Jacopo Sabatini
Elisabetta Masullo
di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 20.07.2002
Roma ha sempre posseduto un suo speciale fascino notturno. Henry James, che vi arrivava da Parigi “dove tutto pulsava e brillava”, annotava la tenebrosità delle sue notti, le strade buie e vuote nonostante i lampioni a gas attorno al Tritone zampillante. Questo fascino era anche dovuto al difficile rapporto di Roma con l’illuminazione notturna: si doveva arrivare al gennaio del 1854 perché le prime luci a gas cominciassero a sostituire i fumosi lampioni ad olio, e solo nel 1888 furono istallati a via dei Cerchi, nelle officine della Società Anglo-Romana, le prime macchine a vapore per la produzione di energia elettrica destinata alla scarsa illuminazione pubblica. Così rovine e monumenti potevano ancora essere goduti, fino a non molti anni fa, nel bagliore unico ed irripetibile che le pietre emanano sotto il chiarore della luna e anche la Roma di Fellini, in fondo, era ancora la piccola metropoli delle notti misteriose.
Oggi la nostra città, come tutte le grandi capitali europee che ormai vivono anche di notte, ha bisogno di luce, molta luce. Ma, se nessuno rimpiange la Roma sparita dei Roesler Franz, la nostra città non è (ancora) Las Vegas e il nostro patrimonio architettonico dovrebbe essere tutelato anche da un buon progetto dell’illuminazione artificiale. I monumenti romani sono tra i prodotti più alti della cultura occidentale: non possono essere sviliti dalle deformazioni di luci spettacolari poste secondo una bizzarra, arbitraria arte combinatoria.
Chi ha visto la nuova illuminazione del Colosseo sa di cosa parlo: l’unità della costruzione, qualità lodata dai trattatisti di ogni epoca, è ora spezzata da un’insensata serie di anelli scintillanti, che schiacciano la celeberrima gerarchia degli ordini architettonici. E il Colosseo è solo l’ultimo di una nutrita serie di guasti (per fortuna reversibili). Come la berniniana facciata di Palazzo Montecitorio, dimostrazione evidente di come l’organicità solenne delle facciate romane non sopporti la decomposizione provocata da una luce radente e concentrata, ignara di ogni ordine e logica architettonica. E poi la cupola di San Pietro, e piazza del Quirinale, per parlare solo di alcuni monumenti illustri.
La ragione (o più semplicemente il buon senso) vorrebbe che una luce artificiale discreta restituisse un’immagine autentica del monumento. Magari, se proprio non si riesce a resistere alla retorica, sottolineando con intelligenza la logica della gerarchizzazione tra le parti, che, a Roma, per il tempio antico o il palazzo rinascimentale, è sempre la stessa: basamento, elevazione, unificazione, conclusione.
La meravigliosa strategia costruttiva e il carattere plastico e murario dei nostri monumenti non si prestano al capriccio illusorio delle ombre violente. Il perimetro delle figure scintillanti ritagliate contro il buio della notte li fa assomigliare alle immagini semplificate della pubblicità, dove la parte è staccata dal contesto e affrancata dal significato originale come una lingua che ci pervenga per frammenti divenendo, dunque, incomprensibile. Una lingua ormai considerata morta, evidentemente, che nessuno si prende la briga di rendere accessibile in una città dove pure la nuova architettura, parallelamente, sembra non volersi riconoscere in alcun valore che trascenda il consumo sbrigativo, lo spettacolo istantaneo.
Anche i monumenti entrano così nel nuovo circuito dei paesaggi virtuali, nel mondo analogo della visione semplificata che occupa la retina per pochi secondi. Con grande gioia dei turisti che caracollano grati, per le strade cariche di storia, su enormi autobus dell’Atac da dove il faccione stampato di Zahar Hadid, nuovo astro e simbolo della futura architettura romana, occhieggia compiaciuto.
