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RISCOPRIRE DEL DEBBIO

 

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Foresteria sud al Foro Mussolini, 1927-33

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Ampliamento della Facoltà di Architettura, 1963

  • RISCOPRIRE DEL DEBBIO

di Giuseppe Strappa

in “Industria delle Costruzioni” n° 394, 2007

Finalmente una grande mostra alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, promossa in collaborazione con la DARC, ha reso giustizia all’opera di Enrico Del Debbio, figura centrale quanto problematica della fase di passaggio al moderno nella cultura architettonica romana.
La mostra propone, con i materiali straordinari dell’archivio Del Debbio, di guardare da vicino, attraverso i dati reali, un periodo della storia dell’architettura in cui l’ordine accademico sembra disgregarsi sotto l’aggressione di nuove istanze e nel quale la storiografia ha cominciato a riconoscere i rivoli dei molteplici esiti che questa rottura ha prodotto, tra accettazioni, resistenze, adeguamenti.
Se letta attraverso le opere tangibili dei protagonisti, la cultura romana di quel periodo si mostra aperta al cambiamento e, insieme, legata ai suoi processi formativi, alla consuetudine col paesaggio costruito ereditato.
In realtà proprio la secolare stratificazione di caratteri plastici e murari depositati nel corso della formazione dell’architettura romana, permettono ancora di riconoscerne gli aspetti specifici nella complessa fase di transizione del ‘900, quando alla permanenza dell’eredità organica si contrappongono le laceranti istanze di un mondo in rapida trasformazione ed il contatto col moderno nordeuropeo.
Condizioni delle quali i protagonisti sono perfettamente coscienti, come testimoniano le riflessioni di Giovannoni sulle nuove incertezze del progetto di architettura: sull’interruzione dell’evoluzione “logica” nella leggibilità degli organismi architettonici, in una fase di perdita di unità della costruzione, quando sembra affievolita quella capacità di sintesi che permetteva all’architettura del passato di essere universalmente compresa, sostituita da tentativi personali, “talvolta immeschiniti in mode mutevoli ed arbitrari individualismi”. Personalismi, dato di fatto rilevante, meno accentuati tra gli architetti romani rispetto a quanto avveniva nell’aree culturali mitteleuropee, come dimostra l’elevato livello di persistenza di caratteri condivisi. Questa continuità ha, a volte, indubbiamente presentato il volto di uno storicismo compiaciuto e pittoresco, riscontrabile anche nelle opere che Del Debbio realizza negli anni ’20:si veda il piccolo quartiere per artisti della Cooperativa Ars o le case Berring Nicoli, Villani, Selva, Tonnini. Ma che è anche all’origine di una ricerca inquieta e complessa, con esiti meno spettacolari dei manifesti del moderno nordeuropeo e che, proprio per questo, avrebbero bisogno di un’indagine più attenta.
