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ALFIO SUSINI E I PROPILEI SUL MARE

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di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del 28/8/1991

Alfio Susini doveva essere un personaggio singolare. Nato al Cairo esattamente all’inizio del secolo da una famiglia di costruttori percorse, giovanissimo, mentre in Europa infuriava la prima guerra mondiale, l’intero Medio Oriente  occupandosi, con erratica curiosità, di monumenti arabi, di dighe, di rilievi di edifici: a Gerusalemme, a Nazareth, a Giaffa.
A vent’anni si iscrisse alla Regia Scuola di Architettura di Roma dove docenti e colleghi impiegarono il suo  talento di  disegnatore in prospettive di maniacale accuratezza. Nella professione si dedicò con discreto successo  all’urbanistica ma la sua produzione architettonica fu  scarsa  e  ancor più scarsa  la fortuna critica.
A quarant’anni  immaginò, tuttavia, un’opera folle e straordinaria,  rimasta ineseguita: una singolare porta di marmo, degna conclusione di quella via Imperiale  che, attraversata la città di pietra dell’E.42, superata la prima “Porta del Mare” e l’immenso arco di 200 metri  sognato  da Libera, avrebbe dovuto incontrare a Castelfusano le sabbie ancora deserte di questo tratto del litorale romano.
Fu appunto nel 1940 che il  Governatorato di Roma incaricò Susini di occuparsi della sistemazione di questo  tratto di costa. All’architetto forse ripugnava, come  avrebbero consigliato la  vicinanza di Ostia e la natura dell’incarico , pensare ad un luogo per la celebrazione di riti balneari   (alle torme di bagnanti riversate dalle corporazioni  di regime, alla ricreazione delle  comitive dei dopolavoro). Eseguì, è vero, un piano generale di banale funzionalità per i servizi  del litorale, ma sembrò dimenticarlo  quando disegnò  i nuovi propilei . Per questi certamente  pensò, invece,  alla pineta misteriosa e disabitata dell’entroterra dove appariva ,  tra   fughe contorte  di fusti   altissimi, il Mediterraneo familiare e lontano. Forse la pineta  gli suggerì  una nuova fuga di fusti marmorei attraverso i quali osservare il mare, una selva di  colonne senza basi né capitelli.
Ma è più probabile che per l’edificio principale, destinato ad una solennità inevitabile, questo italiano d’Egitto, dallo sguardo sognante e un po’ acquoso, avesse immaginato una migrazione, una scheggia dell’E. 42  in costruzione arenata sulle sabbie ancora selvagge del litorale: due torri non alte, una piazza protetta da due ali porticate della quale, nelle splendide  tempere del progetto, rari viandanti misurano l’incongruente vastità . Una replica di frammenti di città straniati dal contesto  urbano : il mondo esangue dipinto da Susini è in realtà  più una trascrizione  che una scrittura. Ma una trascrizione sottilmente ingegnosa che, nella contrapposizione senza mediazioni  di architettura e natura, coinvolge lo spettatore nelle spire di un racconto di calcolata evanescenza. Anziché gerarchi in orbace si immaginano  “alcuni gentiluomini vestiti di nero” aggirarsi tra i colonnati di marmo di  un’architettura silenziosa e semplificata all’estremo, attraverso la quale l’architetto allude ad una città esemplare, freddamente dimostrativa, dove gli edifici rimangono senza aggettivi, rifiutano ogni complessità. Una città  di forme allo stato aurorale,   splendenti nel biancore del marmo contro il cielo blu di Prussia,  assurdamente non inquinate da alcun uso prevedibile,  dai traffici, dagli scambi. Edifici  inospitali, inabitati e inabitabili.
