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VITA PRIVATA DI LOUIS KAHN

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 25.04.2005

Nella notte del 17 marzo 1974 la polizia di New York trova, nei bagni della Penn Station, il corpo senza vita di un anziano immigrato dall’Estonia, con il volto, sfigurato da vecchie cicatrici, coperto da lunghi capelli sottili. L’inspiegabile abrasione dell’indirizzo sul passaporto ne impedisce l’identificazione e così solo dopo tre giorni di obitorio si  scopre che si tratta di Louis I. Kahn, architetto tra i più significativi della seconda metà del XX secolo. Vengono alla luce, anche, le sue tre famiglie con le quali aveva contemporaneamente intrattenuto relazioni lunghe e distaccate, che vivono non lontane l’una all’altra ma si conoscono solo il giorno del funerale.
Sulla vita misteriosa e complessa di Kahn il figlio Nathaniel, avuto a 61 anni da una giovane collaboratrice di studio, ha ora prodotto e diretto My Architect. Il film è il racconto drammatico di un viaggio durato cinque anni alla ricerca del padre, quasi sconosciuto, attraverso le sue architetture sparse per l’intero globo terrestre, i suoi clienti, le sue mogli. Ma è, anche, lo spaccato di un mondo dove i grandi messaggi si mescolano alle miserie familiari, i sogni alle ambizioni.
Un mondo che Nathaniel riporta senza odio o rancore, nonostante il contraddittorio rapporto di Kahn con la madre, coinvolta nel felice progetto per il Kimbell Museum ma anche umiliata, chiusa a chiave in una stanza durante le visite della moglie ufficiale.
My Architect è un film strano e triste, le cui sequenze restituiscono un’immagine diversa del Kahn eroe positivo che conosciamo: nel suo mondo architettonico tutto si tiene e lega insieme in indissolubile unità; nel suo mondo privato, al contrario, tutto sembra disgregarsi, disperdersi, svanire.
Se ci si aspetta che il rigore e la grandezza della ricerca artistica si riverberi, in qualche modo, nella vita privata degli autori – sembra dire Nathaniel – si è destinati a rimanere delusi. La ricerca autentica prosciuga ogni linfa vitale, dissecca, assorbe totalmente le energie.
Nathaniel non dà giudizi e lascia allo spettatore decidere quanto i risultati artistici ripaghino di una vita spesa in una sola direzione. Perché, a fronte dell’immagine umana di Kahn che s’incrina, il film mostra anche questo: come le sue opere invecchino bene e si dispongano per tempo, gloriosamente, alla condizione di rovina, come si chiede alla grande architettura, facendo intuire, dietro i muschi e i licheni affioranti dalle murature, la presenza di un nucleo ideale incorrotto dal tempo, come un bene collettivo conquistato ad un prezzo troppo caro e generosamente trasmesso alle future generazioni.
Una conquista iniziata a cinquant’anni con un lungo soggiorno a Roma, nel contatto, all’epoca dell’acciaio e delle grandi vetrate, con le possenti masse murarie dei monumenti antichi. Al ritorno a Filadelfia Kahn si sente investito della missione profetica di riportare l’architettura sulla strada maestra indicata dalle antiche rovine. E come un profeta nomade ed irrequieto, incurante degli affetti che intralciano il suo cammino (“non si può dipendere – affermava – dai rapporti umani”) comincia a costruire grandi spazi silenziosi, nudi, simbolici, dove i passi risuonano nel vuoto e l’uomo si sente sollevato da ogni precarietà,  immerso pienamente nel flusso maestoso della storia.
Quando, nello smarrimento degli anni ’60, altri cercano nel dialetto e nel vernacolo un’alternativa alla crisi del linguaggio internazionale, il piccolo Kahn, controcorrente, riscopre la dimensione epica del proprio mestiere, l’arte dei grandi sentimenti religiosi e civili, dei temi poderosi e solenni, della lingua aulica e universale.
Si è detto molto del suo uso dell’antico. Ma quella di Kahn, prodotto artificiale di miti privati, non è una lingua morta. Le sue opere risalgono agli etimi più semplici e profondi delle forme, parlano con un’immediatezza che rende superflua ogni spiegazione. Non è un caso che il governo musulmano del Bangladesh abbia affidato a lui, ebreo americano, la costruzione dei simboli della propria nascente identità nazionale.
Interviste e dialoghi del film si svolgono all’interno di costruzioni notissime come la Fisher House, la Exeter Library, il Salk Institute, la National Assembly di Dacca. Le opere di Kahn, usate come fondale, si popolano di personaggi, escono dall’astrazione dei libri ed entrano nella vita mostrando l’architettura nella sua contraddittoria essenza: una condizione d’equilibrio temporaneo, un momento di transizione della materia che, per pochi decenni o qualche secolo si adatta ad ospitare le tragedie degli uomini e le loro gioie, le loro miserie e i loro tradimenti.

