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LETTURA DELL’ ORGANISMO ARCHITETTONICO

 

Lezione di G.Strappa
Prendiamo in esame il caso di Villa Capra cercando di comprenderne le ragioni formative e le potenzialit¦ di sviluppo:
– perché essa si configura come organismo;
– perché di questo organismo possono essere date alcune leggi generali, che lo identificano allíinterno di una famiglia di organismi: una definizione che, trascendendo il singolo edificio, permetta di riconoscere nel manufatto architettonico la presenza di caratteri costanti che individuano il tipo.
Villa Capra, concludendo una famiglia di edifici e ponendosi all’inizio di un’altra, sotto molti punti di vista, esemplare. Riguardiamola sotto l’ottica del rapporto col luogo e delle componenti che lo informano.
Il luogo. Nel programma unitario dell’organismo uno dei dati del problema è legato all’utilizzazione dell’edificio rispetto alle condizioni al contorno: una villa situata nella campagna vicino Vicenza, su un luogo di cui sono note le qualità, e dal quale è possibile osservare quasi in maniera isotropa il paesaggio circostante con pochi discreti punti cospicui: “Il sito è degli ameni e dilettevoli che si possano ritrovare, perché è sopra un monticello di ascesa facilissima ed è da una parte bagnato dal Bacchiglione fiume navigabile, e dall’altra è circondato da altri amenissimi colli, che rendono l’aspetto di un molto gradevole Theatro, e sono coltivati, e abondanti di frutti eccellentissimi e buonissime viti…”.

 

L’utilitas. Questo edificio è una villa, quindi fa riferimento ad un modo di abitare di consolidata tradizione: corrisponde ad una grande, ben individuabile famiglia di edifici. La villa, così come si è configurata nel tempo, corrisponde ad un edificio di abitazione di campagna, che ha con la natura un rapporto contemplativo: la tradizione della villa corrisponde alla cultura dell’otium, del riposo volto alla riflessione, allo studio, alla contemplazione. Rapporto diverso, quindi, da quello che instaura la casa rurale, altra forma diffusa di relazione diretta tra edilizia abitativa e natura, che è invece principalmente produttivo, di sfruttamento. dato che condiziona la funzione è costituito dalla figura del committente, il referendario apostolico Paolo Almerico, figura di prelato colto, intellettuale e letterato. Ne risulta un programma di relazioni tra le parti dell’edificio dove l’istanza funzionale non è separabile da quella simbolica.
La firmitas. Dal punto di vista della costruzione il programma è altrettanto chiaro: non possono che essere utilizzate le tecniche tradizionali disponibili, legate alla struttura muraria continua o alla struttura trilitica (parti portanti) e alle coperture spingenti a volta, a cupola o semplicemente appoggiate come travi e capriate (parti portate). L’esteso uso della parete muraria condiziona la geometria dell’edificio: l’organizzazione per setti murari costringe ad un rapporto di necessità strettissimo tra la parete portante (che è anche chiudente) e la coperture portate. Lo studio statico dell’organismo risulta dunque non isolabile da quello distributivo.