Il paradosso dei propilei che preludono a un immenso vuoto, stretti tra le sabbie e la distesa arborea, crea un’attesa piena d’inquietudine, vicina al “terribile mistero” delle piazze metafisiche. Un racconto nel quale si percepisce, celata, la presenza del tragico senza che il narratore riveli il nodo drammatico della vicenda. Eppure non c’è traccia  in questi dipinti di  quella linea d’ombra che avanza vittoriosa nelle pitture metafisiche:  come in un incubo tenace quella di Susini è una città senza ombre .
Anche la topografia visionaria  che ordina la conclusione  della via Imperiale sognata dall’architetto ha un rapporto del tutto casuale e trascurabile con la realtà. Non è, dichiaratamente ,  un luogo geografico, ma una condizione della mente che possiede  dell’incubo la rovinosa, insondabile coerenza. La porta che Susini immagina, in altre parole, è pura astrazione: non occupa la periferia remota di una città, ma la periferia smarrita dell’Universo.
Un’architettura, la sua,   costretta a difendersi da una natura mitizzata ed ostile (desiderata, e quindi rappresentata, ancora  incontaminata) manifestando per intero la propria artificialità,  esasperando la durezza  di imperativi geometrici rigidissimi e ineludibili contro un mondo vegetale che minaccia la strada verso la città. Strada dalla quale, come in una fiaba, non ci si potrà staccare senza pericolo: per chi percorre il rettilineo in senso inverso , provenendo da Roma ,l’architetto ha previsto nelle piante un faro visibile a distanza, che sembra destinato a rassicurare nella notte più il viaggiatore perso nel mare vegetale che i pescatori della costa.
Ma anche il mondo minerale e civilizzato dall’architettura è tutt’altro che un’isola consolatoria: la piazza è un luogo infinitamente solitario, dove , nella ossessiva regolarità  della pavimentazione , ogni passo sembra produrre una nuova eco . Se si deve cercare nella memoria l’immagine di un contrasto altrettanto inquietante tra il mondo civile ed una natura  insondabile dove tutto può accadere, più che de Chirico, occorre forse ricordare, per certi versi, le scene finali di Un tranquillo week end di paura.  La carcassa d’auto, segno del mondo civile che i superstiti finalmente incontrano al termine del viaggio nell’oscuro continente vegetale del film di Boorman, ha in comune con l’allucinata piazza di Susini l’inquietante qualità di segno, allo stesso tempo, protettore ed infido, di ancora di una salvezza precaria, minacciata .
Architettura sognata e rappresentata, si diceva: relitto della memoria che forse, realizzato, avrebbe deluso le attese. Al contrario di quasi tutti  i luoghi costruiti questi volumi abbaglianti,  abbandonati al limite di spiagge divenute ormai affollatissime, non sarebbero mai divenuti col tempo necessari e familiari perché, senza dubbio, non ci  si attende che una progressiva rovina degli incorruttibili colonnati  renda  più umana quest’architettura  di studiata, immutabile fissità.
Del sogno di Susini  rimane dunque solo un bellissimo racconto notturno che la storia, per una volta forse saggiamente, ha risparmiato alla realtà.