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SEGMENTI E BASTONCINI La deriva empirica dell’architettura

Presentazione a

Progettare il tessuto urbano di Alessandro Franchetti Pardo, Roma 2012

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di Giuseppe Strappa

Non è facile, ai nostri giorni, convincere i giovani della necessità della teoria, del pensiero unificante che da senso al molteplice, che riporta il particolare alla visone sintetica delle cose.
I motivi sono molti e riguardano tutte le età dell’educazione e della formazione dei nostri studenti.
Un ruolo certamente importante è svolto dall’insegnamento nelle scuole medie dove la constatazione dei fatti ha sostituito la loro dimostrazione e  l’esperienza pratica la conoscenza generale della quale ogni caso specifico costituisce un’applicazione. Gli studenti che frequentano i nostri corsi universitari sono figli di questo insegnamento che, negli studi di architettura, sembra trovare conferma da quello che vedono intorno a loro, dalla deriva, spesso estetizzante e indimostrabile, di molte ricerche contemporanee.
Lucio Russo ha espresso questo dato con un’ osservazione fulminante, che vale la pena di riportare. Egli parla della disastrosa diffusione della “matematica pratica” e riporta l’opinione di uno studente della “Sapienza” di Roma che ritiene falsa la geometria, astratta e generica,  derivando la sua deduzione dal fatto che non esistono nella realtà segmenti, che ha valore solo quello che è concreto, ha uno spessore ed è verificabile con l’esperienza: i bastoncini. “L’argomento – scrive Russo – non mi è giunto nuovo: l’avevo già letto nelle opere di Sesto Empirico; allora la razionalità scientifica stava per essere abbandonata per una quindicina di secoli.”
Abbiamo spesso riflettuto con Alessandro Franchetti Pardo, autore di questo prezioso libretto sulla didattica di architettura, su come l’osservazione trovi una puntuale corrispondenza nella predisposizione dei nostri studenti dei corsi di progettazione alle scorciatoie che evitano il confronto con la conoscenza generale dei problemi, la quale, per noi, consiste soprattutto nella lettura critica della realtà costruita, nell’interpretazione metodica e finalizzata dei fenomeni urbani che, sola, dà senso generale alla proposta progettuale particolare.
Questo problema dell’approccio diretto ed empirico al progetto è particolarmente sentito, peraltro, in un settore dell’insegnamento di architettura come il nostro, nel quale la componente pratica ha un ruolo importante e rischia di essere indirizzata all’imitazione della produzione più nota e diffusa dai media. Produzione nella quale il progetto, per larga parte, avendo smarrito il suo fondamentale carattere di costruzione, continuazione di un processo formativo in atto della città e del paesaggio, rischia di perdere il proprio senso civile per  divenire altro dall’architettura: comunicazione, arte visiva, comunque espressione individuale e soggettiva.
Franchetti Pardo è uno dei non molti insegnanti di progettazione che io conosca a porsi, controcorrente, con originalità e grande competenza, il problema di informare il proprio insegnamento non solo a principi generali legati alle incertezze della mutevole condizione contemporanea, ma anche ad un metodo rigoroso di comprensione dei luoghi e dei loro processi formativi, propiziando una ricerca, da parte degli studenti, i cui notevoli esiti sono in piccola parte dimostrati dalle pagine che seguono.
Leggere e progettare, oggi, la nobile area di via Giulia, con i suoi tessuti  ed i suoi palazzi disegnati da grandi architetti del passato e confrontarla con quella periferica e dimenticata di Casal Monastero, come fa qui Franchetti Pardo, è, a mio avviso, una scelta importante e coraggiosa. Significa affermare che i principi che determinano il formarsi e trasformarsi dello spazio abitato dall’uomo hanno una matrice comune, che quello che produciamo oggi è una continuazione e un aggiornamento di un processo lungo e continuo nel tempo che va riconosciuto superando gli stereotipi e le ideologie di superficiali rivoluzioni.
Attraverso i corsi di Franchetti Pardo lo studente ha individuato, credo, non solo la forma della città antica e le trasformazioni operate dall’intelligenza di costruttori-architetti la cui opera è tramandata dalla Storia, ma anche la permanenza di questa capacità di comprensione delle cose in progettisti contemporanei che hanno interpretato, pur nelle difficili condizioni della periferia romana, il territorio marginale come città in divenire della quale vanno individuati forma e caratteri. In modo non molto diverso, in fondo, da come della città del passato è stata letta la  struttura sviluppatasi per gerarchie di percorsi, polarità, tipi di edifici congruenti con la propria fase storica.
In questo, mi sembra, il lavoro didattico di Alessandro Franchetti Pardo si collega con coerenza, per metodo e fini, all’attività di indagine innovativa che stiamo conducendo insieme, nel quadro delle ricerche  Prin, sulla progettazione nei piccoli centri storici del Lazio orientale,  e alla precedente indagine sulla periferia ad est di Roma, in corso di pubblicazione, a testimonianza di un fertile volano che sempre dovrebbe trasmettere alle giovani generazioni i risultati delle sperimentazioni in corso.