Del Debbio è, nel quadro del contesto romano, una delle figure che interpreta in maniera più contraddittoria, e quindi fertile, l’eredità dell’impiego di strutture continue, organiche, plastiche, portanti e contemporaneamente chiudenti, che storicamente avevano avuto esito nell’unità tra struttura statico-costruttiva, distribuzione, spazi e leggibilità. Si veda l’esempio dell’Accademia di Educazione Fisica, apparentemente riconducibile alla tradizione dell’edilizia specialistica romana, dalla quale tuttavia, per molti versi, non potrebbe essere più lontana: la canonica ripartizione verticale (basamento, elevazione, unificazione, conclusione) viene sovvertita dalla inedita gerarchizzazione dei piani mentre è del tutto assente il legame con la nozione di tessuto espressa dai percorsi e dall’aggregazione dei vani. E mentre un complesso, innovativo  meccanismo aeroilluminante della grande aula magna sostituisce il consueto claristorio, l’innovazione della struttura a telaio in calcestruzzo armato, al contrario, viene assorbita, addomesticata nel gioco delle specchiature.
Le splendide prospettive a tempera del progetto dell’Accademia, nella loro apparente serenità, esibiscono, inoltre, il conflitto tra simmetria e moderna ratio compositiva, come pure ostentano l’ opposizione tra elemento e struttura delle quinte di facciata dove il travagliato impiego dei nodi tettonici sembra alludere ad una lingua consolidata che in realtà nega.
Siamo alla fine degli anni ’20, gli anni del sanatorio di Paimio, del padiglione di Mies a Barcellona, della fabbrica Van Nelle a Rotterdam. Del Debbio, architetto informatissimo, conosce bene il panorama del moderno internazionale.  Ha piena coscienza, dunque, di come la differenza tra l’architettura romana e quella nordeuropea non sia dovuta solo a manifesti, slogan, teorie,  intuizioni, ma a condizioni culturali di ben più lungo respiro. E come le specificità del moderno dei “pionieri” abbiano radici in un processo formativo, tipico delle aree del gotico, nel quale continua, anche con l’impiego dei nuovi materiali, l’uso di quelle strutture discrete, seriali, elastiche, portanti e non chiudenti che sono uno dei presupposti delle ricerche del movimento moderno. Caratteri dei quali Le Corbusier ha dato un’accezione estrema e spettacolare nei principi della pianta e della facciata libere.
Le ricerche che Del Debbio svolge del decennio successivo (si vedano i disegni per la case del balilla di Avellino, di Pagani, di Modena) possono non solo essere lette all’interno di quel processo di semplificazione dei volumi che sembra uno dei caratteri comuni del moderno europeo, ma come chiara indicazione della difficile strada di una modernità originale ed organica capace di fondere in unità muraria ed organica (contro la frammentazione del moderno internazionale) costruzione, pareti dell’involucro e spazi degli edifici.
In assenza di un quadro critico basato sulla concretezza delle opere e delle condizioni conflittuali in cui si è svolta la sua vicenda architettonica, la fortuna critica di Del Debbio ha subito fasi alterne, condizionata dal momento politico, dal gusto, perfino dalle mode. Nell’immediato dopoguerra, per ragioni peraltro evidenti, la critica ha costruito una cortina di ostili pregiudizi (con poche eccezioni) nei confronti dell’architettura tra le due guerre, identificata come uno dei simboli più evidenti del drammatico periodo storico appena concluso. E in questo panorama la vicenda di Del Debbio è stata considerata una sorta di espressione distillata della retorica di regime, secondo valutazioni che ben poco avevano a che fare con la realtà delle opere. All’estero, invece, ci si accorgeva immediatamente delle qualità di queste architetture. Nikolaus Pevsner, tra i primi, parlerà del Foro Mussolini come del prodotto di una tradizione dell’antichità ancora vitale ritenendo, già nel 1945, che “molti di questi edifici verranno un tempo giudicati con maggiore obiettività”.