PIRANESI DI LANGENBACH

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di Giuseppe Strappa

Piranesi, Invenzioni al digitale,  in «Corriere della Sera» del 06.03.2005

Gli edifici antichi si accalcano, nell’Iconografia del Campo Marzio disegnata da Giovanni Battista Piranesi, come fantastici, simmetrici microcosmi che prolificano senza relazione tra loro. Ogni occasione offerta dalle rovine reali viene amplificata, moltiplicata a dismisura fino a coprire, per intero, la millenaria ansa del Tevere con un densissimo tessuto d’incredibili invenzioni antiquarie dove l’occhio stupito dell’osservatore non trova mai riposo. Perfino la fonte letteraria diviene pretesto.  Basta un cenno di Plinio ad un orologio solare perché  nasca, a ridosso del mausoleo d’Augusto, un’immaginaria, colossale macchina architettonica.
La Roma settecentesca di Piranesi è, in realtà, un magma visionario dove la fascinazione delle rovine antiche confluisce in paesaggi a volte del tutto inesistenti, come le suggestioni della Mole Adriana e del Tabularium che si fondono nelle “Carceri d’invenzione”.
Ammirato dagli artisti anglosassoni fin dai tempi del Grand Tour, Piranesi è stato, venerdì scorso, oggetto di un’insolita celebrazione all’Accademia di San Luca dove l’architetto americano Randolph Langenbach ha presentato The Piranesi Project, performance basata su proiezioni, citazioni, commenti, concepita nel quadro del Rome Prize Fellowship dell’American Academy in Rome.
La vocazione piranesiana di Langenbach è dimostrata dalle tante vedute d’archeologia industriale prodotte nel corso della sua passata attività di fotografo, dove ombre lunghe di pilastri e luci radenti sulle murature sembrano dilatare spazi, alterare prospettive. In un processo inverso alla deformazione della realtà, Langenbach impone ora alle fotografie digitali della Roma contemporanea di coincidere con i disegni d’invenzione piranesiani, facendo confluire in una sola immagine temerarie fughe prospettiche le quali, multiple e astratte, costringono l’occhio e l’intelligenza a smentirsi reciprocamente. Le ossessive tessiture delle acqueforti, che s’intersecano provocando ombre cupe e si addensano in rovinosi  labirinti notturni, si distendono così in lente diffrazioni, si trasformano in forme che alludono alla realtà senza mai riprodurla per intero. L’esperimento, del resto, non poteva trovare terreno migliore del  disegno pastoso delle incisioni piranesiane che si forma come la materia muraria che è chiamato a rappresentare: per strati successivi, ripetute morsure di acido sul rame, sottrazioni violente, come se la figura fosse estratta a fatica da una geologia di segni profonda e  preformata.
Le costruzioni di Langenbach, che non reclamano valore scientifico, forniscono la straordinaria emozione artistica di un completamento dei disegni di Piranesi, come se le settecentesche nebulose di segni, provvisoriamente coagulate  nell’immagine fantastica delle rovine, trovassero oggi una conclusione nella rappresentazione digitale delle murature.
Ma il passaggio del tempo mostrato dalle raffinate dissolvenze, fa anche emergere il progressivo, drammatico distacco della Roma antica da quella contemporanea, il moderno isolamento delle rovine dal proprio tessuto. Estraneo alla classicità razionale e cristallina di Winckelmann che guarda all’arte greca, Piranesi ci ricorda, infatti, un’antichità contaminata dalla vita e dal suo fluire nel tempo, un paesaggio, tutto romano, distrutto nei secoli successivi da quella progressiva monumentalizzazione dell’antico, come ha commentato Giorgio Ciucci, i cui guasti continuano a prodursi  anche ai nostri giorni.
A farci riflettere è, ancora, l’occhio che guarda Roma dall’esterno.  Dell’americano Langenbach, questa volta, che, come in un gioco di specchi, osserva Roma attraverso gli occhi del veneziano Piranesi.