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di Giuseppe Strappa
in “La Repubblica” del 2.10.1991
“Arredo urbano” è forse una delle locuzioni più ambigue che la cultura architettonica contemporanea abbia coniato: contiene il concetto insidioso di “guarnire un ambiente”, insinua subdolamente l’idea che le piazze e i giardini nelle città siano una sorta di salotti buoni da abbellire con oggetti di consumo. Alludendo ad un provvisorio e sovrapposto decoro , esso testimonia nella lingua il degrado che subisce ai nostri giorni l’arte di costruire le città , l’abbandono di quel processo continuo di formazione dello spazio urbano capace di assimilare le necessarie novità : il lampione, l’edicola, la fontana disegnati con sapienza e chiamati semplicemente con i loro bei nomi. Non a caso nella letteratura sull’argomento spesso lo si incontra con il suo puntuale pendant : la beautyfication, altro terribile neologismo che ha fatto di recente irruzione nella pubblicistica di architettura e che significa, più o meno, cosmesi dell’immagine.
Questa breve e personale nota architettonico-lessicale in margine alla mostra La capitale a Roma: città e arredo urbano dal 1870 al 1990 appena inaugurata al Palazzo delle Esposizioni, costituisce in realtà una fuorviante introduzione ai materiali esposti . I contenuti della mostra rispecchiano infatti raramente il titolo: rilevata l’ambiguità (si veda il lucido scritto di Corrado Terzi nel catalogo edito da Carte Segrete) percorrono in genere, per nostra fortuna, itinerari più vasti e avventurosi dove l’interesse prevalente sembra essere lo spazio della città, la scena urbana. Tema di titanica complessità: uno sterminato racconto che si potrebbe far iniziare con la formazione del sistema di grandi piazze a cavallo delle mura, quando la città ormai si affacciava a Porta Maggiore, a Porta Ostiense, a Porta San Giovanni a interrogare il suo incerto futuro di periferie . Per proseguire con il dramma degli “isolamenti”, dei “diradamenti” dei tessuti antichi, degli sventramenti otto-novecenteschi che hanno abbandonato nel loro percorso angoli deformi di città, veri relitti urbani. Oppure spazi dilatati, di pedante vocazione oratoria ai cui margini si sono spesso raccolti altri spazi dalla grazia sommessa e domestica: piazze esigue come cortili dove la modesta, appartata invenzione di una fontana o la secca arguzia di una testa di fauno (disegnati secondo il gusto per l’aneddoto minuto e imprevedibile di tanta edilizia “minore” romana) evitano agli abitanti la desolazione dell’anonimato . Scenografie qualche volta da operetta che pure sdrammatizzano, vivaddio, la tenace inclinazione al sublime , verso la quale sembrano scivolare, come per vocazione, gli spazi romani.
Poi la città fascista. Che non fu solo sinistro antagonismo tra Geometria e Storia, ma anche gelida, enigmatica eleganza : i porticati dell’Eur, i piazzali del Foro Italico, i viali della Città Universitaria. Ed anche, perchè no, il patrimonio dimenticato di studi per le sistemazioni delle aree centrali che generarono spesso esiti infausti (si veda il caso esemplare di piazza Augusto Imperatore) soprattutto per la miopia dei politici.
E poi ancora le periferie dissennate della Ricostruzione, i prati sudici cantati da Pasolini, le vecchie osterie con i pergolati polverosi, naufragate nel mare dei casermoni; ma anche il monumento delle Fosse Ardeatine, capolavoro e simbolo dell’architettura romana del dopoguerra, al quale peraltro Bruno Cussino dedica un immotivato, inaccettabile insulto nell’introduzione al catalogo.
E il boom economico , l’abbandono di ogni speranza di una dimensione civile dello spazio pubblico, la fiammata dell’effimero, fino alle illusioni degli anni ’80 , all’euforia ottimista e contagiosa che ha coinvolto architetti di ogni tipo ,professionisti , studenti , docenti , impiegati della pubblica amministrazione, in uno sforzo generoso che ha prodotto un’ immane quantità di progetti, disegni, proposte, programmi, piani. Non lasciando quasi alcun segno sulla città.
Infine, comune a tutte le epoche, la cognizione inquietante del sottosuolo carico di storia, l’ubiquità del tenebroso splendore delle viscere della città, che ogni tanto affiorano come un’apparizione a largo Argentina, come tracce preziose tra i vicoli del Ghetto o nei prati delle periferie : rovine auguste e indifese di fronte alle quali parlare di “arredo” sembra un’ ingiuria volgare.