Progetto Palladio Digitale

La venustas, problema delicatissimo per essere il periodo nel quale Palladio progetta un momento di transizione nel quale si instaura un rapporto tutto particolare con l’antico. Le componenti del programma “espressivo” della villa palladiana sono molteplici: da una parte líistanza di dare dignit¦ allíedificio utilizzando le forme rintracciate nelle testimonianze dell’antico, secondo il disegno, che Palladio persegue costantemente, di dare un volto nuovo agli edifici della nobiltà colta veneziana che ancora non possiede segni attraverso i quali autorappresentarsi. Non possono che rivelarsi inadeguati alle esigenze della committenza tanto il tipo di edificio derivato dalla “barchessa”, la residenza del piccolo proprietario terriero veneto con semplice copertura a tetto, quanto il tipo della villa-castello formatasi nel Quattrocento (Villa Porto-Colleoni a Thiene; Villa Giustinian a Roncade) ed ancora in uso ai tempi di Palladio. Ma qui più che altrove, cogliendo l’occasione di rispecchiare il carattere di una committenza allo stesso tempo intellettuale e religiosa, insorge l’istanza a fondere elementi di un edificio religioso legato alla storia (il tempio) con le forme di un edificio civile (la residenza di campagna). Si tratta di un processo critico complesso per le scelte da operare e perchè in realtà Palladio, come è noto, opera su materiali da tempo detratti dalla storia. Egli non vive la prima età della riscoperta dell’antico, quando con entusiasmo si cominciavano a studiare le tracce lasciate dal mondo classico. Opera, invece, su un corpo già consolidato di nozioni, riflessioni, conoscenze: conosce a fondo Vitruvio e i trattatisti rinascimentali, ha acquisito e fatto uso di un patrimonio di studi ormai consolidati. Opera, inoltre, all’interno di una sorta di fertile contraddizione tra fonti dirette e fonti letterarie: il trattato di Vitruvio trae origine per larga parte dallíantichità greca, mentre Palladio in realtà studia ed opera sull’antichità romana. Contraddizione che si manifesta appieno quando gli vengono commissionate le illustrazioni al testo antico (un testo letterario del I secolo a.C. privo, com’è noto, di commento grafico). Questa condizione di interprete costretto a fondare le sue deduzioni su fonti malsicure pone Palladio in una posizione particolare nei confronti dell’antico: non già quella dell’archeologo o del filologo, ma dell’architetto, nel ruolo fecondo di chi è costretto a risalire processualmente alle origini delle forme architettoniche, ad interpretare “criticamente” gli esempi antichi, ad “inventare” nuove varianti ai tipi tramandati. Inventare nel senso etimologico di invenire, dunque trovare, incontrare, scoprire (imbattersi, in un certo senso), dove l’inventio è più ritrovamento critico che innovazione programmatica.
Cerchiamo di ricostruire, interpretandola strumentalmente, la genesi di Villa Capra. Per prima cosa vengono tracciati due assi. Gesto fondamentale di orientamento che permette all’uomo di orizzontarsi rispetto alla natura (al sole, alla campagna, alla vegetazione). Sono gli stessi gesti elementari di fondazione, ripetuti per gli edifici come per le città. Il tracciamento dei due assi di orientamento è seguito dal disegno del recinto quadrato, atto elementare di appropriazione dello spazio. L’edificio deve essere rivolto verso il paesaggio per permettere la contemplazione della campagna circostante: viene tracciato un sistema ordinatore di altri quattro assi, secondo due direzioni, che proiettano l’edificio all’esterno; la contemplazione viene tradotta in termini architettonici, attraverso l’idea del pronao ripetuto sui quattro lati.
Palladio stabilisce una gerarchia tra le parti:
– il perimetro quadrato, limite individuato da linee che dividono l’architettura dalla natura, l’interno dall’esterno;
– la serie dei vani perimetrali ripetuti lungo il perimetro, alla periferia dell’edificio;
– il nodo spaziale, il grande vano centrale, fondamento e cuore dell’edificio, espresso attraverso la forma circolare.
