Tag Archives: Saverio Muratori

CHIUSURA A TRANSENNA

RENZO PIANO, PALAZZO DELL’OPERA DI LA VALLETTA, MALTA (in costruzione))

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SAVERIO MURATORI, CHIESA DI SAN GIOVANNI AL GATANO (PISA)

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A. LIBERA, M. DE RENZI, PALAZZO DELLE POSTE IN VIA MARMORATA

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CASA IN LINEA A LUDWIGSBURG, GERMANIA

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F. PARDO CALVO, B.G. TAPIA, MUSEO ARCHEOLOGICO DI OVIEDO

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GUSTAVO GIOVANNONI, STABILIMENTO DELLA BIRRA PERONI A ROMA

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LE CORBUSIER CHANDIGAR

LINGUAGGIO MURARIO CONTEMPORANEO

estratto da G.Strappa, Architettura moderna mediterranea in Italia,

in AA.VV. Arte e cultura del Mediterraneo nel XX secolo, UNESCO, Roma 2004

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IDENTITA’ ORGANICA

Cancellando di colpo la nozione di area culturale che si era diffusa nella coscienza europea almeno dall’inizio del XIX secolo, le storie ufficiali di architettura moderna (a partire dagli anni ’30 e con rare eccezioni) sembrano raccogliere le vicende degli architetti e degli edifici intorno ad alcuni nodi critici che, comunicati attraverso slogan, individuano movimenti, correnti, tendenze ai quali viene attribuito un carattere internazionale. Ma i quali, nondimeno, riconoscono invariabilmente i loro centri nelle grandi aree urbanizzate nordeuropee e poi nordamericane, delle quali interpretano valori, gusti, aspirazioni: quello che viene comunemente accolto come internazionalismo architettonico e che tenterà  una propria codificazione linguistica nell’International Style costituisce, in altre parole, il prodotto di una ristretta area geografica del mondo, politicamente ed economicamente accentrante, che ha finito per esportare i propri modelli culturali alle aree più periferiche. Generando al contempo, per reazione, almeno nelle regioni di cultura architettonica maggiormente consolidata, una complessa, nuova presa di coscienza delle proprie specificità alle quali si stenta ad assegnare oggi una definita collocazione storiografica e critica.

Il tema dell’architettura moderna a carattere plastico e murario che si è sviluppata ai confini del moderno internazionale, della sua definizione, della sua storia, dei luoghi dove essa è stata progettata e costruita, ma anche del suo significato contemporaneo e della sua attualità operante, costituisce, in questo quadro, un argomento per molti versi insolito e nuovo.

Anche la consapevolezza di un’identità architettonica organica relativa a una vasta area culturale che aveva il proprio centro nel bacino mediterraneo, identificabile attraverso caratteri comuni pur tra prerogative locali ed eredità conflittuali, si è andata formando di recente, proprio con l’insorgere del ruolo culturalmente egemone del Movimento moderno,a conclusione di un processo che, sulla spinta delle trasformazioni economiche e politiche iniziate nel XVII secolo, aveva finito con lo spostare verso nord il centro del mondo relegando il Mediterraneo ai propri margini.

Nell’Europa settentrionale lo sviluppo dell’architettura moderna ha, in realtà, condotto all’estrema conclusione il processo di trasformazione pertinente alle aree di cultura gotica, caratterizzate da sistemi costruttivi leggeri, trasparenti, seriali, portanti e non chiudenti nel tentativo di rompere qualsiasi residuo legame con i principi di stratificazione muraria e organica gerarchizzazione della costruzione.