LETTURA DELL’ ORGANISMO ARCHITETTONICO

 

Lezione di G.Strappa
Prendiamo in esame il caso di Villa Capra cercando di comprenderne le ragioni formative e le potenzialit¦ di sviluppo:
– perché essa si configura come organismo;
– perché di questo organismo possono essere date alcune leggi generali, che lo identificano allíinterno di una famiglia di organismi: una definizione che, trascendendo il singolo edificio, permetta di riconoscere nel manufatto architettonico la presenza di caratteri costanti che individuano il tipo.
Villa Capra, concludendo una famiglia di edifici e ponendosi all’inizio di un’altra, sotto molti punti di vista, esemplare. Riguardiamola sotto l’ottica del rapporto col luogo e delle componenti che lo informano.
Il luogo. Nel programma unitario dell’organismo uno dei dati del problema è legato all’utilizzazione dell’edificio rispetto alle condizioni al contorno: una villa situata nella campagna vicino Vicenza, su un luogo di cui sono note le qualità, e dal quale è possibile osservare quasi in maniera isotropa il paesaggio circostante con pochi discreti punti cospicui: “Il sito è degli ameni e dilettevoli che si possano ritrovare, perché è sopra un monticello di ascesa facilissima ed è da una parte bagnato dal Bacchiglione fiume navigabile, e dall’altra è circondato da altri amenissimi colli, che rendono l’aspetto di un molto gradevole Theatro, e sono coltivati, e abondanti di frutti eccellentissimi e buonissime viti…”.

 

L’utilitas. Questo edificio è una villa, quindi fa riferimento ad un modo di abitare di consolidata tradizione: corrisponde ad una grande, ben individuabile famiglia di edifici. La villa, così come si è configurata nel tempo, corrisponde ad un edificio di abitazione di campagna, che ha con la natura un rapporto contemplativo: la tradizione della villa corrisponde alla cultura dell’otium, del riposo volto alla riflessione, allo studio, alla contemplazione. Rapporto diverso, quindi, da quello che instaura la casa rurale, altra forma diffusa di relazione diretta tra edilizia abitativa e natura, che è invece principalmente produttivo, di sfruttamento. dato che condiziona la funzione è costituito dalla figura del committente, il referendario apostolico Paolo Almerico, figura di prelato colto, intellettuale e letterato. Ne risulta un programma di relazioni tra le parti dell’edificio dove l’istanza funzionale non è separabile da quella simbolica.
La firmitas. Dal punto di vista della costruzione il programma è altrettanto chiaro: non possono che essere utilizzate le tecniche tradizionali disponibili, legate alla struttura muraria continua o alla struttura trilitica (parti portanti) e alle coperture spingenti a volta, a cupola o semplicemente appoggiate come travi e capriate (parti portate). L’esteso uso della parete muraria condiziona la geometria dell’edificio: l’organizzazione per setti murari costringe ad un rapporto di necessità strettissimo tra la parete portante (che è anche chiudente) e la coperture portate. Lo studio statico dell’organismo risulta dunque non isolabile da quello distributivo.