Il tipo si comincia a tradurre in un programma di assi, linee, vani attraverso riflessioni che abbiamo esposto in astratto, ma che in realtà, nella mente dell’architetto, non sono scindibili da ragionamenti costruttivi, funzionali, espressivi: dalla concretezza muri e delle volte. Ne deriviamo una considerazione che svilupperemo ampiamente in seguito: la geometria non determina, ma interpreta ed esprime la vita dell’edificio. Le componenti dell’organismo hanno tra loro un rapporto di necessità intrinseco, secondo una concezione unitaria dello spazio, della struttura, della vita che nell’edificio si dovrà svolgere. Palladio non pensa ad uno schema funzionale da tradurre in architettura: la sua è una totale dell’edificio da realizzare attraverso forme semplici, elementari, dove la forma circolare del nodo spaziale è, coscientemente, leggibile come sintesi perfetta dell’unità dell’organismo perché la circonferenza “avendo le sue parti simili tra loro, e che tutte partecipano della figura del tutto; e finalmente ritrovandosi in ogni sua parte l’estremo ugualmente lontano dal mezo, è attissima a dimostrare la Unità, la infinita Essenza, la Uniformità e la Giustizia di Dio”. Per questo Villa Capra è uno degli esempi di organismo architettonico più chiari: perché è cristallinamente unitario il modo di relazionarsi delle parti con le necessità generali dell’edificio. Dalla iniziale concezione unitaria dell’organismo Palladio ha derivato le considerazioni che uniscono funzione e simbolo: lo spazio centrale è lo spazio della vita, quindi deve essere lo spazio dell’emozione dinamica che si prova entrando
all’interno dell’edificio.” uno spazio domestico, ma anche simbolico, che trascende la pura funzione abitativa. Come la geometria è la rappresentazione formale della regola gerarchica per la pianta, così avviene per l’alzato. Il vano circolare centrale è dominante e quindi a doppia altezza, i vani minori occupano la periferia dell’organismo, sono secondari e “quindi” su una sola altezza: il concetto di centro e periferia, della gerarchia delle parti, informa in modo totale il disegno dell’edificio. E quasi a conservare l’idea leggibile del recinto, della corte originariamente aperta intorno alla quale l’edificio si struttura, il grande vano centrale viene coperto a cupola, simbolo della volta celeste, dello spazio dinamico, aereo, mentre il volume del parallelepipedo che lo circonda simboleggia la base, la terra, la parte statica, materiale dell’edificio. Gerarchicamente il cilindro è la parte più importante, e accanto ad esso si organizzano le parti periferiche, subordinate dal punto di vista funzionale e statico. L’edificio è un organismo perfetto perché ogni parte concorre in rapporto di strettissima necessità statica, funzionale, espressiva a formare un’unità: tant’è che le parti periferiche sono subordinate gerarchicamente anche dal punto di vista del ruolo che svolgono all’interno del sistema statico-costruttivo: la cupola, parte portata, spinge sulle reni, dove viene impostata la capriata, e sui vani periferici (parte portante) destinati ad assorbire, secondo un meccanismo consolidato, le sollecitazioni prodotte dal vano centrale. Anche la capriata, a sua volta, potenzialmente spinge sulla muratura perimetrale (anche se le azioni mutue sono “provvisoriamente”, potremmo dire, eliminate dal tirante) e quindi la funzione dei pronai è allo stesso tempo quella di individuare e rendere leggibili gli assi accentranti dell’edificio, e, contemporaneamente, di reagire alle sollecitazioni ultime trasmesse dalla copertura agli elementi contigui. L’intero edificio poggia infine su un basamento-podio che, oltre a sopraelevare la villa rispetto al terreno, indicandone l’artificialità rispetto alla natura, ha il compito di scaricare sul terreno i carichi delle murature.
E’ riscontrabile, in altre parole, una legge gerarchica comune a tutte le componenti dell’edificio. Nell’utilitas questa legge è riconoscibile attraverso la sequenza: vano centrale di rappresentanza, vani subordinati perimetrali. Nella firmitas lo stesso programma funzionale coincide in una gerarchia statica: parte portata (la cupola spingente), vani perimetrali che sostengono questa spinta, pronai che raccolgono la spinta residua delle coperture e la contrastano, basamento. Utilitas non significa quindi dare risposta alle funzioni in modo meccanico e utilitaristico: quella di Palladio è uníidea umanistica di funzione, legata al modo con cui l’uomo è destinato a vivere lo spazio, che procede non attraverso strumenti puramente logico-funzionali ma fondamentalmente emotivi. Si veda, come lampante dimostrazione, il ruolo assegnato alle scale interne. Villa Capra è una particolare interpretazione della villa e, ovviamente, non l’unica possibile: in molti edifici di questo tipo, a volte anche ville palladiane, la scala ha una funzione importante, costituisce il cuore stesso dell’edificio che indica l’idea di continuità dello spazio centrale del piano terreno con il resto della casa. In questo caso il programma Ë diverso: lo spazio simbolico al centro dell’edificio deve essere di chiarezza assoluta, non disturbato da elementi accessori. La scala ha quindi un ruolo meno importante di quanto la sua funzione richiederebbe, un ruolo del tutto subordinato: il programma dell’utilitas è condizionato dalla più generale visione del “funzionamento simbolico” dell’edificio.