Walter Gropius espone il tema con didascalica chiarezza: “[Gli architetti moderni] stanno cercando di ottenere mezzi creativi sempre più audaci per vincere la stessa gravità, per raggiungere, attraverso nuove tecniche, sia nell’apparenza, sia nella realtà, una condizione di sospensione al di sopra del suolo.”  La pianta libera risolve, peraltro, il “genetico” conflitto tra la non eliminabile organicità della distribuzione, dove gli spazi si integrano e specializzano in funzione del ruolo che svolgono nell’edificio, e l’istanza alla serialità della struttura, di origine elastico-lignea, del sistema trave-pilastro di dimensioni unificate  in calcestruzzo armato che costituiva il “ritmo sotteso” della costruzione moderna.

La serialità (carattere di un’aggregazione costituita da un insieme di elementi ripetibili e intercambiabili ) costituirà, non a caso, uno dei tre principi posti a fondamento della nuova architettura internazionale: “Nella struttura a scheletro gli elementi di supporto sono normalmente e tipicamente collocati a distanze uguali in modo che le tensioni siano equilibrate. Perciò la maggior parte degli edifici ha un regolare ritmo sotteso, chiaramente visibile prima che sia applicata l’epidermide esterna.”

Le maisons Dom-ino danno forma di manifesto a questo sviluppo seriale ed aperto, disponibile ad ogni soluzione formale delle strutture elastiche il cui involucro indipendente, utilizzando la stessa pianta, può essere costituito tanto dalle chiusure murarie vernacolari dei disegni per il Groupment sur colline del 1916 , quanto da piani e volumi razionali, come nelle case in serie pubblicate da Le Corbusier qualche anno dopo , che utilizzano, in modo sorprendente, un identico impianto distributivo.

Sviluppo che si contrappone, risultando per molti versi complementare, a quello organico formatosi nel mondo delle murature massive sulle rive del Mediterraneo e che, esportato nei paesi nordici in età moderna, col Rinascimento, ha determinato attraversamenti e intersezioni che rendono evidentemente complesso, oggi, rintracciare processi formativi specifici.

Eppure è altrettanto evidente come nelle aree a carattere plastico e murario dell’Europa meridionale, ma anche mediorientali e nordafricane, la transizione al moderno si sia caratterizzata, almeno in parte, per l’esteso impiego di forme massive e opache, derivate da sistemi costruttivi dove la funzione  statica e costruttiva coincideva con quella di formare e chiudere gli spazi, stabilendo una chiara solidarietà, un rapporto di organica necessità, appunto, tra componenti architettoniche . In queste aree, nei primi due decenni del XX secolo, l’innovazione tecnica e tecnologica dovuta all’introduzione di nuovi materiali non ha dato luogo a forme di costruzione radicalmente innovative, ma ha proceduto soprattutto per aggiornamenti sostanzialmente continui e congruenti rinnovamenti. Si può senz’altro affermare che qui la persistenza di una chiara nozione di organismo di matrice plastica e muraria costituisca, soprattutto nel corso degli anni ’30 del ‘900, una scelta cosciente degli architetti che produce, soprattutto in Italia, nel periodo tra le due guerre e negli anni immediatamente successivi, un’architettura organica moderna basata su ideali umanistici, che spesso rinuncia all’individualismo delle avanguardie a favore della ricerca di una lingua comune capace di esprimere, ancora nell’età del calcestruzzo armato e dell’acciaio, un legame sintetico tra distribuzione, struttura, leggibilità.

Una diade di polarizzazioni tra aree, questa, nella quale è possibile individuare caratteri opposti e integrabili (come l’unione di sistemi murari ed elastici), resa complessa dalla confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti della vicenda moderna attraverso quei generici riferimenti alla mediterraneità, alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi (che può appartenere alla macchina come alla casa contadina) che hanno finito per rendere difficile ogni perimetrazione. Diade, tuttavia, riconoscibile attraverso la nozione di continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, tanto la costruzione quanto il linguaggio architettonico inteso, appunto, come declinazione individuale, se non di una lingua, di un insieme, almeno, di caratteri condivisi.