Il materiale al quale la mostra attinge con risultati a volte spettacolari è, come si vede , un magma affascinante di smisurata vastità . Di fronte al quale, va detto, alcuni settori stentano a trovare un proprio centro (si veda l’erratico assortimento di temi in alcune delle sezioni storiche). Ma il vero significato della mostra è forse riposto nei suoi vuoti : invano si cercherà un accenno allo SDO, un disegno che riguardi la costruzione reale dei grandi interventi per Roma capitale, un’impennata di concretezza e orgoglio civile che non renda inutile la lezione del passato.
Progetti di studenti nel centro storico di Trani e recupero di strutture in c.a. a Castelluccio Superiore
Giuseppe Strappa, in “Il progetto nel contesto storicizzato” , Atti del convegno di Aramo, 17 maggio 2008,
a cura di Alessandro Merlo e Gaia Lavoratti, Firenze 2009
Vivere il paesaggio costruito di Aramo, “praticarne” le pietre, le murature, le costruzioni, costituisce già, credo, una buona lezione di architettura. Si comprende, dal vivo, come questa si formi per stratificazioni successive, attraverso un processo di mutazioni spiegabili con la logica elementare ed evidente della necessità che ogni organismo richiede per vivere e modificarsi nel tempo. Trasformazioni, altra nozione utilissima per il progetto, operate dagli abitanti a partire da un primo impianto che costituisce una fondazione e, insieme, una sorta di canovaccio, un’ipotesi di lavoro sulla quale costruire nel tempo l’aggregato futuro.
Si capisce anche come perfino quando (è il caso delle dieci Castella dell’area pesciatina) le decisioni su quest’impianto sono prese da un potere estraneo e sembrano appartenere solo al mondo lontano delle tecniche militari, la coscienza del costruttore finisce per adeguare le scelte alle condizioni fisiche del luogo, alla propria esperienza della terra e della vita che vi scorre. Le “addomestica”: le riporta cioè, nel senso etimologico del termine, alla confidenza della casa, instaura quel rapporto di calda familiarità tra costruzione, suolo e cultura che è il fondamento di ogni modificazione organica del territorio. E non è un caso che l’edilizia speciale e quella di base condividano, ad Aramo, una stessa misura dello spazio, le stesse dimensioni fondamentali che ricordano come qualsiasi grandezza del costruito ritorni, attraverso percorsi e cicli a volte misteriosi, all’origine del primo spazio abitato dall’uomo. Perfino l’impianto della chiesa di S. Frediano, sebbene di tanto seriore rispetto alla strutturazione dell’organismo insediativo, partecipa della stessa, domestica modularità condivisa delle case a schiera del borgo.
Ma è vero anche quello che scrive, su queste pagine, Maurizio Ciumei partendo da un testo di Claudio Magris: questi spazi, le forme che ne rendono visibile e bella la struttura, sono oggi “invasi”.
Noi in-vadiamo, cioè andiamo contro, quello che pure ammiriamo.
Ognuno di noi possiede una parte della rovinosa disposizione del barone von R. di Hoffmann: osservando un paesaggio costruito, tanto perfetto quanto distante, tendiamo a mettere al centro dell’osservazione i nostri desideri e le nostre attese, ne modifichiamo i contorni secondo una prospettiva privilegiata. Magari non abbattiamo gli ostacoli che si frappongono tra l’osservatore e la cosa osservata come il barone hoffmanniano, ma applichiamo quei principi romantici del pittoresco, fondamento del turismo e, insieme, di tanta parte dell’architettura moderna, che deforma la realtà costruita riportandola a quello che vorremmo che fosse.
Tra queste molte invasioni, quella operata dal progetto di architettura svolge un ruolo del tutto esemplare. Si noti, per convincersene, come non esista progettista che non affermi di aver profuso, nel disegno di una nuova costruzione, grande attenzione per quanto già esiste. E forse, per quanto siano sconsideratamente dirompenti o, al contrario, banalmente imitative le forme impiegate nei confronti dell’esistente, quello che dice è vero. Eppure non c’è progetto che non usurpi, facendo perdere loro qualche qualità, i caratteri storici e paesistici dei luoghi nei quali si pone. Se si rileggono le osservazioni dell’Adolf Loos di Parole nel vuoto sulle costruzioni che gli architetti inseriscono nel contesto, si vedrà che quest’osservazione è tutt’altro che polemica, che giace da tempo, accuratamente nascosta, negli strati profondi della coscienza moderna.