Nell’intero corso degli anni ’50 si parla pochissimo dell’opera di Del Debbio: quasi solo nelle monografie sulle vicende dell’architettura moderna romana di Marcello Piacentini (1952) e di Francesco Sapori (1953). E’ l’inizio di una lunga fase di rimozione nel corso della quale pochi cenni sono dedicati dalla letteratura specializzata all’opera dell’architetto di Carrara, mentre i quotidiani, in ripetute occasioni, ne divulgano con colpevole superficialità un supposto ruolo di architetto di regime e retroguardia culturale. Rare le eccezioni come le poche righe di apprezzamento scritte da Ludovico Quaroni e da Accasto, Fraticelli e  Nicolini nel loro libro sull’architettura moderna romana del ’71.
Una piccola monografia pubblicata nel ’76 da Enrico Valeriani propone alcune rapide coordinate interpretative definendo Del Debbio non architetto di regime, ma frutto diretto “di quel tipo di cultura che dalle esperienze del romanticismo post-risorgimentale, attraverso le innocue sovversioni futuriste, le suggestioni floreali e i lieviti razionalisti, finì oper consumarsi nella Seconda Guerra mondiale”. Della continuazione di questa ostinata damnatio memoriae negli anni successivi posso riportare molte esperienze dirette, come la diffidente accoglienza, nel 1989, del primo regesto delle opere di Del Debbio in Tradizione e Innovazione nell’architettura di Roma capitale  da me curato (pericoloso perché “può capitare in mano agli studenti” si disse) e la valanga di proteste che accolse, l’anno successivo, un articolo su La Repubblica in cui mettevo in evidenza le qualità del Foro Italico compromesse dai lavori per i Mondiali di calcio.
Negli ultimi anni si è assistito ad un fenomeno di generale, progressiva “rivalutazione” dell’architettura tra le due guerre. Sull’onda della riscoperta dell’architettura “accademica” (vera o presunta) tutte, indistintamente, le opere di quel periodo sembrano così divenire, quasi per una bizzarra nemesi, improvvisamente straordinarie.
Il catalogo della mostra romana sulla figura di Del Debbio, curato da Maria Luisa Neri costituisce, purtroppo, un’espressione tarda di questa moda storiografica dove tutto è creativo, elegante, solare. Un’agiografia che non fornisce alcun reale contributo critico.
Ne è un esempio il capitolo  “Un poema pieno di spazio e di sogno: il Foro Mussolini”  dedicato ad uno dei temi nodali nell’ interpretazione dell’opera di Del Debbio e particolarmente attuale considerati gli urgenti problemi di tutela dell’ opera, come rileva in una nota contenuta nel catalogo stesso, Margherita Guccione. Nel testo della Neri ricorrono infinite osservazioni sul “rigore compositivo” dell’opera “esito della più autentica tradizione costruttiva italiana” dove “tutto è perfettamente calibrato” con una “perfetta simbiosi tra architettura e natura”. Ma, sul piano critico, non una sola aggiunta a quel poco che è stato già detto.
Una mostra straordinaria per la quantità e qualità del materiale esposto, dunque, ma anche un’occasione mancata per contribuire a fare luce su una delle figure più problematiche del passaggio al moderno dell’architettura romana.