Progetto Palladio Digitale

La venustas, problema delicatissimo per essere il periodo nel quale Palladio progetta un momento di transizione nel quale si instaura un rapporto tutto particolare con l’antico. Le componenti del programma “espressivo” della villa palladiana sono molteplici: da una parte líistanza di dare dignit¦ allíedificio utilizzando le forme rintracciate nelle testimonianze dell’antico, secondo il disegno, che Palladio persegue costantemente, di dare un volto nuovo agli edifici della nobiltà colta veneziana che ancora non possiede segni attraverso i quali autorappresentarsi. Non possono che rivelarsi inadeguati alle esigenze della committenza tanto il tipo di edificio derivato dalla “barchessa”, la residenza del piccolo proprietario terriero veneto con semplice copertura a tetto, quanto il tipo della villa-castello formatasi nel Quattrocento (Villa Porto-Colleoni a Thiene; Villa Giustinian a Roncade) ed ancora in uso ai tempi di Palladio. Ma qui più che altrove, cogliendo l’occasione di rispecchiare il carattere di una committenza allo stesso tempo intellettuale e religiosa, insorge l’istanza a fondere elementi di un edificio religioso legato alla storia (il tempio) con le forme di un edificio civile (la residenza di campagna). Si tratta di un processo critico complesso per le scelte da operare e perchè in realtà Palladio, come è noto, opera su materiali da tempo detratti dalla storia. Egli non vive la prima età della riscoperta dell’antico, quando con entusiasmo si cominciavano a studiare le tracce lasciate dal mondo classico. Opera, invece, su un corpo già consolidato di nozioni, riflessioni, conoscenze: conosce a fondo Vitruvio e i trattatisti rinascimentali, ha acquisito e fatto uso di un patrimonio di studi ormai consolidati. Opera, inoltre, all’interno di una sorta di fertile contraddizione tra fonti dirette e fonti letterarie: il trattato di Vitruvio trae origine per larga parte dallíantichità greca, mentre Palladio in realtà studia ed opera sull’antichità romana. Contraddizione che si manifesta appieno quando gli vengono commissionate le illustrazioni al testo antico (un testo letterario del I secolo a.C. privo, com’è noto, di commento grafico). Questa condizione di interprete costretto a fondare le sue deduzioni su fonti malsicure pone Palladio in una posizione particolare nei confronti dell’antico: non già quella dell’archeologo o del filologo, ma dell’architetto, nel ruolo fecondo di chi è costretto a risalire processualmente alle origini delle forme architettoniche, ad interpretare “criticamente” gli esempi antichi, ad “inventare” nuove varianti ai tipi tramandati. Inventare nel senso etimologico di invenire, dunque trovare, incontrare, scoprire (imbattersi, in un certo senso), dove l’inventio è più ritrovamento critico che innovazione programmatica.
Cerchiamo di ricostruire, interpretandola strumentalmente, la genesi di Villa Capra. Per prima cosa vengono tracciati due assi. Gesto fondamentale di orientamento che permette all’uomo di orizzontarsi rispetto alla natura (al sole, alla campagna, alla vegetazione). Sono gli stessi gesti elementari di fondazione, ripetuti per gli edifici come per le città. Il tracciamento dei due assi di orientamento è seguito dal disegno del recinto quadrato, atto elementare di appropriazione dello spazio. L’edificio deve essere rivolto verso il paesaggio per permettere la contemplazione della campagna circostante: viene tracciato un sistema ordinatore di altri quattro assi, secondo due direzioni, che proiettano l’edificio all’esterno; la contemplazione viene tradotta in termini architettonici, attraverso l’idea del pronao ripetuto sui quattro lati.
Palladio stabilisce una gerarchia tra le parti:
– il perimetro quadrato, limite individuato da linee che dividono l’architettura dalla natura, l’interno dall’esterno;
– la serie dei vani perimetrali ripetuti lungo il perimetro, alla periferia dell’edificio;
– il nodo spaziale, il grande vano centrale, fondamento e cuore dell’edificio, espresso attraverso la forma circolare.