In realtà la radice del problema, credo, è il modo attuale, ancora tardo romantico (e che pure la critica considera come valore in sé) di vedere il mondo secondo una propria gelosa individualità. Una ragione che può essere riconosciuta nell’essenza stessa del progetto contemporaneo, se si considera che non solo nei tessuti premoderni l’edilizia di base non veniva progettata, ma fino a tempi recenti si continuava a costruire per lo più in base alla nozione vigente di casa consolidata dalla prassi edilizia e dall’esperienza abitativa. In qualche modo il progetto di case ed aggregati edilizi non era antecedente al costruito, ma nasceva con esso, emergeva, per così dire, dai depositi di una memoria condivisa. E’ noto, peraltro, come anche in molta edilizia specialistica del passato il progetto costituiva parte integrante della costruzione stessa costituendo la pro-iezione di disegni in scala reale, tracciati sul suolo del cantiere, ai quali gli elementi, anche se costruiti altrove, si sovrapponevano preformando una struttura che veniva poi “pro-iettata”, gettata nello spazio a costruire la forma. Un’idea della continuità di questo rapporto solidale tra edificio speciale e struttura statico-costruttiva si può avere pensando alle opere della grande ingegneria moderna, dalle realizzazioni ispirate dall’insegnamento dell’ École des ponts et chaussées fino alle sperimentazioni italiane del secondo dopoguerra sull’impiego del calcestruzzo armato in strutture a carattere organico.
A quest’adesione condivisa del soggetto operante con l’oggetto del proprio lavoro, con la fisicità oggettiva della costruzione, si è sostituito un rapporto sempre più individuale, astratto e distante. Il progetto contemporaneo ha finito così per possedere una propria totale autonomia rispetto alla realtà fisica, fino ad appartenere, oggi, ad un circuito immateriale dove ogni progetto rimanda non al costruito reale, ma ad altri progetti altrettanto astratti e senza luogo. Non si tratta più, si badi, dell’”esportabilità” del disegno architettonico di cui parlava Gianfranco Caniggia, degli scambi tra aree che hanno portato a fertili innovazioni, dal gotico fiorentino al moderno classicismo nordico: è la stessa nozione di area culturale ad entrare in crisi.
Riprendendo un paragone esposto nelle pagine precedenti con molta chiarezza da Giancarlo Cataldi, non siamo più di fronte a quegli scambi tra culture che hanno portato alla formazione delle lingue nazionali, dove anche il dialetto aveva una funzione di contributo innovatore. Ci avviamo, ormai, verso l’impiego di una lingua metastorica e senza luogo, un inglese semplificato, asettico e cavo, predisposto ad accogliere ogni neologismo, non importa se proveniente da Silicon Valley o dalla borsa di Shanghai. E, intanto, i generi, in architettura, sono scomparsi e perfino per l’edilizia di base è considerata disdicevole la descrizione della prosa, essendogli di gran lunga preferita una onnipresente “poesia”, mediatica e spesso goffamente spettacolare. L’aspirazione pasoliniana alle “piccole patrie”, dove anche isole come la lenga furlana avrebbero trovato spazio e dignità, si è del resto trasformata, in tutta Europa, in egoismi etnici che reclamano confini, provocano divisioni e conflitti.
E’ con gli occhi rivolti a questo mondo in cui alla totale omologazione sembrano contrapporsi solo miti regressivi, dunque, che l’architetto contemporaneo invade gli ultimi santuari della cultura ereditata. Ed è in queste condizioni si tende a riportare un patrimonio prezioso, attraverso il turismo o per mezzo dell’architettura, con la disinvolta giustificazione dell’abbandono in cui versa, nel grande circo del consumo universale.