LA COLATA

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Testo consigliato agli studenti (per capire cosa li aspetta).

INTRODUZIONE
Questo libro è un viaggio attraverso l’Italia, ma anche dentro di
noi che ci viviamo. Dal Nord al Sud, dalla rabbia alla speranza. É
vero, il titolo La colata può far pensare a un’inchiesta che non lascia
spiragli di luce. Forse davvero questo era il nostro stato d’animo al
momento della partenza. Ma dopo migliaia di chilometri, dopo aver
toccato centinaia di paesi in tutte le regioni, ci siamo resi conto della
straordinaria ricchezza ambientale, ma anche umana – ancora viva
nel nostro paese.
Un viaggio cominciato nel 2008 in Liguria con Il partito del cemento
e continuato in seguito nel resto d’Italia. Nel nostro zaino c’era. La lun-
ga strada di sabbia, il diario che Pasolini scrisse nel 1959 seguendo sulla
sua Millecento le coste italiane. E poi Viaggio in Italia, il volume di
Piovene che ne scattò un’immagine negli anni straordinari del secondo
dopoguerra. Ma anche oggi l’Italia attraversa un momento decisivo,
incerta com’è su che cosa voglia essere e dove voglia andare. E il paesag-
gio, l’ambiente sono lo specchio in cui si riflette questa confusione.
L’Italia, come mai forse prima d’ora, è a un punto di non ritorno.
È ancora uno dei luoghi più belli del mondo. Ma il legame con
questa terra non deve farci tacere la realtà, anzi, ci impone di denun-
ciarla: la colata di cemento che sta per riversarsi sul paese rischia di
rovinarlo per sempre. Se tacessimo di fronte allo scempio ne sarem-
mo complici, come popolo e come singoli individui.
É il momento di dire «no››, adesso o mai più, perché presto, nel
giro di una manciata di anni, sarà davvero troppo tardi. Il danno
sarà definitivo, irreversibile. E non riguarderà soltanto il patrimonio
naturale. Perché, lo abbiamo toccato con mano nel nostro viaggio, il
degrado ambientale si accompagna sempre a quello umano. Difficile
dire quale sia la causa e quale la conseguenza.
Il cemento non devasta soltanto le città, non si mangia soltanto
coste incontaminate e boschi secolari. É il catalizzatore di tante passio-
ni e desideri, proprio come scriveva Italo Calvino ne La speculazione
edilizia. Non siamo più di fronte alla fame di case che diede impulso
alla devastazione del dopoguerra. Oggi il cemento ingrossa le tasche
di pochi e impoverisce tutti noi. Ci illude con il miraggio dell’occu-
pazione, tacendo però che si tratta di posti di lavoro poco qualificati
e di breve durata. Ci inganna con la promessa dello sviluppo turisti-
co, fingendo di ignorare che un’ Iltalia guastata dal cemento non potr�
reggere il confronto con altri paesi ben più attenti a conservare il loro
patrimonio. Non sono i posti letto nelle schiere dei condomini ad
attirare i turisti, ma le ricchezze culturali e ambientali.
Ma il cemento è anche il perno intorno a cui ruota l’alleanza mal-
sana tra imprenditori spregiudicati e politici pronti a tradire la loro
fondamentale missione di rappresentanti dei cittadini. È il luogo di
scambio dove il bene comune viene barattato con interessi privati
e di parte. Troppi, davvero troppi governanti e amministratori di
centrosinistra e centrodestra si dimostrano disponibili a svendere la
nostra Italia, ignorando le conseguenze – parliamo di vite umane –
che il degrado del territorio porta con sé. Ma un ponte sullo Stretto,
una nuova autostrada costano più di quei quattro miliardi di euro
che basterebbero per mettere in sicurezza tutto il territorio italiano.

Luci insensate sui monumenti

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di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del  20.07.2002