Anche se il problema dei due vani angolari, che risulterebbero dall’applicazione meccanica della geometria, non può che essere risolto nella fusione di due vani, ottenendo vani gerarchizzati, l’impianto rimane, tuttavia, orientato dai due assi di percorrenza che organizzano due fasce laterali (quasi la fascia di pertinenza di una strada urbana) che generano, come nei tessuti urbani di case a schiera, un’anomalia sugli angoli, dando luogo ad una pianta “incidentalmente” asimmetrica. L’interpretazione di questo edificio svolta con gli strumenti dell’architettura, riconoscendo la fondamentale unità dell’organismo, è diversa dall’interpretazione dello storico dell’arte: se si osservano gli schemi interpretativi di R. Wittkower delle ville palladiane si rileverà una diversa lettura, legata alla forma visibile che l’edificio ha assunto nella costruzione: da storico, riflettendo sugli esiti, Wittkower riconduce questo edificio nel filone degli organismi monoassiali, secondo lo schema comune che dovrebbe informare tutte le ville palladiane14. In realtà, riguardato sotto il punto di vista della “matrice” formativa che presiede alla formazione dell’organismo, esso possiede due assi di simmetria intersecantesi nel polo dello spazio centrale, con vani perimetrali di carattere rigidamente seriale, gerarchizzati unicamente allo scopo di risolvere il problema dell’accesso al vano angolare. Anche la posizione delle aperture di porte e finestre, distribuite in “infilata” secondo assi contemporaneamente di percorribilità secondaria e di continuità percettiva, conferma la legge generale di isotropia. In che modo quello che sembra essere esclusivamente il portato “necessario” delle scelte che riguardano l’organismo riesce a rendere leggibili i contenuti dell’edificio? Si immagini di sovrapporre alla sezione il prospetto: la facciata (dove sono anche rappresentati i diversi ruoli delle parti di edificio rispetto alla verticale, alla forza di gravità: basamento, elevazione, unificazione, copertura) corrisponde esattamente, ma, si badi, non meccanicamente, all’idea di spazio che Palladio voleva rappresentare. Essa non rispecchia il semplice dato costruttivo, ma esprime la vita dell’edificio. Le linee orizzontali (sia la sequenza continua della trabeazione che il marcapiano unificante il piano dí appoggio alla conclusione del basamento) percorrono le quattro facce dell’edificio rivelandone la gerarchia interna coll’informare le pareti murarie e i quattro pronai, indicando la quota di imposta sia del primo piano che dei timpani. Sono segni che esprimono sinteticamente e convenzionalmente (simbolicamente) il carattere dell’edificio, rendendone leggibile l’unità. Si noti come anche il basamento, quasi una fondazione fuori terra, denunci la gerarchia che anima l’edificio, eseguito ad archi e volte in quanto autonomamente stabile e virtualmente precedente la costruzione abitata, come un suolo artificiale sul quale fondare líedificio.
E’ chiaro come tutta l’espressione architettonica corrisponda ad alcuni principi, un ordine generale che denuncia la necessità del rapporto tra i diversi elementi: questa regola, resa leggibile, è lo stile usato da Palladio.
A differenza del modo romantico di intendere lo stile come espressione individuale, lo stile in architettura può essere quindi definito come la scelta dei principi che coordinano l’atto costruttivo dell’artefice. E’ quindi un principio molto diverso, ad esempio, da quello che contempla l’uso personale di un repertorio.
In fase di coscienza critica la nozione di stile prevede, nella mente dell’artefice, una conoscenza degli elementi e della loro relazione reciproca (struttura) talmente profonda da consentire un uso del linguaggio individuale eppure aderente alla processualità della realtà costruita. La riconoscibilità individuale dello stile, tutt’altro che condannabile, è comunque data dalla inevitabile frequenza di certi elementi e dalla ripetizione di alcune strutture tettoniche sperimentate. E se in altre arti può esistere una relativa coincidenza tra poetica e stile, questo non può verificarsi in architettura: dove nelle arti figurative lo stile riguarda la rappresentazione, in architettura esso riguarda la costruzione. Lo stile per l’architetto deve essere generalizzabile, deve corrispondere appunto ad un modo universale, trasmissibile e leggibile, di coordinare la progettazione. In questo l’architettura è diversa dalle arti visive: le altre arti rappresentano o interpretano, in diverse forme, la realtà; l’architettura è la realtà. Da questa considerazione deriva larga parte delle riflessioni che verremo sviluppando nel seguito.