RIDOLFI, IL VILLINO ASTALDI E IL POVERO FOSCHINI

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di Giuseppe Strappa

Il valore di un simbolo, in «Corriere della Sera» del 04.03.2006

Il villino Astaldi, celebrato per la memoria che lo lega alla figura di Ridolfi e mai a quella di Foschini è, oggi, un’opera d’architettura tra le più complesse. E’ il simbolo del passato che ha cessato di fluire nel presente e un viaggio nell’inquietudine della nostra coscienza moderna: non solo una stratificazione che, come un deposito geologico, mostra i traumi delle diverse epoche di formazione, ma anche la rappresentazione, esibita, di una demolizione, di un giudizio su un’intera stagione dell’architettura romana e di una rottura della quale, ancora, portiamo i segni.
Una storia che ha inizio ai primi del’900 con la lottizzazione delle aree comprese tra Villa Torlonia e Villa Borghese dove l’ing. Adolfo Sebastiani decide di costruire due magnifiche ville per le proprie figlie. L’architetto è quell’Arnaldo Foschini (coadiuvato da Attilio Spaccarelli) destinato a svolgere un ruolo decisivo nelle vicende edilizie romane, dalla trasformazione di corso Rinascimento alla presidenza dell’INA Casa negli anni della Ricostruzione. Nei due edifici costruiti tra via Mercadante e via Porpora, Foschini si pone sul solco tracciato dai maestri, dai Koch, dai Calderini. Ma il tradizionale riferimento al rigore dell’architettura civile del’500 diviene meno severo, si stempera nei primi, tolleranti sentori del“barocchetto” che incresperà lo storicismo romano di un gusto pittoresco e lieve, brulicante di sottili estrosità.
Il villino destinato a Valeria Sebastiani, rilevato e completato nel 1923 dalla famiglia Astaldi, viene sottoposto a radicale trasformazione nel 1954. Questa volta l’architetto è Mario Ridolfi, uno dei migliori del panorama romano. Il quale demolisce i volumi dell’attico che concludono l’edificio per costruire un grande piano in calcestruzzo armato, aggettante dal filo dell’edificio. Una nuova costruzione nasce così liberamente, come poggiata, si direbbe, su una sorta di suolo artificiale, su moderne rovine: “completamente staccata – per usare le parole di Ridolfi – e disimpegnata dal resto”, è priva del legame organico che, a Roma, ha sempre annodato alle preesistenze la nuova costruzione.
Per questa sua storia di lacerazioni, il villino Astaldi sembra sintetizzare, in modo esemplare, valori e contraddizioni della vicenda romana moderna, dove la qualità dell’architettura si confronta con la labilità delle regole e sembra divenire incerto, perfino nella coscienza dei migliori, il senso e il carattere della realtà costruita.



UNA NUOVA SCUOLA PER GLI ARCHITETTI

di Giuseppe Strappa


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in «Corriere della Sera» del 11.04.08

Una grande città come Roma ha bisogno, è ovvio, di buoni architetti. Ma non bastano le iniezioni di architettura, le grandi opere disegnate da star internazionali che possono servire, al più, a promuoverne l’ immagine. Occorre che a Roma si formino nuove generazioni di bravi architetti: la vera modernità, quella che trasforma i luoghi dove pulsa la vita, le periferie, i quartieri sovraffollati, le borgate, sarà progettata dalle centinaia di architetti che, ogni anno, sfornano le nostre facoltà. Ma è vero, come è stato scritto su queste pagine, che oggi questa formazione è un po’ provinciale. Il vero ritardo del nostro intero mondo dell’ architettura è, in realtà, e da anni, dovuto al terrore stesso di essere provinciali.  Sull’onda delle mode, delle nuove specializzazioni, delle contaminazioni tra  discipline, l’insegnamento si è frammentato in mille rivoli. Corsi di laurea triennali di ogni tipo dovrebbero ampliare l’ ’”offerta didattica”, secondo un’espressione da grande magazzino ormai in voga. Come se, per affrontare la complessità di un mondo in convulsa trasformazione, bastasse disperdersi nei suoi infiniti meandri. Inseguendo tendenze e specialismi, si è dimenticato, così, che il centro dell’attività dell’architetto è il progetto, la sintesi che unifica in un solo gesto costruttivo strutture, spazi, materiali, impianti.
Forse siamo allo stadio terminale di una schizofrenia genetica delle facoltà di architettura italiane, nate dall’unione di insegnamenti di ingegneria con quelli delle accademie di belle arti: due anime che non hanno mai trovato una vera fusione. Eppure la Scuola di Architettura romana delle origini ha rappresentato, unificando ogni disciplina nel progetto,  un modello diverso nel quadro italiano che ha prodotto non solo grandi architetti, ma figure importanti in molti campi della cultura: grandi storici, restauratori, archeologi, costruttori, scenografi, critici la cui originalità consisteva proprio nel vedere il mondo con gli occhi del progettista.
Per non essere provinciali forse basta guardare alle nostre spalle, pensare (come si sta, peraltro, sperimentando altrove) non ad facoltà universitaria, ma ad una moderna scuola dove ogni disciplina non si chiude nel proprio statuto, ma è concentrata su un solo scopo: l’educazione al progetto. Sarebbe una scelta contro quella perdita di centro che ha comportato la deriva superficiale dell’architettura italiana testimoniata dalle goffe e datate polemiche in corso. Ultima quella sui nuovi progetti milanesi che vede Mike Bongiorno e Fuksas parlare, con gli stessi argomenti, ancora del grattacielo come energia futura della città. Specchio di questa condizione è l’involontaria autoironia con la quale Milano si accinge a costruire i propri simboli contemporanei come scintillanti oggetti di design: una torre  strizzata e ritorta, un grattacielo puntellato, un altro ripiegato su sé stesso, curvo e molle, come afflosciato dopo uno slancio vitale.

