguarda la “realizzazione” , la traduzione di un programma in realtà costruita.

La conseguenza è che gli studenti “subiscono” oggi la tecnica costruttiva come un pesante compromesso tra ideazione soggettiva e realtà materiale.

In una scuola di architettura il loro studio dovrebbe indicare come materiali e strutture siano parti costituenti dell’invenzione stessa della forma.

Anzi, se si può propriamente parlare di atto “creativo” nel mestiere di architetto, questo riguarda la scelta del materiale, l’attribuzione (che è frutto della nostra coscienza) di caratteri alla materia, riconoscendone le attitudini alla costruzione.

Presso ogni civiltà la creazione è soprattutto ordinamento della materia operato distinguendone i caratteri con un gesto che è, dunque, fondamentalmente architettonico: la trasformazione del caos iniziale della materia in cosmos, in sistema ordinato di elementi.

Credo che se vogliamo proteggere i nostri studenti dalla cultura delle riviste, insegnare loro a non imitare, ad essere originali, dobbiamo indicargli questa origine, anche fisica, delle cose.

Si pensi, a dimostrazione di quanto detto, al flusso di materiali innovativi che stanno irrompendo nel modo dell’architettura contemporanea (vero caos artificiale che attende di essere trasformato in cosmos) al quale l’architetto ha il compito di attribuire carattere e finalizzazione costruttiva. In modo non molto diverso, a ben guardare, dal primo costruttore che si trovava, all’origine stessa dell’architettura, di fronte alla diversa plasticità della pietra e dell’argilla o all’elasticità dei rami e del tronco d’albero.

E’, in fondo, l’eterna nozione aristotelica di “materia segnata”, che andrebbe riconsiderata in un momento nel quale la ricerca sulle strutture segue ormai una specializzazione estrema, una deriva matematica ed astratta che sembra far perdere, come ci ha insegnato Edoardo Benvenuto, il contatto con la fisicità dei materiali e la forma concreta delle cose.

Credo che dovremmo far comprendere soprattutto ai nostri studenti come l’architettura sia una condizione di precario equilibrio nel grande flusso delle trasformazioni della materia e della storia, e poi riproporre in questa luce l’insegnamento di Mies Van der Rohe che spiegava come “ nuovi materiali, nonché nuovi sistemi costruttivi, di per sé non garantiscono alcuna superiorità. Ogni materiale vale per quello che si sa ricavarne.”

La rappresentazione

Quest’area disciplinare ha sempre avuto, nella Scuola romana, un fondamento critico, a partire dal “rilevamento filologico” di Giovannoni, che prevedeva lo studio “anatomico” dell’organismo costruttivo e il suo collocamento nel contesto più generale dei tipi consolidati, Non a caso nei disegni che ci sono pervenuti di Giovannoni non è possibile spesso distinguere la parte di rilievo dalla ricostruzione per fasi.

E in tempi più recenti i corsi di elementi di architettura e rilievo dei monumenti, confermavano come, almeno nelle intenzioni, lettura e progetto dovessero essere legate nello stesso insegnamento.

Un particolare problema ha sempre posto, sotto questo aspetto, l’insegnamento di disegno dal vero che ha costituito fino a tempi recenti uno strumento fondamentale dell’educazione al progetto.

La sua decadenza negli insegnamenti di architettura è molto precedente all’introduzione del disegno al computer. Nel ’57, in occasione del 1° Convegno dei docenti di Disegno dal Vero, a Firenze, Luigi Vagnetti poneva con molta chiarezza il problema, sostenendo che se il disegno doveva avere solo valore strumentale, sarebbe stato opportuno toglierlo dagli insegnamenti di architettura perché l’abilità manuale che ne derivava poteva essere ottenuta come esito secondario di molti altri insegnamenti.

E tuttavia, notava Vagnetti, alcuni dati della realtà non possono essere indagati attraverso alcuna “scienza del disegno” perché sono legati a fenomeni “la cui percezione ed il cui studio non sopportano il binario di alcuna teoria scientifica”.

Credo che, nell’attuale fase di progressiva astrazione del rapporto tra realtà e rappresentazione, recuperare la relazione diretta tra l’occhio che osserva e la mano che disegna possa essere ancora uno strumento fondamentale di educazione.