Roma ha sempre posseduto un suo speciale fascino notturno. Henry James, che vi arrivava da Parigi “dove tutto pulsava e brillava”, annotava la tenebrosità delle sue notti, le strade buie e vuote  nonostante i lampioni a gas attorno al Tritone zampillante. Questo fascino era anche dovuto al difficile rapporto di Roma con l’illuminazione notturna: si doveva arrivare al gennaio del 1854 perché le prime luci a gas cominciassero a sostituire i fumosi lampioni ad olio, e solo nel 1888 furono istallati a via dei Cerchi, nelle officine della Società Anglo-Romana, le prime macchine a vapore per la produzione di energia elettrica destinata alla scarsa illuminazione pubblica. Così rovine e monumenti potevano ancora essere goduti, fino a non molti anni fa, nel bagliore unico ed irripetibile che le pietre emanano sotto il chiarore della luna e anche la Roma di Fellini, in fondo, era ancora la piccola metropoli delle notti misteriose.
Oggi la nostra città, come tutte le grandi capitali europee che ormai vivono anche di notte, ha bisogno di luce, molta luce. Ma, se nessuno rimpiange la Roma sparita dei Roesler Franz, la nostra città non è (ancora) Las Vegas e il nostro patrimonio architettonico dovrebbe essere tutelato anche da un buon progetto dell’illuminazione artificiale. I monumenti romani sono tra i prodotti più alti della cultura occidentale: non possono essere sviliti dalle deformazioni di luci spettacolari poste secondo una bizzarra, arbitraria arte combinatoria.
Chi ha visto la nuova illuminazione del Colosseo sa di cosa parlo: l’unità della costruzione, qualità lodata dai trattatisti di ogni epoca, è ora spezzata da un’insensata serie di anelli scintillanti, che schiacciano la celeberrima gerarchia degli ordini architettonici. E il Colosseo è solo l’ultimo di una nutrita serie di guasti (per fortuna reversibili). Come la berniniana facciata di Palazzo Montecitorio, dimostrazione evidente di come l’organicità solenne delle facciate romane non sopporti la decomposizione provocata da una luce radente e concentrata, ignara di ogni ordine e logica architettonica. E poi la cupola di  San Pietro, e piazza del Quirinale, per parlare solo di alcuni monumenti illustri.
La ragione (o più semplicemente il buon senso) vorrebbe che una luce artificiale discreta restituisse un’immagine autentica del monumento. Magari, se proprio non si riesce a resistere alla retorica, sottolineando con intelligenza la logica della gerarchizzazione tra le parti, che, a Roma, per il tempio antico o il palazzo rinascimentale, è sempre la stessa: basamento, elevazione, unificazione, conclusione.
La meravigliosa strategia costruttiva e il carattere plastico e murario dei nostri monumenti non si prestano al capriccio illusorio delle ombre violente. Il perimetro delle figure scintillanti ritagliate contro il buio della notte li fa assomigliare alle immagini semplificate della pubblicità, dove la parte è staccata dal contesto e affrancata dal significato originale come una lingua che ci pervenga per frammenti divenendo, dunque, incomprensibile. Una lingua ormai considerata morta, evidentemente, che nessuno si prende la briga di rendere accessibile in una città dove pure la nuova architettura, parallelamente, sembra non volersi riconoscere in alcun valore che trascenda il consumo sbrigativo, lo spettacolo istantaneo.
Anche i monumenti entrano così nel nuovo circuito dei paesaggi virtuali, nel mondo analogo della visione semplificata che occupa la retina per pochi secondi. Con grande gioia dei turisti che caracollano grati, per le strade cariche di storia, su enormi autobus dell’Atac da dove il faccione stampato di Zahar Hadid, nuovo astro e simbolo della futura architettura romana, occhieggia compiaciuto.