RIPENSARE IL CASILINO 23

workshop

RIPENSARE IL CASILINO 23
WORKSHOP INTERNAZIONALE DI RIPROGETTAZIONE URBANA

ASSOCIAZIONE CULTURALE CASALE GARIBALDI
Facoltà di Architettura “Valle Giulia”
S.A.C. – Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura e della Citta’
Laboratorio di Progettazione 2A, Prof. G. Strappa A.A. 2009/2010
Con il Patrocinio della Consulta dei Beni Culturali dell’Ordine degli Architetti P.P.&C. di Roma e Provincia

Giovedì 17 giugno ore 9,00
– Presentazione del workshop
– Lavori dei seminari
Venerdì 18 giugno h. 9,00
– Lavori dei seminari

Dal Casilino 23 a villa de Sanctis
Venerdì 18 giugno 2010, ore 18.00
ASSOCIAZIONE CULTURALE CASALE GARIBALDI
Via Romolo Balzani, 87 (Villa De Sanctis) Roma
Saluti: Giammarco Palmieri (Presidente, Municipio Roma 6)
Sandro Sanguigni (Assessore all’urbanistica, Municipio Roma 6)
Pino Bendandi (Presidente Associazione culturale Casale Garibaldi)
Coordina: Giuseppe Strappa (Presidente del corso di Laurea in Scienze dell’architettura e della città, Facoltà di Architettura “Valle Giulia”)
Intervengono: Marco Corsini (Assessore all’urbanistica, Comune di Roma)
Francesco Coccia (Direttore Dip. XVI – Politiche per lo sviluppo e il recupero delle periferie, Comune di Roma)
Daniel Modigliani (Dirigente ATER, Comune di Roma)
Tom Rankin (Coordinatore California Polytechnic State Institute Rome Program in Architecture)
Alessandro Camiz (Direttore del seminario “Architettura e Città“)
Paolo Carlotti (Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2)

Ingresso libero, la cittadinanza è invitata
A cura di:
Alessandro Camiz

alessandro.camiz@uniroma1.it
3388713648 Lpa
Laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura

V. anche
Camminare Roma
X Uscita 17 Giugno 2010

Viaggio di studio in Spagna: Madrid – Toledo

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VIAGGIO DI STUDIO IN SPAGNA
MADRID – TOLEDO
Facoltà di Architettura “Valle Giulia”
Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura e della Città (S.A.C.)
Laboratorio di Progettazione 2A, Prof. G. Strappa A.A. 2009/2010
Il laboratorio di progettazione 2 del prof. Strappa 2009/10 organizza un
viaggio di studi in Spagna (Madrid e Toledo) dal 18 al 23 maggio 2010.
Il viaggio, finanziato con fondi di Facoltà, prevede una quota di partecipazione di 60,00 euro.
La quota comprende:
Volo Ryanair da Roma-Ciampino a Madrid e viceversa
Tasse aeroportuali
Sistemazione 4 notti a Madrid (zona residenziale) e 1 notte a Toledo (centrale) in alberghi 2/3
stelle in camera doppia o tripla inclusa la prima colazione
Treno da Madrid a Toledo e viceversa
Assicurazione medico bagaglio
La quota non comprende:
I pasti (pranzo e cena), le spese per metropolitana e altri trasporti urbani, eventuali biglietti di
musei e quanto non espressamente indicato
Organizzazione: Alessandro Camiz
alessandro.camiz@uniroma1.it
338713648
Per ulteriori informazioni
http://w3.uniroma1.it/strappa

LABORATORIO LPA – INCONTRO CON ROBERTO MAESTRO SUL PROGETTO PER IL CASILINO 23


23

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Incontro del 18 1 2010 a Roma sul progetto del Casilino 23
Relazione di Roberto Maestro

Ho lavorato con Ludovico Quaroni per un paio di anni dopo il mio ritorno dall’Africa, all’incirca tra il 1963 e il 1965. Avevamo uno studio in via Nizza dove andavano e venivano vari architetti: alcuni come titolari, altri come collaboratori, altri ancora come semplici amici di passaggio, Un periodo molto stimolante e per me formativo.
Quaroni era il contrario di un capo autoritario: era una persona molto intelligente, ma insicura. Aveva in uggia chi lo definiva “maestro del dubbio” perché riteneva che, se era vero che lui aveva dei dubbi, non era vero che li volesse comunicare agli altri. Aveva un’idea della progettazione architettonica come un lavoro di gruppo, dove ciascuno affidato un ruolo diverso. Idea che gli derivava da una sua esperienza nel cinema, dove ognuno fa la sua parte senza sovrapporsi guidato da un regista e secondo una traccia o un soggetto. Lui per certi aspetti si sarebbe Immaginato come soggettista (anziché che regista). Un soggettista pronto a mettersi in discussione e a lasciare spazio alle idee degli altri, anche se più giovani e inesperti di lui. L’ideale per un giovane architetto poco più che trentenne molto presuntuoso, come ero io e con molta voglia di misurarsi sui grandi temi dell’architettura e dell’urbanistica.