Ma va anche compresa la grande utilità didattica delle nuove tecniche dove software innovativi consentono la costruzione diretta della forma, non la sua derivazione da processi simbolici. Un procedimento che consente di superare l’eterno problema della rappresentazione del progetto secondo i piani della pianta, della sezione e del prospetto che, come sa bene ogni docente di progettazione, costituiscono un ostacolo alla trasmissione dell’idea sintetica di forma come aspetto visibile del sistema di relazioni tra spazio e materiali organizzati in strutture.

La storia, infine

Sull’utilità e sul danno della storia per gli architetti si è scritto molto.

Lo stesso Piacentini scriveva che “la storia non può darci suggerimenti per la vita di tutti i giorni”

La salvezza dalla storia (intuizione latente nel pensiero moderno che i grandi architetti del passato, tuttavia, inconsciamente possedevano) consiste nel riconoscere i nessi che individuano nel tempo la struttura processuale profonda e operante dei fenomeni, nel coglierne la capacità di rigenerazione a partire dalle matrici formative.

Questo uso della storia dovrebbe liberarci, auspicabile corollario, tanto dalle letture estetizzanti che hanno contribuito ad immettere la nostra disciplina nel circuito del puro consumo dell’immagine, quanto dalla storiografia intesa come museo, in fondo, davvero poco utile.

Io credo, dunque, che la storia, agli architetti, serva moltissimo. Non la storia consolatrice, quella che Nietzsche definiva “storia monumentale” del passato come modello, ma la storia critica, la comprensione dei processi formativi che servono all’operare

I padri fondatori di questa Scuola insegnavano la storia dei monumenti come riprogettazione.

Vincenzo Fasolo ricostruiva alla lavagna l’essenza degli organismi architettonici spiegandone i rapporti di necessità tra le parti, come costruendoli davanti agli occhi degli studenti. Era storia, la sua, ma anche disegno, strutture, progetto.

E “la storia operante “ di Saverio Muratori come la “critica operativa” di Bruno Zevi possono essere riguardate come diversi aspetti del comune problema di leggere la storia come rivolta al mondo concreto delle azioni umane, stratificazioni di esperienze e sperimentazioni sul modo di costruire e abitare lo spazio.

L’architettura, a differenza delle arti visive, non è solo raffigurazione della realtà: è la realtà, e la sua storia è quella di un flusso d’esperienze che dimostrano come l’uomo abbia cercato di abitare lo spazio riuscendovi, a volte, con sapienza e gioia e come questo sia ancora possibile.

Quindi non solo la storia della personalità degli artisti, non solo quello che è individuale ed unico, ma, soprattutto, se non vogliamo rendere allo studente un’immagine deformata della realtà contemporanea, quello che è generale e tipico.

Non ho considerato, in queste brevi riflessioni, discipline come l’urbanistica, il restauro, il paesaggio, per l’evidente ragione che costituiscono aspetti diversi di una comune disciplina di progetto dove l’oggetto è di volta in volta, la grande scala, l’eredità storica, la forma del territorio. Campi di applicazione che prevedono problemi e tecniche specifici, ma una comune formazione.

Per concludere.

Il progetto è dunque arte: non solo come espressione di un mondo individuale, nell’accezione romantica che da tre secoli informa la nostra disciplina, ma, se davvero vogliamo rinnovare il nostro insegnamento, come arte della sintesi, della capacità, insieme, di conoscere, interpretare, operare.

Credo che di questa considerazione si dovrebbe tener conto nella formazione delle nuove strutture per la didattica di architettura, cercando di superare il pericolo di arroccamenti e fughe specialistiche, attraverso il tentativo di una ristrutturazione orientata al principio di costruire una nuova scuola, dove il progetto non sia una delle discipline insegnate allo studente, ma possa, di nuovo, costituire il catalizzatore delle diverse discipline.

Un “organismo didattico” dotato della indispensabile elasticità e capacità di adattamento, ma dove anche, come in un’architettura ben disegnata, ogni elemento stabilisca con gli altri alcune solide relazioni di necessità, in modo che l’alchimia dei crediti non si sostituisca alla chiara visione dei fini dell’insegnamento.