Archeologia e città

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 02.09.2004

Nel 1527 il topografo Marco Fabio Calvo leggeva nei resti della Roma antica, da quella quadrata di Romolo a quella radiocentrica di Augusto, geometrie sempre più complesse che finivano per proporre, insieme, una ricostruzione simbolica e una figura di città ideale: i frammenti enigmatici e inselvatichiti dell’impianto antico sembravano annunciare, agli occhi degli uomini del Rinascimento, la forma  condivisa della città ideale e futura.
Ma la coscienza dell’antico come patrimonio collettivo doveva essere già viva fin dal V secolo se editti come quelli emanati dagli imperatori Onorio e Maggioriano richiedevano che le spoglie della passata grandezza fossero reimpiegate solo per costruire nuove opere pubbliche. Un riuso, peraltro, nel quale l’intelligenza del ruolo strutturale e simbolico della rovina costituiva, quando la scarsità di risorse induceva al saccheggio dei monumenti classici, una forma attiva di tutela. Forse l’esito più alto della familiarità romana con l’antico è stato fornito dal genio di Michelangelo con la sintesi architettonica di S.Maria degli Angeli, dove gli spazi solenni e la materia stessa delle terme di Diocleziano vengono trasmessi alla basilica cristiana. In questa consuetudine, profonda e ammirata, con un passato operante che pervade la città moderna e che abita come sostrato profondo i suoi edifici, è contenuto il carattere più autentico della Roma storica: materiale magmatico composto di segni sparsi, frammenti esplosi e riassorbiti il cui senso è dato dalla loro inevitabile associazione alle forme della vita che fluisce. Sulla comprensione di questo dato evidente e sul rispetto scrupoloso delle testimonianze dovrebbe essere fondata, credo, ogni operazione sul patrimonio archeologico. Mostrando due opposti pericoli.
Il primo è costituito dall’irruzione nelle aree archeologiche dell’architettura internazionale “firmata”. La qualità  delle trasformazioni non può essere assicurata invitando, come sembra si voglia fare, architetti dello star system  a presentare progetti che saranno giudicati da colleghi di uguale orientamento. Il nostro patrimonio archeologico non ha bisogno di immagini spettacolari che ridurrebbero, secondo un dilagante “effetto Bilbao”, i resti antichi a sfondo di estetizzanti virtuosismi (va riconosciuto a Massimiliano Fuksas, in proposito, il merito di aver presentato la sua proposta come diagramma e affermazione di principio).
Il secondo è costituito dalla deriva specialistica di un’archeologia intesa come scienza da laboratorio, che accumula conoscenze attraverso l’indagine e le ordina in polverosi scaffali. Lo scavo, senza un’idea di città che unisca restauro e ruolo contemporaneo delle testimonianze antiche non  è solo è inattuale, può essere dannoso. E poiché il nome che si da alle cose finisce per trasformarle, forse dovremmo smettere di impiegare termini come “parco archeologico” che prefigurano la fine del ruolo vitale dell’antico e la sua trasformazione in oggetto di una contemplazione antiquaria e vagamente cimiteriale.