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L’ARREDO URBANO E L’ARTE DI COSTRUIRE LE CITTA’.

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di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del  2.10.1991

“Arredo urbano” è forse una delle locuzioni   più  ambigue che la cultura   architettonica contemporanea    abbia coniato: contiene il concetto insidioso di “guarnire un ambiente”, insinua subdolamente l’idea che le piazze e i giardini nelle città siano una sorta di salotti buoni da abbellire con oggetti di consumo. Alludendo  ad un provvisorio e sovrapposto  decoro , esso  testimonia nella  lingua  il degrado che subisce ai nostri giorni l’arte di costruire le città , l’abbandono di quel  processo continuo  di formazione  dello spazio urbano  capace di  assimilare  le necessarie  novità : il lampione, l’edicola, la fontana disegnati con sapienza e chiamati semplicemente con i loro bei  nomi.  Non a caso nella letteratura sull’argomento spesso lo si incontra con il suo puntuale pendant : la beautyfication,    altro terribile neologismo che ha fatto di recente irruzione nella pubblicistica di architettura e che significa, più o meno, cosmesi  dell’immagine.
Questa breve e personale nota  architettonico-lessicale in margine alla mostra  La capitale a Roma: città e arredo urbano dal 1870 al 1990  appena inaugurata al Palazzo delle Esposizioni, costituisce in realtà  una fuorviante introduzione ai materiali esposti . I contenuti  della mostra rispecchiano  infatti  raramente il titolo: rilevata l’ambiguità  (si veda il lucido scritto  di Corrado Terzi nel catalogo edito da Carte Segrete) percorrono in genere, per nostra fortuna,  itinerari più vasti e avventurosi dove l’interesse prevalente sembra essere   lo spazio della città, la scena urbana. Tema di  titanica complessità: uno sterminato racconto  che si potrebbe far iniziare  con la formazione del sistema di grandi piazze a cavallo delle mura, quando la città ormai  si affacciava a Porta Maggiore, a Porta Ostiense, a Porta San Giovanni  a interrogare  il suo  incerto futuro di periferie . Per proseguire con il dramma  degli “isolamenti”, dei “diradamenti” dei tessuti antichi, degli sventramenti otto-novecenteschi che hanno abbandonato nel loro percorso angoli deformi di città, veri   relitti urbani. Oppure spazi dilatati, di pedante vocazione oratoria ai cui margini si sono spesso raccolti  altri spazi dalla grazia sommessa e domestica: piazze esigue come cortili dove la modesta, appartata invenzione di una fontana o  la secca arguzia di una testa di fauno (disegnati secondo il gusto per l’aneddoto minuto e imprevedibile  di tanta edilizia “minore” romana) evitano agli abitanti la desolazione dell’anonimato . Scenografie qualche volta  da operetta che pure sdrammatizzano, vivaddio, la tenace inclinazione al sublime , verso la quale sembrano  scivolare, come per vocazione, gli spazi romani.
Poi la città fascista. Che non fu solo sinistro antagonismo tra Geometria e Storia, ma anche  gelida, enigmatica  eleganza : i porticati dell’Eur, i piazzali del Foro Italico, i viali della Città Universitaria. Ed anche, perchè no, il patrimonio dimenticato di studi per le sistemazioni delle aree centrali che generarono spesso esiti  infausti (si veda il caso esemplare di piazza Augusto Imperatore)  soprattutto per la miopia dei politici.
E poi ancora le periferie dissennate della Ricostruzione, i prati sudici  cantati da Pasolini, le vecchie osterie con i pergolati polverosi, naufragate nel mare dei casermoni; ma anche il monumento delle Fosse Ardeatine, capolavoro e simbolo dell’architettura romana del dopoguerra, al quale peraltro Bruno Cussino dedica  un immotivato, inaccettabile    insulto nell’introduzione al catalogo.
E il boom economico , l’abbandono di ogni speranza di una dimensione civile  dello spazio pubblico, la fiammata dell’effimero,  fino alle illusioni  degli anni ’80 , all’euforia ottimista e contagiosa che ha  coinvolto architetti di ogni tipo ,professionisti , studenti , docenti , impiegati della pubblica amministrazione, in  uno sforzo generoso che ha prodotto un’ immane quantità di progetti, disegni, proposte, programmi, piani. Non lasciando quasi alcun segno sulla città.
Infine, comune a tutte le epoche, la cognizione inquietante del sottosuolo carico di storia, l’ubiquità del tenebroso splendore delle viscere della città, che ogni tanto affiorano come un’apparizione   a largo Argentina, come  tracce preziose tra i vicoli del Ghetto o nei prati delle periferie  : rovine auguste e indifese  di fronte alle quali parlare di “arredo” sembra un’ ingiuria volgare.
Il   materiale al quale la mostra attinge con risultati a volte spettacolari è,  come si vede , un magma  affascinante di smisurata vastità . Di fronte al quale, va detto, alcuni settori stentano a trovare un proprio centro (si veda l’erratico assortimento di temi in alcune delle sezioni storiche). Ma il vero significato della mostra è forse riposto  nei suoi vuoti : invano  si cercherà un accenno allo SDO, un disegno che riguardi la costruzione reale dei  grandi interventi per  Roma capitale, un’impennata di concretezza e orgoglio civile  che non renda inutile la lezione del passato.

esercitazione caratteri tipologici A e B

Riprogettazione e aggiornamento dei tessuti nell’area indicata nella planimetria.