In questo quadro di totale perdita della nozione di processo, l’interpretazione neo-pittoresca del costruito storico suggerisce di solito l’idea di una casualità latente, di strutture irripetibili che hanno assunto la forma attuale “degna di essere dipinta”, appunto, ma che avrebbero potuto assumerne infinite altre. La qual cosa contiene certamente una parte di verità del tutto inutile, tuttavia, al progetto. Nascondendo, invece, quella parte di verità che sarebbe indispensabile per capire e progettare il nuovo, la regola individuata nella formazione e trasformazione della realtà costruita che consente di apprezzare, anche, la ricchezza della vita di tessuti ed edifici attraverso le sue infinite deroghe. Sintetizzare gli aspetti essenziali di un intorno civile non significa, infatti, comprenderne solo le fasi eccezionali che colpiscono l’immaginazione e riempiono le storie (le rotture, i rivolgimenti, le conquiste) ma, soprattutto, il ben più duraturo e lento svolgersi della vita quotidiana, ricercare quei principi generali che esprimono, attraverso la varietà degli esiti, l’eterno contrasto che contrappone al fluire della vita, con i suoi aspetti a volte accidentali e misteriosi, alla volontà di spiegarne ragioni e senso.
Nell’ansia del risultato unico ed irripetibile, ottenuto attraverso l’artificiale casualità di meccanismi d’invenzione gelosamente coltivati, i progetti contemporanei finiscono quasi sempre, al contrario, per essere tutti somiglianti tra loro senza che alcun principio comune ne spieghi la similitudine, se non una stessa ricerca di diversità, come una rivoluzione che abbia dimenticato, nella preoccupazione del cambiamento, la spiegazione dei propri fini.
Credo che un ruolo importante svolga, nella formazione di queste condizioni di progetto, la smisurata disponibilità di risorse e l’ estesa dilapidazione di ricchezza che caratterizza le società affluenti del mondo occidentale. L’affrancamento dai vincoli imposti dal bisogno, che obbligavano a rapporti di elementare necessità tra le cose, ha finito col produrre il decadimento dei nessi che contribuiscono a spiegare come si sviluppino ed applichino le leggi di proporzione e congruenza tra gli elementi che compongono un edificio, un aggregato edilizio, una città. Per questa via il principio di giusta proporzione dei mezzi impiegati rispetto ai fini da raggiungere sta perdendo il ruolo fondante che pure ha avuto per secoli nella pratica progettuale. Si sta smarrendo, anche, l’etica del buon uso delle risorse che coincide, insieme, con l’arte del saper ben progettare e ben costruire. E, forse, proprio le inedite concentrazioni di ricchezze nelle aree egemoni del mondo, permettendo la progressiva liberazione dalle necessità economiche, mito di ogni ideologia, diverranno il grande problema del futuro, togliendo senso alla logica della costruzione e all’equilibrio del territorio. Le nozioni di tipo, organismo, processo, divengono così, da necessità, scelta consapevole quanto difficile.
Per questo credo che dovremmo indicare di continuo ai nostri studenti di progettazione lo studio, troppo spesso lasciato alle sole discipline storiche e di restauro, di organismi formatisi attraverso processi ininterrotti di correzioni ed aggiornamenti i quali testimoniano come l’uso sapiente e proporzionato delle risorse produca anche bellezza.
Certo, nel quadro generale che abbiamo indicato, un seminario che, come quello di Aramo, proponga il tema del progetto e della contemporanea lettura di un contesto storicizzato può risultare eccentrico, inattuale. Nell’età dei media e della globalizzazione non è agevole parlare di caratteri condivisi e di organicità alle diverse scale. Eppure ritengo che oggi ci sia bisogno di inattualità, che proprio da questo guardare con occhi nuovi al passato cercando di comprendere le ragioni formative delle cose oltre la loro superficie, possa provenire uno dei pochi mezzi di innovazione e critica alle condizioni del progetto contemporaneo; che proprio la distanza dalle condizioni generali del dibattito architettonico (stancamente) in corso possa risultare, alla fine, feconda, visto che i nostri contemporanei sono troppo simili a noi perché possano insegnarci qualcosa.
Come ho potuto riscontrare anche in altre occasioni, con i seminari tenuti nel vivo dei tessuti storici a Trani, La Valletta, Urfa, Bahia, Castel Madama, progettare partendo non da cartografie, descrizioni, sopralluoghi, ma leggendo dal vivo la cosa progettata, è un modo di riproporre il contatto diretto con la verità fisica della costruzione e del suo processo formativo: è una maniera di riportare i problemi “alle cose stesse” da cui derivano, superando l’astrazione della rappresentazione mediata e delle incerte deduzioni che ne derivano. E in questo senso, va detto, i risultati grafici conseguiti dai seminari condotti sul campo, che non sempre hanno i tempi necessari a lasciar “decantare” il progetto, non danno sempre conto dell’insegnamento profondo che da queste esperienze proviene.