L’attuale declino della sperimentazione sull’architettura a carattere plastico e murario, che coincide con la mancanza di ricerca sulle strutture al tempo stesso portanti e chiudenti, dimostra come il carattere autentico di contemporaneità si identifichi oggi con le doti di leggerezza e trasparenza, con la snellezza coltivata con virtuoso narcisismo, con l’indipendenza dell’involucro dagli spazi contenuti che “libera” la forma dalle regole della costruzione. La massività e i sistemi pesanti, il gesto costruttivo sintetico che risolve, allo stesso tempo, problemi distributivi e costruttivi sembrano, in questo quadro, connotare un’architettura distante, inattuale, premoderna, che attinge ai valori di un passato mitico e svanito, relitti portati a riva dalle ondate revivaliste che si succedono periodicamente in Europa e negli Stati Uniti.

Dato, questo, di un processo il cui esito non è affatto scontato, perché il valore di un’architettura è in stretto, mutevole rapporto con le cose cui si da importanza e significato.

In realtà si è andata gradatamente smarrendo, nella produzione più mediatica (più idonea alla diffusione e quindi più nota),non solo il valore, ma la cognizione stessa del carattere del materiale, la coscienza di come il suo impiego non costituisca la mera componente tecnica confinata all’esecuzione dell’opera, ma il portato di una cultura spesso transnazionale, e una delle cause prime dell’invenzione architettonica :”Dire che il materiale rappresenta il mezzo necessario e sufficiente – scriveva Mario Pagano – per la realizzazione architettonica non basta. Esso è qualche cosa di più. Esiste nel materiale qualche cosa che non è soltanto aspetto esterno ma è tendenza formale inerente il materiale prescelto.”

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hassan-fathy-newgourna2 Hassan Fathy

raj-rewal1 Raj Rewal

cortoghiana_2 Saverio Muratori

jacques-herzog-e-pierre-de-meuron-realizzata-per-un-committente-tedesco-a-tavole-entroterra-di-imperia-nei-primi-anni-ottanta Jacques Herzog e Pierre de Meuron

ungers-dudler2 Oswald Mathias Ungers

 

offices-poincare-bruxelles-21Crepain Binst Architecture

carmassi Massimo Carmassi

carmassi-lrsanmichele1

beniamino-servinoBeniamino Servino

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servino

4-prosp-via-di-santa-lucia-291x400 ok-bn-prospetto-su-vico-massimiliano-massimo Matteo Ieva

finocchiaro-casa-a-ragalnaFrancesco Finocchiaro

UTILITA’ DEI DISEGNI URBANI DI SAVERIO MURATORI

di Giuseppe Strappa

presentazione del libro

Marco Maretto, SAVERIO MURATORI. IL DISEGNO DELLA CITTA’, Francoangeli, Milano 2012