Il tipo si comincia a tradurre in un programma di assi, linee, vani attraverso riflessioni che abbiamo esposto in astratto, ma che in realtà, nella mente dell’architetto, non sono scindibili da ragionamenti costruttivi, funzionali, espressivi: dalla concretezza muri e delle volte. Ne deriviamo una considerazione che svilupperemo ampiamente in seguito: la geometria non determina, ma interpreta ed esprime la vita dell’edificio. Le componenti dell’organismo hanno tra loro un rapporto di necessità intrinseco, secondo una concezione unitaria dello spazio, della struttura, della vita che nell’edificio si dovrà svolgere. Palladio non pensa ad uno schema funzionale da tradurre in architettura: la sua è una totale dell’edificio da realizzare attraverso forme semplici, elementari, dove la forma circolare del nodo spaziale è, coscientemente, leggibile come sintesi perfetta dell’unità dell’organismo perché la circonferenza “avendo le sue parti simili tra loro, e che tutte partecipano della figura del tutto; e finalmente ritrovandosi in ogni sua parte l’estremo ugualmente lontano dal mezo, è attissima a dimostrare la Unità, la infinita Essenza, la Uniformità e la Giustizia di Dio”. Per questo Villa Capra è uno degli esempi di organismo architettonico più chiari: perché è cristallinamente unitario il modo di relazionarsi delle parti con le necessità generali dell’edificio. Dalla iniziale concezione unitaria dell’organismo Palladio ha derivato le considerazioni che uniscono funzione e simbolo: lo spazio centrale è lo spazio della vita, quindi deve essere lo spazio dell’emozione dinamica che si prova entrando
all’interno dell’edificio.” uno spazio domestico, ma anche simbolico, che trascende la pura funzione abitativa. Come la geometria è la rappresentazione formale della regola gerarchica per la pianta, così avviene per l’alzato. Il vano circolare centrale è dominante e quindi a doppia altezza, i vani minori occupano la periferia dell’organismo, sono secondari e “quindi” su una sola altezza: il concetto di centro e periferia, della gerarchia delle parti, informa in modo totale il disegno dell’edificio. E quasi a conservare l’idea leggibile del recinto, della corte originariamente aperta intorno alla quale l’edificio si struttura, il grande vano centrale viene coperto a cupola, simbolo della volta celeste, dello spazio dinamico, aereo, mentre il volume del parallelepipedo che lo circonda simboleggia la base, la terra, la parte statica, materiale dell’edificio. Gerarchicamente il cilindro è la parte più importante, e accanto ad esso si organizzano le parti periferiche, subordinate dal punto di vista funzionale e statico. L’edificio è un organismo perfetto perché ogni parte concorre in rapporto di strettissima necessità statica, funzionale, espressiva a formare un’unità: tant’è che le parti periferiche sono subordinate gerarchicamente anche dal punto di vista del ruolo che svolgono all’interno del sistema statico-costruttivo: la cupola, parte portata, spinge sulle reni, dove viene impostata la capriata, e sui vani periferici (parte portante) destinati ad assorbire, secondo un meccanismo consolidato, le sollecitazioni prodotte dal vano centrale. Anche la capriata, a sua volta, potenzialmente spinge sulla muratura perimetrale (anche se le azioni mutue sono “provvisoriamente”, potremmo dire, eliminate dal tirante) e quindi la funzione dei pronai è allo stesso tempo quella di individuare e rendere leggibili gli assi accentranti dell’edificio, e, contemporaneamente, di reagire alle sollecitazioni ultime trasmesse dalla copertura agli elementi contigui. L’intero edificio poggia infine su un basamento-podio che, oltre a sopraelevare la villa rispetto al terreno, indicandone l’artificialità rispetto alla natura, ha il compito di scaricare sul terreno i carichi delle murature.
E’ riscontrabile, in altre parole, una legge gerarchica comune a tutte le componenti dell’edificio. Nell’utilitas questa legge è riconoscibile attraverso la sequenza: vano centrale di rappresentanza, vani subordinati perimetrali. Nella firmitas lo stesso programma funzionale coincide in una gerarchia statica: parte portata (la cupola spingente), vani perimetrali che sostengono questa spinta, pronai che raccolgono la spinta residua delle coperture e la contrastano, basamento. Utilitas non significa quindi dare risposta alle funzioni in modo meccanico e utilitaristico: quella di Palladio è uníidea umanistica di funzione, legata al modo con cui l’uomo è destinato a vivere lo spazio, che procede non attraverso strumenti puramente logico-funzionali ma fondamentalmente emotivi. Si veda, come lampante dimostrazione, il ruolo assegnato alle scale interne. Villa Capra è una particolare interpretazione della villa e, ovviamente, non l’unica possibile: in molti edifici di questo tipo, a volte anche ville palladiane, la scala ha una funzione importante, costituisce il cuore stesso dell’edificio che indica l’idea di continuità dello spazio centrale del piano terreno con il resto della casa. In questo caso il programma Ë diverso: lo spazio simbolico al centro dell’edificio deve essere di chiarezza assoluta, non disturbato da elementi accessori. La scala ha quindi un ruolo meno importante di quanto la sua funzione richiederebbe, un ruolo del tutto subordinato: il programma dell’utilitas è condizionato dalla più generale visione del “funzionamento simbolico” dell’edificio.