Una lezione ricavata dalla lettura di un tessuto storico come quello di Aramo può avere inizio, mi pare, dai modi stessi nei quali l’architettura viene consumata. Il termine “consumo” non ha nulla a che vedere oggi, infatti, con trasformazione civile, funzionale e fisico di una forma, che termina un suo ciclo per iniziarne un altro, ma ha trasformato il proprio significato in richiesta imposta dalla rapidità dei cicli produttivi, della pubblicità, delle mode.
Proprio la lettura ed il progetto in contesti che mantengono un forte legame col proprio processo formativo sono di fondamentale importanza, ritengo, per riscoprire l’insegnamento dei tempi “naturali” di trasformazione e consumo delle forme degli organismi edilizi ed urbani. Tempi che sono pertinenti alle diverse fasi civili e che è un errore tentare di eludere nascondendosi dietro assunti apparentemente scontati ma, in realtà, indimostrabili.
L’idea che la velocità imposta dal progresso, ad esempio, debba comportare l’abbandono del carattere plastico e murario (che non è semplicemente costruzione in muratura) del nostro ambiente costruito, inseguendo modelli “leggeri” sviluppati, peraltro con qualche coerenza, in aree culturali estranee e lontane. O quella che compito della nuova architettura sia quello di produrre bisogni per assicurare il proprio sollecito rinnovamento, in modo non diverso da quanto avviene per le merci.
L’interesse dell’edilizia di Aramo e la vitalità del suo insegnamento derivano, dunque, da una nozione processuale di consumo (dell’edilizia speciale, della casa a schiera con le specializzazioni e gerarchizzazioni successive) alla quale corrisponde una continua capacità di aggiornamento e recupero nel tempo. Aggiornamento e recupero che oggi non possono che essere inevitabilmente critici: mi pare, anzi, che una delle ricadute positive del seminario sia costituita proprio dalla dimostrazione di come la lettura, anche quando condivisa, non liberi il progettista dalle proprie responsabilità, che ogni soluzione non possa che costituire, nelle condizioni di crisi nelle quali siamo tenuti a progettare, prodotto di coscienza critica.
Il progetto elaborato dal gruppo guidato da Giacomo Gallarati e Marco Zuppiroli mostrato in queste pagine, ad esempio, espone la diversità degli esiti, peraltro tutt’altro che inconciliabili, all’interno di una lettura comune. Le regole d’accrescimento dell’insediamento di Aramo ( le “leggi del divenire dell’edilizia”), sono riconosciute negli organismi insediativi sintopici dell’area pesciatina, condivise da tanti insediamenti di crinale dell’Italia centrale dove l’organismo insediativo si forma attraverso accrescimenti concentrici intorno al percorso matrice di crinale e, raggiunta la propria completezza, la forma finita d’individuo urbano, si raddoppia per gemmazione. Ma quando questa conclusione è stata raggiunta? Quale forma assume la polarità che individua la linea di ribaltamento da cui si genera il nuovo organismo? E quale edilizia speciale la denoterà? La lettura, anche se condotta per via comparativa su casi di studio affini, non da risposte (o meglio, presenta un ventaglio di soluzioni possibili, ognuna soggetta, a sua volta, a molte interpretazioni) ponendo l’eterno quesito del rapporto non solo tra lettura e progetto, ma tra teoria e prassi. Dimostrando, anche, la ricchezza e le potenzialità del metodo tipologico-processuale, al di là dell’apparente determinismo che ha generato infiniti equivoci. A parte la provvisorietà dimostrativa delle soluzioni (che è interna allo spirito di un seminario e alle intenzioni stesse degli autori), i disegni sembrano proporre un fertile dubbio più che una soluzione, presentando due criteri d’intervento possibili. E va notato, a proposito della (relativa) convergenza della lettura e della molteplicità del progetto, come altri gruppi, come quello della Facoltà d’Ingegneria di Bologna guidato da Giorgio Praderio e Luigi Bartolomei, abbiano seguito ipotesi simili con esiti molto diversi dai precedenti.