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Il primo dato che emerge con chiarezza dallo studio di Marco Maretto sui progetti urbani di Saverio Muratori è che, contro il luogo comune di un suo aristocratico distacco rispetto all’ambiante culturale e professionale in cui opera, l’architetto modenese appare profondamente immerso nello spirito del tempo, partecipa con passione ad esperienze dell’architettura italiana che, per molti versi, concorrono a formare un patrimonio collettivo.
I progetti eseguiti prima della guerra, come i piani per Aprilia o Cortoghiana, costituiscono la versione di matrice “nordeuropea” di una comune sperimentazione sull’architettura razionale. L’esperienza dell’INA-Casa nel dopoguerra segna una fase di incertezza e traumatiche interruzioni delle ricerche precedenti comune alla maggior parte degli architetti del contesto romano (si veda il caso esemplare di De Renzi, col quale Muratori ha condiviso molte delle esperienze di questo periodo). Esperienza che, negli anni  della Ricostruzione, è tanto pienamente inserita, peraltro, nel quadro delle diffuse indagini sul quartiere inteso come unità urbana conclusa, che proprio la constatazione del loro fallimento aprirà la strada alle riflessioni sulla nozione di organismo urbano, la quale troverà un primo esito nella proposta per le Barene di San Giuliano in aperta, dialettica opposizione con le convinzioni del nuovo internazionalismo avanzante.
Anche gli studi sulla tipologia edilizia e la morfologia urbana, ai quali Muratori ha dato un’originale indirizzo “operante”, si svolgono in un clima di condivisa attenzione per temi che, nel corso di tutti gli anni ’60’ e oltre, hanno un ruolo centrale nella ricerca italiana, da Aldo Rossi a Giorgio Grassi a Carlo Aymonino.
Lo stesso tema del disegno urbano testimonia, infine, un’istanza al rinnovamento comune alla ricerca romana e milanese.
Quello che invece caratterizza Muratori e fa, della sua, un’avventura intellettuale isolata ed unica, è il modo di vedere l’oggetto stesso del progettare, la convinzione, progressivamente conquistata,  profonda e praticata fino alle estreme conseguenze, che l’architettura sia soprattutto un processo di conoscenza da mettere in atto attraverso la coincidenza di lettura e progetto (punto di arrivo di assoluta novità) dove non è il secondo a derivare per deduzione logica dal primo, ma è la lettura stessa a costituire opera di “riprogettazione”. Un progetto che è, dunque, non semplice soluzione di problemi posti dalla realtà, ma soprattutto costruzione critica che dà senso universale al particolare e unifica il molteplice, in questo simile, per certi versi, all’indagine fenomenologica husserliana: cogitationes che non derivano direttamente dal reale ma sembrano completarlo.
Quello che distingue Muratori dal clima culturale che lo circonda, il quale sembra progressivamente orientarsi verso una visione centrifuga del mondo costruito dove tutto diviene relativo e discontinuo, è la sua proposta di un centro unificante, frutto di un pensiero organico nel quale ogni parte della realtà  trova il suo posto all’interno di un sistema di rapporti necessari. Deve trovare il suo posto: l’organicità che Muratori individua nella storia e nel territorio, il processo che riconosce nella trasformazione della città e del costruito, costituiscono, in realtà, un solo, grande progetto.
Per questo lo studio che Maretto presenta in queste pagine sulla dimensione, non solo scalare ma teorica, del disegno urbano, getta luce su uno dei gradi necessari di un processo fondamentalmente conoscitivo,  un passaggio chiave, che i disegni per le Barene segnano con chiarezza, nel processo di progressiva estensione degli ambiti muratoriani di comprensione del reale. Fino al territorio, fino ai temi poderosi che coinvolgono nel disegno intere ecumeni civili.