Anche se il problema dei due vani angolari, che risulterebbero dall’applicazione meccanica della geometria, non può che essere risolto nella fusione di due vani, ottenendo vani gerarchizzati, l’impianto rimane, tuttavia, orientato dai due assi di percorrenza che organizzano due fasce laterali (quasi la fascia di pertinenza di una strada urbana) che generano, come nei tessuti urbani di case a schiera, un’anomalia sugli angoli, dando luogo ad una pianta “incidentalmente” asimmetrica. L’interpretazione di questo edificio svolta con gli strumenti dell’architettura, riconoscendo la fondamentale unità dell’organismo, è diversa dall’interpretazione dello storico dell’arte: se si osservano gli schemi interpretativi di R. Wittkower delle ville palladiane si rileverà una diversa lettura, legata alla forma visibile che l’edificio ha assunto nella costruzione: da storico, riflettendo sugli esiti, Wittkower riconduce questo edificio nel filone degli organismi monoassiali, secondo lo schema comune che dovrebbe informare tutte le ville palladiane14. In realtà, riguardato sotto il punto di vista della “matrice” formativa che presiede alla formazione dell’organismo, esso possiede due assi di simmetria intersecantesi nel polo dello spazio centrale, con vani perimetrali di carattere rigidamente seriale, gerarchizzati unicamente allo scopo di risolvere il problema dell’accesso al vano angolare. Anche la posizione delle aperture di porte e finestre, distribuite in “infilata” secondo assi contemporaneamente di percorribilità secondaria e di continuità percettiva, conferma la legge generale di isotropia. In che modo quello che sembra essere esclusivamente il portato “necessario” delle scelte che riguardano l’organismo riesce a rendere leggibili i contenuti dell’edificio? Si immagini di sovrapporre alla sezione il prospetto: la facciata (dove sono anche rappresentati i diversi ruoli delle parti di edificio rispetto alla verticale, alla forza di gravità: basamento, elevazione, unificazione, copertura) corrisponde esattamente, ma, si badi, non meccanicamente, all’idea di spazio che Palladio voleva rappresentare. Essa non rispecchia il semplice dato costruttivo, ma esprime la vita dell’edificio. Le linee orizzontali (sia la sequenza continua della trabeazione che il marcapiano unificante il piano dí appoggio alla conclusione del basamento) percorrono le quattro facce dell’edificio rivelandone la gerarchia interna coll’informare le pareti murarie e i quattro pronai, indicando la quota di imposta sia del primo piano che dei timpani. Sono segni che esprimono sinteticamente e convenzionalmente (simbolicamente) il carattere dell’edificio, rendendone leggibile l’unità. Si noti come anche il basamento, quasi una fondazione fuori terra, denunci la gerarchia che anima l’edificio, eseguito ad archi e volte in quanto autonomamente stabile e virtualmente precedente la costruzione abitata, come un suolo artificiale sul quale fondare líedificio.
E’ chiaro come tutta l’espressione architettonica corrisponda ad alcuni principi, un ordine generale che denuncia la necessità del rapporto tra i diversi elementi: questa regola, resa leggibile, è lo stile usato da Palladio.
A differenza del modo romantico di intendere lo stile come espressione individuale, lo stile in architettura può essere quindi definito come la scelta dei principi che coordinano l’atto costruttivo dell’artefice. E’ quindi un principio molto diverso, ad esempio, da quello che contempla l’uso personale di un repertorio.
In fase di coscienza critica la nozione di stile prevede, nella mente dell’artefice, una conoscenza degli elementi e della loro relazione reciproca (struttura) talmente profonda da consentire un uso del linguaggio individuale eppure aderente alla processualità della realtà costruita. La riconoscibilità individuale dello stile, tutt’altro che condannabile, è comunque data dalla inevitabile frequenza di certi elementi e dalla ripetizione di alcune strutture tettoniche sperimentate. E se in altre arti può esistere una relativa coincidenza tra poetica e stile, questo non può verificarsi in architettura: dove nelle arti figurative lo stile riguarda la rappresentazione, in architettura esso riguarda la costruzione. Lo stile per l’architetto deve essere generalizzabile, deve corrispondere appunto ad un modo universale, trasmissibile e leggibile, di coordinare la progettazione. In questo l’architettura è diversa dalle arti visive: le altre arti rappresentano o interpretano, in diverse forme, la realtà; l’architettura è la realtà. Da questa considerazione deriva larga parte delle riflessioni che verremo sviluppando nel seguito.