E dove il recente titolo ministeriale di Scienze dell’Architettura non finisca per costituire un bizzarro esorcismo contro la corrente deriva irrazionale di un’ arte ed un insegnamento che rischiano di perdere il loro centro e la loro identità.

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Giovan BattistaMilani, , L’ossatura murale, Torino, s.d. [” 1920]

ROMA RITESSUTA

Sapienza Università di Roma – Ateneo Federato dello Spazio e della Società – Dipartimento di Architettura e Costruzione
Lpa laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura
LABORATORIO DI PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA 2A Prof. Giuseppe Strappa
Prospettive per l’edilizia pubblica nel sesto Municipio
ROMA RITESSUTA

Introduce Benedetto Todaro Preside della Facoltà di Architettura “Valle Giulia
Coordina Giuseppe Strappa Direttore laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura

Interventi Giovanni Carapella Presidente Commissione Lavori Pubblici, Regione Lazio
Giammarco Palmieri Presidente Sesto Municipio, Roma
Sandro Sanguigni Assessore all’Urbanistica, Sesto Municipio, Roma
Maria Giovanna Musso, Facoltà di Sociologia, Sapienza Università di Roma
Laura Valeria Ferretti Facoltà di Architettura “Valle Giulia”
Alessandro Camiz Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2A
Paolo Carlotti Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2A
Giancarlo Galassi Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2A
Organizzazione Alessandro Camiz
Segreteria Francesco Storto
19 marzo 2009, ore 16.00
Aula 4 – Facoltà di Architettura “Valle Giulia”
Via Antonio Gramsci 53, Roma

 

L’AMPLIAMENTO DEL CIMITERO DI TERNI



di Giuseppe Strappa

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in Oltre l’architettura moderna ,  «Quaderni di Ajòn», Firenze 2006

Il nuovo cimitero civico di Terni nasce dalla lettura dei tipi architettonici che la storia delle sepolture ha sedimentato nel corso del tempo e dalla riflessione sulla natura del luogo, un’area ancora rurale ai confini della città. Lettura che ha indicato l’idea di rendere evidente l’appartenenza delle nuove costruzioni alla vita urbana, allo stesso modo dei luoghi di sepoltura antichi attraverso i quali i cittadini, sepolti ad santos et apud ecclesiam, facevano ancora parte, in qualche modo, della vita pubblica con il ricordo del loro esempio, delle loro virtù e delle loro passioni.
Ma la città contemporanea, e forse la città di ogni tempo, non è il luogo sicuro, meno che mai del riposo sereno mentre la memoria, o meglio l’immaginazione,  associa la campagna umbra alla serenità del lavoro agricolo. Per questo l’immagine del nuovo cimitero di Terni è il prodotto di una diade di termini opposti e complementari: una parte di città e, insieme, un giardino protetto, dove le mura che separano la vastità del territorio esterno rivendicano il diritto delle memorie più care a restare al di qua del confine. Anche i grandi crateri esprimono, insieme all’allusione al ciclo agrario (al ritorno alla Terra Madre) la partecipazione alla memoria e al dolore collettivo.
La ratio generale è fondata sull’affinità, logica e storica, con i principi di trasformazione tipici, e ancora operanti, dei tessuti edilizi: su aggregazioni di elementi seriali unificati da percorsi, collaboranti a costituire organismo. La lettura dei processi formativi ha fornito, anche, preziose indicazioni sul carattere della costruzione. La scelta di strutture di tipo plastico-murario è legata alla nozione di “area culturale”, a quelle qualità specifiche che costituiscono uno dei fattori più vivi di continuità nelle comunità civili che hanno trasformato nei secoli questo territorio (se il termine non avesse dato luogo a infiniti equivoci si potrebbe parlare di una “coscienza spontanea” ancora operante).
La stessa, necessaria, continuità della costruzione murararia stabilisce,   all’interno delle pareti, forma e posizione degli elementi secondo un’organica gerarchizzazione tra le parti, che differenzia, ad esempio, la fascia basamentale dall’elevazione e dalla fascia di unificazione, (qui costituita dalla trave sagomata continua alla sommità della parete) in sintesi la porzione massiva e opaca dalla conclusione della copertura, leggera e trasparente.
Il nuovo cimitero è, dunque, del tutto convenzionale: la lingua che impiega deriva da codici comuni; le sue forme dalla profondità della storia, dove esistevano latenti, preformate, in attesa di essere portate alla luce. La selezione dei materiali (ed il linguaggio ad essi associato) ha tenuto semplicemente conto delle trasformazioni e aggiornamenti introdotti dalla modernità. Nella Terni contemporanea paesaggio industriale, tessuto urbano e mondo rurale sembrano avere insolitamente trovato, fin dalle trasformazioni ottocentesche, un modo di fondersi con qualche armonia, o almeno di convivere senza recarsi reciproche offese. Questa riflessione ha indotto ad apportare sostanziali modifiche ai disegni di concorso con l’introduzione delle coperture metalliche e delle bielle in ghisa che le sorreggono, e poi del carattere elastico delle torri per le scale, dove i telai   metallici sostengono le chiusure in mattoni.