Scopo dell’esercitazione è l’applicazione delle nozioni di processo e organismo aggregativo acquisite nel primo ciclo di lezioni. Come si vede dalla planimetria il tessuto è originato dall’edificazione di case a schiera in una prima fase sul percorso di via della Lungara e poi sui percorsi d’impianto ad essa ortogonali. Il tessuto non è formato che in parte in corrispondenza del percorso di collegamento per la presenza delle pendici del Gianicolo, mentre sull’importante collegamento di via della Lungara (polarizzato dalla Porta Settimiana e collegante l’area vaticana) il tessuto si è trasformato nel tempo, in parte, in palazzi.
Si dovrà eseguire la riprogettazione di un tessuto nell’area, supposta libera, della planimetria assegnata partendo dalla ricostruzione delle diverse fasi costruttive che si possono ipotizzare sul luogo. Si arriverà, quindi, alla fase conclusiva per gradi, come sintesi provvisoria di un processo di trasformazione in atto.
Si possono riutilizzare i criteri di alcune esercitazioni eseguite in precedenza, con l’avvertenza che le aree sono ora leggermente irregolari.
Si tenga conto, in proposito, che l’edificazione delle unità di schiera avviene prevalentemente attraverso pareti murarie ortogonali o parallele al percorso, concentrando le irregolarità nei nodi che, per questa ragione, divengono particolarmente complessi.
Si debbono prevedere, seguendo la griglia allegata, le seguenti fasi:
1.    prima fase di edificazione su via della Lungara (percorso matrice): case a schiera individuanti il tipo portante e le varianti sincroniche di posizione.
2.    seconda fase di edific. sui percorsi ortogonali a via della Lungara (fase di impianto) con formazione delle varianti di intasamento.

Sopra, stralcio dalla pianta di Giovanni Maggi, 1625 (si noti la formazione del tessuto di schiere sul percorso matrice). Sotto, stralcio dalla pianta di Giovan Battista Nolli, 1748 (si noti la formazione del tessuto sul percorso d’impianto, in aprte già specializzato, con assenza di costruito sui percorsi di collegamento in formazione.)

3.    terza fase di edificazione  sui percorsi di collegamento tra i diversi percorsi di impianto. Questa fase, in realtà, può non realizzarsi perché, come dimostra la cartografia storica (ad esempio la pianta di Giovan Battista Nolli) e l’evidenza del costruito, il tessuto tra la Lungara e le pendici del Gianicolo è rimasto spesso incompleto, mancando l’edificazione su percorso di collegamento. In questo caso la terza fase si riduce ad un primo aggiornamento dei tipi edilizi che precede la fase contemporanea, con introduzione di rifusioni, case in linea ecc.
4.   quarta fase di aggiornamento e trasformazione del tessuto alle condizioni contemporanee con:
a.    introduzione di eventuali percorsi di ristrutturazione paralleli a via della Lungara che riducano la profondità degli isolati
b.    introduzione di tipi edilizi aggiornati ed adatti ad un tessuto fortemente densificato in alcune parti.  Si può prevedere una trasformazione dei parte del tessuto in case in linea o in palazzo.
c.    Previsione di eventuali spazi pubblici in corrispondenza di eventuali servizi ipotizzando che la parte residua del carcere di Regina Coeli venga riutilizzata per strutture culturali
d.    Impiego di materiali e tecniche costruttive contemporanee e congruenti col luogo.
Non è necessario disegnare entrambi gli isolati (uno dei due può essere solo accennato).
Le scale da impiegare e il livello di approfondimento sono a discrezione dello studente, purchè venga rispettato il formato usuale delle tavole (A3).
Si può montare la planimetria definitiva sulla planimetria che trovate in questa pagina (rilievo dei piani terreni – cliccare sul disegno e poi ingrandire) e la planimetria generale con le ombre sulle foto aeree da scaricare da Google Earth. Da questo sito si possono anche ottenere facilmente le misure.

Alcune notizie sul luogo con i disegni di Giuseppe Vasi dei monumenti principali e riferimenti alla pianta del Nolli si trovano nel sito www.romeartlover.it/Day6.htm.  Alcuni lavori di studenti, svolti su un tema analogo a quello dell’esercitazione qualche anno fa, si trova nel sito  http://icar.poliba.it/ (poi “didattica”, poi “laboratorio 2a” poi “archivio”, poi “2001” o “2002”).
Per qualsiasi chiarimento non esitate a fare domande sul forum del corso.

fare click sull’immagine per ingrandire