ALFIO SUSINI E I PROPILEI SUL MARE

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di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del 28/8/1991

Alfio Susini doveva essere un personaggio singolare. Nato al Cairo esattamente all’inizio del secolo da una famiglia di costruttori percorse, giovanissimo, mentre in Europa infuriava la prima guerra mondiale, l’intero Medio Oriente  occupandosi, con erratica curiosità, di monumenti arabi, di dighe, di rilievi di edifici: a Gerusalemme, a Nazareth, a Giaffa.
A vent’anni si iscrisse alla Regia Scuola di Architettura di Roma dove docenti e colleghi impiegarono il suo  talento di  disegnatore in prospettive di maniacale accuratezza. Nella professione si dedicò con discreto successo  all’urbanistica ma la sua produzione architettonica fu  scarsa  e  ancor più scarsa  la fortuna critica.
A quarant’anni  immaginò, tuttavia, un’opera folle e straordinaria,  rimasta ineseguita: una singolare porta di marmo, degna conclusione di quella via Imperiale  che, attraversata la città di pietra dell’E.42, superata la prima “Porta del Mare” e l’immenso arco di 200 metri  sognato  da Libera, avrebbe dovuto incontrare a Castelfusano le sabbie ancora deserte di questo tratto del litorale romano.
Fu appunto nel 1940 che il  Governatorato di Roma incaricò Susini di occuparsi della sistemazione di questo  tratto di costa. All’architetto forse ripugnava, come  avrebbero consigliato la  vicinanza di Ostia e la natura dell’incarico , pensare ad un luogo per la celebrazione di riti balneari   (alle torme di bagnanti riversate dalle corporazioni  di regime, alla ricreazione delle  comitive dei dopolavoro). Eseguì, è vero, un piano generale di banale funzionalità per i servizi  del litorale, ma sembrò dimenticarlo  quando disegnò  i nuovi propilei . Per questi certamente  pensò, invece,  alla pineta misteriosa e disabitata dell’entroterra dove appariva ,  tra   fughe contorte  di fusti   altissimi, il Mediterraneo familiare e lontano. Forse la pineta  gli suggerì  una nuova fuga di fusti marmorei attraverso i quali osservare il mare, una selva di  colonne senza basi né capitelli.
Ma è più probabile che per l’edificio principale, destinato ad una solennità inevitabile, questo italiano d’Egitto, dallo sguardo sognante e un po’ acquoso, avesse immaginato una migrazione, una scheggia dell’E. 42  in costruzione arenata sulle sabbie ancora selvagge del litorale: due torri non alte, una piazza protetta da due ali porticate della quale, nelle splendide  tempere del progetto, rari viandanti misurano l’incongruente vastità . Una replica di frammenti di città straniati dal contesto  urbano : il mondo esangue dipinto da Susini è in realtà  più una trascrizione  che una scrittura. Ma una trascrizione sottilmente ingegnosa che, nella contrapposizione senza mediazioni  di architettura e natura, coinvolge lo spettatore nelle spire di un racconto di calcolata evanescenza. Anziché gerarchi in orbace si immaginano  “alcuni gentiluomini vestiti di nero” aggirarsi tra i colonnati di marmo di  un’architettura silenziosa e semplificata all’estremo, attraverso la quale l’architetto allude ad una città esemplare, freddamente dimostrativa, dove gli edifici rimangono senza aggettivi, rifiutano ogni complessità. Una città  di forme allo stato aurorale,   splendenti nel biancore del marmo contro il cielo blu di Prussia,  assurdamente non inquinate da alcun uso prevedibile,  dai traffici, dagli scambi. Edifici  inospitali, inabitati e inabitabili.
Il paradosso dei propilei che preludono a un immenso vuoto, stretti tra le sabbie e la distesa arborea, crea un’attesa piena d’inquietudine, vicina al “terribile mistero” delle piazze metafisiche. Un racconto nel quale si percepisce, celata, la presenza del tragico senza che il narratore riveli il nodo drammatico della vicenda. Eppure non c’è traccia  in questi dipinti di  quella linea d’ombra che avanza vittoriosa nelle pitture metafisiche:  come in un incubo tenace quella di Susini è una città senza ombre .
Anche la topografia visionaria  che ordina la conclusione  della via Imperiale sognata dall’architetto ha un rapporto del tutto casuale e trascurabile con la realtà. Non è, dichiaratamente ,  un luogo geografico, ma una condizione della mente che possiede  dell’incubo la rovinosa, insondabile coerenza. La porta che Susini immagina, in altre parole, è pura astrazione: non occupa la periferia remota di una città, ma la periferia smarrita dell’Universo.
Un’architettura, la sua,   costretta a difendersi da una natura mitizzata ed ostile (desiderata, e quindi rappresentata, ancora  incontaminata) manifestando per intero la propria artificialità,  esasperando la durezza  di imperativi geometrici rigidissimi e ineludibili contro un mondo vegetale che minaccia la strada verso la città. Strada dalla quale, come in una fiaba, non ci si potrà staccare senza pericolo: per chi percorre il rettilineo in senso inverso , provenendo da Roma ,l’architetto ha previsto nelle piante un faro visibile a distanza, che sembra destinato a rassicurare nella notte più il viaggiatore perso nel mare vegetale che i pescatori della costa.
Ma anche il mondo minerale e civilizzato dall’architettura è tutt’altro che un’isola consolatoria: la piazza è un luogo infinitamente solitario, dove , nella ossessiva regolarità  della pavimentazione , ogni passo sembra produrre una nuova eco . Se si deve cercare nella memoria l’immagine di un contrasto altrettanto inquietante tra il mondo civile ed una natura  insondabile dove tutto può accadere, più che de Chirico, occorre forse ricordare, per certi versi, le scene finali di Un tranquillo week end di paura.  La carcassa d’auto, segno del mondo civile che i superstiti finalmente incontrano al termine del viaggio nell’oscuro continente vegetale del film di Boorman, ha in comune con l’allucinata piazza di Susini l’inquietante qualità di segno, allo stesso tempo, protettore ed infido, di ancora di una salvezza precaria, minacciata .
Architettura sognata e rappresentata, si diceva: relitto della memoria che forse, realizzato, avrebbe deluso le attese. Al contrario di quasi tutti  i luoghi costruiti questi volumi abbaglianti,  abbandonati al limite di spiagge divenute ormai affollatissime, non sarebbero mai divenuti col tempo necessari e familiari perché, senza dubbio, non ci  si attende che una progressiva rovina degli incorruttibili colonnati  renda  più umana quest’architettura  di studiata, immutabile fissità.
Del sogno di Susini  rimane dunque solo un bellissimo racconto notturno che la storia, per una volta forse saggiamente, ha risparmiato alla realtà.