gruppo di progettazione: Giuseppe Strappa (capogruppo), Tiziana Casatelli, Paola Di Giuliomaria, Mario Pisani, Elmo Timpani.

LE POLEMICHE PER PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 04.08.2006

Dopo i problemi sollevati dalla distruzione del complesso dell’Ara Pacis, la proposta di demolire gli edifici “brutti” costruiti da Vittorio Ballio Morpurgo intorno al Mausoleo di Augusto potrebbe essere considerata una bizzarra esercitazione accademica se non fosse avanzata da due autorità dell’urbanistica e dell’archeologia romane con serie possibilità, quindi, di concreto seguito.
Certo, nel clima delle rivalutazioni, spesso indiscriminate, che hanno investito il dibattito romano degli ultimi vent’anni, la figura di Morpurgo ha la colpa di non essere stata oggetto di alcuna riscoperta, ultimo esempio di architetto dannato dagli errori della retorica fascista.
Ma non è possibile evitare di domandarsi cosa si ricostruirà sulle rovine degli edifici eretti alla fine degli anni ’30 a conclusione di studi che si erano estesi, almeno, dal piano del 1909 a quello del 1931. Un nuovo spazio aperto che lascerà in vista i disomogenei prospetti di via della Frezza, fuori scala, peraltro, rispetto all’immenso vuoto della nuova piazza? Oppure un’architettura di lacerazioni, alla Zaha Hadid, magari avallata da una commissione di concorso formata dai soliti esperti che guardano con ansia ritardataria alle mode internazionali?
Scenari che consigliano di riconsiderare meglio gli edifici esistenti, dimenticando i pregiudizi di una critica frettolosa: come se si osservassero per la prima volta (“il mondo comune osservato in modo non comune” come consigliava De Chirico). Forse, allora, si scoprirebbe il fascino severo che i vasti colonnati dalle ombre nette contengono, l’attenzione per le trasparenze e i raccordi con le strade sul perimetro, dei quali quello con largo dei Lombardi ha la forza autentica di una visione piranesiana. Una rilettura “del tipo medio delle case-palazzo che caratterizza le strade tradizionali”, come scriveva Morpurgo in una dimenticata relazione al progetto, che irrigidisce il mutevole mosaico dell’edilizia romana nella fissa, metafisica unità, depurata di ogni pulsione, delle superfici in travertino.
E poiché nessuno, oggi, avrebbe l’inattuale coraggio di costruire una simile quinta plastica e muraria, piena e pesante come nella consuetudine romana, mi permetto di consigliare di tenerci quella che abbiamo.
Ma una seconda domanda è inevitabile. L’intervento di demolizione e ricostruzione costerebbe centinaia di milioni, comporterebbe un gigantesco cantiere aperto nel cuore di Roma per molti anni. Perché?
Sia chiaro: l’atto della demolizione è parte legittima della storia di ogni città, il riconoscimento di una ferita grave alla sua forma per il cui risarcimento vale la pena di investire risorse. Ma, proprio per questo, non può che derivare da valori condivisi. C’è da chiedersi allora se, nella scala degli errori romani, non debbano avere la precedenza disastri reali, come il viadotto dello Scalo San Lorenzo, i “ponti” del Laurentino 38, qualcuno dei vergognosi formicai per abitazione costruiti negli anni ’70. E prima ancora i tanti abusi edilizi che hanno sfigurato la forma della città, molti dei quali in pieno centro storico.