Credo che la grandezza della figura di Muratori, architetto fino in fondo, anche nel considerare il divenire delle cose e della vita, consista proprio in questa sua straordinaria volontà di sintesi, nell’unità epica in cui riesce a raccogliere il molteplice. Un paesaggio ideale, espresso da inflessibili griglie e visionari “tabelloni”, nel quale non c’è posto per il banale quotidiano e anche la semplice casa a schiera acquista senso e grandezza nel contributo che fornisce alla costruzione dell’intero organismo urbano.
Questa volontà di sintesi assoluta gli permette di “riprogettare” l’organicità della città e del territorio, ma anche riconoscere, per differenza, le concrete frantumazioni prodotte dalla crisi in atto. E anche l’individualismo di una cultura architettonica sostanzialmente ancora impregnata di romanticismo: come per il neoclassico Schiller, opportunamente citato in queste pagine, per Muratori  la grande arte non è quella attraverso cui l’individuo si esprime con forza titanica, ma quella che sa raccogliere e dare forma alla condivisione, ai gesti tipici nei quali un intorno civile si riconosce.
Con lo iato del periodo della Ricostruzione, quando i suoi progetti sembrano “avvalersi di un morfema astratto costituito da un accostamento di volumi ed elementi geometrici”, come scrive Gianfranco Caniggia, il classicismo che pervade per intero e in profondità il pensiero di Muratori sembra porsi, fin dalle prime esperienze, nel solco della proposta di Pagano di non imitare l’antico, ma di creare un’arte nuova da porre accanto all’antico che si traduce nella nozione di “durata” dove tutto ha senso in quanto esiste un precedente che lo spiega e ne indica il futuro. Per questa ragione, quando la modernità sembra leggere la città come luogo dove tutto è provvisorio, casuale e rapidamente consumato, Muratori introduce l’idea di crisi, di discontinuità tutt’altro che fortuite, unificate come sono in un più vasto disegno dal grande piano della storia, da una struttura ciclica che da architettura alla successione degli eventi.
La sua figura profondamente classicista è, dunque, tutt’altro che anacronistica. Essa svolge, piuttosto, il ruolo che hanno avuto i grandi pensatori in radicale disaccordo con i valori del proprio tempo proprio perché, vivendoli, ne hanno compreso a fondo significato e limiti. Solo una lettura superficiale della loro opera li collocherebbe “in discordanza di fase” col contesto in cui hanno operato. E anche se la lezione di Muratori, esploratore di nuovi territori, è rimasta inascoltata, senza di lui il tempo e le condizioni in cui ha operato non avrebbero, oggi, lo stesso significato.
Ogni società dovrebbe custodire gelosamente questi focolai di critica alle proprie convenzioni invalse come fonte preziosa di un possibile rinnovamento. O, almeno, riflettere sulla loro eredità.
La generosità del suo impegno intellettuale ha invece condotto Muratori in rotta di collisione con un establishment accademico e a pagare la propria intransigente passione civile con le vicende drammatiche che hanno concluso nell’emarginazione la sua storia intellettuale e umana. Alla quale è succeduta una lunga damnatio memoriae  da cui stiamo uscendo solo in questi ultimi anni.
Marco Maretto è uno dei non molti studiosi delle nuove generazioni che ha colto, in chiave contemporanea, il valore operante dell’eredità muratoriana, le fertili possibilità che la sua critica ancora offre alle condizioni stagnanti dell’attuale pensiero sull’architettura.
Per questo lo dobbiamo ringraziare per il prezioso lavoro documentato in queste pagine, che si inserisce in un coerente quadro di studi attraverso i quali, della lezione muratoriana, egli fa riemergere proposte attualissime. Proposte che riguardano la sostenibilità delle trasformazioni che operiamo sul mondo costruito e l’uso organico dei mezzi che abbiamo a disposizione,  in una condizione, come quella contemporanea, segnata da un’ inedita dilapidazione di risorse alla quale l’architettura fornisce spettacolarizzazione e consenso.