Certo, nella tradizione della “riprogettazione” come metodo d’indagine sulla realtà costruita, si sarebbero potute sondare molte altre soluzioni e sono certo che non mancheranno occasioni per continuare lo studio progettuale sull’insediamento di Aramo che Alessandro Merlo ha organizzato con tanta capacità e passione.
Ma a me pare che già la preziosa esperienza di questo seminario possa aver contribuito ad insegnare allo studente libero da pregiudizi a riconoscere quei caratteri di organicità della realtà costruita che, necessariamente aggiornati, sono ancora capaci di fornire indicazioni ai frammenti dispersi del nostro territorio. E magari possa anche aver concorso a fargli intuire, nel pessimismo dilagante, lo spiraglio del cambiamento, a fargli balenare l’ipotesi, autenticamente nuova, di poter leggere nell’indistinto apparente che caratterizza i disastri di tante trasformazioni contemporanee del nostro territorio, i segni nascosti di un ordine ancora possibile.
di Giuseppe Strappa
Pochi architetti come Marcello Piacentini, protagonista assoluto dell’architettura romana tra le due guerre, hanno ricevuto condanne tanto definitive.
Piacentini, scriveva Giuseppe Pagano (e dopo di lui l’intera critica del dopoguerra), ha paura del nuovo. In realtà Piacentini aveva fatto di più, aveva teorizzato questa paura. Le trasformazioni in corso nell’architettura internazionale, sosteneva, apriranno pure al futuro, ma stiano lontane dalle nostre città, troppo preziose perchè corrano il rischio di esperimenti. Le sue architetture finiscono così per sembrare, oggi, estranee alla vita, evocare un’aristocratica distanza tra il mondo astratto dell’architetto e la complessità della metropoli in tumulto.
Eppure alcune sue opere sono parti di Roma autenticamente moderne e, a loro modo, singolari.
Un’ originalità difficile da scoprire che consiste, paradossalmente, nella cosciente riduzione dell’invenzione. Quando anche l’architetto più modesto si sentiva chiamato alla creazione individuale, Piacentini proponeva una lingua comune, semplificata, originaria. Sapeva, infatti, che la modernità è anche una rinuncia, l’arte di dire poche parole, ma essenziali; l’unità delle cose che mette in secondo piano il molteplice dei particolari e la sua poesia.
Nei suoi piani per l’Eur e per la Città universitaria ha così convinto i molti architetti che disegnavano i singoli edifici, anche grazie alla sua autorità indiscussa, a far rifluire il proprio linguaggio personale in poche forme condivise.
Ancora oggi molta critica non gli perdona il suo legame col potere politico. Dimenticando che il rapporto tra architettura e potere (dei papi, dei re, dei grandi finanzieri) è parte integrante delle maggiori stagioni artistiche, dal Rinascimento, al Barocco, al Moderno. E che i tanti professionisti che hanno gestito la nostra urbanistica e la nostra edilizia recente hanno avuto, anche loro, solidissimi legami coi poteri forti dell’economia e della politica, con i poveri risultati, tuttavia, che sono sotto gli occhi di tutti.
Forse varrebbe la pena, ogni tanto, di guardare le cose senza il peso della Storia, con occhi nuovi, come per la prima volta. Ci accorgeremmo, allora, di come la forza urbana della Città universitaria, forse proprio per il rigore del suo disegno, sia ancora capace di accogliere il caos di studenti ed automobili, di resistere all’incuria, di sopportare ogni sorta di abusi edilizi rimanendo un vero pezzo di città. E di come, al paragone, la nuovissima università di Tor Vergata non sia che un collage di frammenti discontinui, seminati a ridosso di informi arterie di traffico.
Certo, Piacentini ha commesso anche molti errori monumentalizzando, tra l’altro, intere parti di tessuto storico.
Anche per questo attribuire ai suoi volumi grandiosi un’impossibile attualità sarebbe un errore. Ma non lo è il riconoscere quello che oggi quei volumi indicano: la possibilità di offrire una forma alla città in trasformazione, il desiderio, dimenticato, di dare senso e unità alle sue schegge disperse.