L’architettura religiosa in un libro di Strappa

La presentazione

L’architettura religiosa in un libro di Strappa

in “Corriere della Sera” del 26.05.2009

Il tema dell’architettura religiosa è tornato di grande attualità. Anche a Roma si costruiscono nuove chiese, veri poli urbani in quartieri spesso degradati che pongono, anche, il problema di cosa significhi un edificio per il culto nel mondo contemporaneo. Giuseppe Strappa, architetto e ordinario di progettazione, tenta di dare una risposta con un libro, «Edilizia per il culto» (Utet, Torino) che ha la forma e l’ambizione di un vero trattato. Tesi di fondo è che ogni chiesa, sinagoga o moschea costituisce anche un «organismo » del quale occorre comprendere, soprattutto, il processo formativo. In un periodo in cui l’architetto, anche nei temi religiosi, è ossessiona¬to dalle mode, Strappa sostiene che si è originali solo riscoprendo l’origine delle cose, le radici dalle quali le forme hanno inizio. L’opera verrà presentata oggi a Valle Giulia da un esperto del tema come Paolo Portoghesi. Il grande storico e architetto romano non è, infatti, solo autore di importanti architetture religiose, dalla Chiesa della Sacra Famiglia a Salerno alla Moschea di Roma, ma si è posto, tra i primi, il problema della crisi del progetto contemporaneo, dello smarrimento dell’uomo di fronte a un mondo costruito che non sa più leggere e, quindi, trasformare con coerenza.

Alle 18, Aula Magna della Facoltà di Architettura «Valle Giulia», via Gram¬sci 53

Il libro viene presentato oggi pomeriggio alle 16 a Valle Giulia da un esperto del tema come Paolo Portoghesi, in primo piano nella foto qui sopra insieme a Giuseppe Strappa