Roma, luglio 2012

LE CITTA’ NELLA CITTA’

CONVEGNO INTERNAZIONALE ALL’EUR

in «Corriere della Sera» del 22.10.2006

di Giuseppe Strappa

Nella metropoli della densificazione e della babele dei linguaggi, che, in America come in Cina, esplode e si disperde in frammenti, il virtuale sembra sostituire la realtà e l’immateriale la fisicità dei paesaggi urbani.
La stessa nozione di città, intesa come spazio dove l’uomo non solo vive e lavora, ma s’identifica con i luoghi deputati alla vita civile, sembra sgretolarsi.

Paesaggi di reti tendono a separarsi dalle forme reali, dai luoghi fisici: l’immagine mentale  di una metropolitana, della distribuzione commerciale, dei collegamenti autostradali o aeroportuali, è ormai una rappresentazione convenzionale come le icone sul desktop di un computer. E Bill Gates promette l’avvento di un uomo nuovo, telematico, liberato dall’appartenenza al luogo, che può essere “qui e là e in ogni possibile posto”.

Dopo i fiumi d’inchiostro e di bite spesi ad alimentare questa retorica della delocalizzazione e le sue fughe dalla realtà, forse è il momento di chiedersi se non stiamo perdendo i reali termini del problema. Non tanto perché il 50% degli abitanti del nostro pianeta non ha mai fatto una telefonata, ma soprattutto perché abitare e leggere e-mail in un condominio di Calcutta o in un attico di New York non sarà mai la stessa cosa.

E forse l’uomo, soprattutto il nuovo, mitizzato, nomade metropolitano, ha ancora bisogno di appartenenza, degli spazi essenziali dove la vita affonda le sue radici. L’accettazione della città dispersa, combinatoria, costruita per frammenti sembra segnare, peraltro, la rinuncia definitiva a quella carica ideale, ottimista ed utopica, che aveva dato senso all’architettura moderna, finendo per assegnare all’architetto contemporaneo il ruolo, omologato e rassicurante, di autore di spettacoli urbani.

La crisi della metropoli contemporanea, il suo governo, le ideologie che ha generato sarà il tema di un convegno internazionale che si svolgerà il 13 e 14 maggio al Palazzo degli Uffici all’EUR.

Proprio l’immagine dell’EUR, con il richiamo alla concreta fisicità di città moderna-non moderna che la sua architettura contiene, può indicare alcuni argomenti di riflessione: la validità e la durata dell’architettura urbana; i guasti della specializzazione nell’arte di costruire le città di due momenti separati, il piano urbanistico (lo zoning, gli standard), ed il frammento edilizio che, quando raggiunge la qualità della grande architettura, si compiace narcisisticamente del suo isolamento. La crisi del piano e la caduta di significato civile dell’architettura sono, in questo senso, due facce di uno stesso problema.

La fortuna critica e storiografica dell’EUR ha avuto nel tempo alterne vicende. Oggi  è un po’ fuori moda e si torna a parlare dell’arretratezza del suo impianto “ottocentesco”. Ma, se è vero che il suo modello, rigido e marmoreo, è ormai inattuale, il suo impianto ha in realtà fondamenta molto più antiche che riportano all’essenza della città italiana. E proprio questa  è la sua forza: la capacità di trasmettere, se si guarda oltre le tendenze del momento, la dimenticata, fondamentale nozione di tessuto, il legame tra edificio e città, tra  struttura di percorsi ed architettura, tra episodio eccezionale e continuità edilizia. Nozioni che non sono né vecchie né nuove facendo parte del modo dell’uomo di abitare e orientare lo spazio. Averle dimenticate è uno dei disastri della città contemporanea.

Non a caso l’EUR, che pure nel dopoguerra assomigliava ad una città di rovine più che ad un quartiere in costruzione, ha resistito ai disastri del boom edilizio ed è oggi capace di accogliere il plurale e il diverso, il Palazzo della Democrazia Cristiana come la nuvola di Fuksas.

La vicenda dell’EUR, generato dal demone della compiutezza incorruttibile, dove la  storia ha stratificato nel tempo, invece, segni disuguali e contraddittori, c’insegna come governare i processi di trasformazione della città contemporanea significhi anche accettarne, senza presunzioni di totalità, il carattere aperto, la continua dialettica. Ed anche la sua parte arbitraria e ingovernabile, distinguendo l’essenziale della forma urbana, la struttura profonda e riconoscibile, dall’inevitabile arbitrio del casuale, del particolare, dell’individuale. L’Eur sembra mettere in guardia intellettuali e progettisti dalle seduzioni delle profondità astratte, invita a ridiventare chiari e concreti.

Perché la città contemporanea non è solo il mondo dell’accidentale e del fortuito, è anche un testo continuamente riscritto, alla cui vitalità occorre il grande respiro, la chiarezza di una struttura condivisa nella quale riconoscere la lingua colta delle grandi architetture civili e, insieme, il flusso delle mutazioni combinatorie, il contributo dal basso dei tanti singoli edifici, il molteplice e l’eterogeneo del parlato quotidiano che rinnova e dà ricchezza al linguaggio.