Al tempo del progetto del Casilino 23 sperimentammo una sorta di “brain storming” progettuale, Una tecnica in uso negli studi pubblicitari, consistente nel confronto diretto (scontro) tra idee diverse e quanto più contrastanti tra loro, senza seguire una linea precisa.
Avevamo allora discusso e deciso una qualche linea comune? Io ricordo le cose delle quali si parlava quando si parlava di Roma e della sua periferia, A me la periferia di Roma piaceva, invece Quaroni la trovava anonima retorica e, tolto pochi rari esempi, pretenziosa è volgare. Sosteneva che Firenze aveva conservato il suo carattere anche nella periferia, Roma invece no. Il disegno dei quartieri era inesistente: un insieme di architetture dissociate che non riuscivano a creare un luogo riconoscibile.

È in quel clima di critica alla città contemporanea, che nacque l’idea di un quartiere che costituisse fino dal suo disegno di insieme, un segno riconoscibile, di appartenenza a questa città, Si veda a questo proposito il saggio “Com’era bella la città,come è brutta la città “ pubblicato sulla rivista Spazio e Società di De Carlo.
Facemmo dei disegni basati su forme ellittiche e circolari, che non ci convinsero perché le ritenemmo statiche, chiuse in se stesse, Cercavamo forme urbane che proponessero un disegno estensibile alle zone confinanti, una forma dinamica aperta ad aggiunte e integrazioni. Io avevo vinto il mio primo concorso di progettazione con un motto significativo: “antipaese”.
In quegli anni lavoravo contemporaneamente al progetto del terminal per Venezia con un progetto che proponeva “l’ultima parete del canale grande” una parete che si apriva sulla laguna con un ventaglio di moli,
Tra Roma, Firenze, Venezia, Tunisi era più il tempo che si passava in treno che al tavolo da disegno. È quando siamo lontani da una città che si riesce a immaginarla e a pensarla in modo sintetico (l’ellisse di una piazza, la rotazione delle gradinate del Colosseo…).

È così che nacque l’idea del quartiere Casilino 23. Un disegno che ricordasse un grande rudere fuori scala, come lo sono certe parti della Roma antica che emergono dalla trama delle palazzine. Oggi il progetto lo leggo così, ma quando si scelse quel disegno non pensavamo certo di ispirarsi alla Roma dei Cesari. Cercavamo solo un segno forte “moderno” che fosse riconoscibile anche dall’aereo (Il satellite venne dopo), Un disegno che giocasse sull’effetto prospettico falsato dovuto alla disposizione a ventaglio di corpi di fabbrica ad altezza variabile. L’importante era non creare ripetizione.
Quaroni sosteneva che la ripetizione serve solo al costruttore per ridurre i costi, mentre la gente vuole una casa che sia diversa, riconoscibile. Vuol abitare in un quartiere diverso dagli altri, da amare e da esserne orgogliosi, come lo è per Trastevere ,i Parioli o San Frediano a Firenze.
Sotto questo aspetto possiamo dire che il Casilino 13 si può ritenere un successo: la gente che ci abita, ci si riconosce. Non sempre capita anche quando gli architetti sono bravi (vedi lo “Zen” di Palermo).

Il discorso potrebbe chiudersi qui. Il nostro è  soprattutto un lavoro al servizio della gente. Ho visitato ieri questo quartiere dopo tanti anni, un progetto nel quale abbiamo realizzato solo il disegno urbanistico, ma che è stato realizzato con pochissime varianti, I progettisti dell’architettonico che hanno seguito le nostre indicazioni in modo intelligente (condividendone gli obiettivi) sono, secondo me quelli che hanno lavorato meglio, Ma il progetto urbanistico era sufficientemente forte per reggere anche variazioni nell’architettura dei singoli fabbricati.
Io preferisco, naturalmente, quel gruppo di case rivestite in cortina di mattoni, contenute in una geometria solida semplice, senza tanti giochi di balconi sporgenti, e con il tetto che segue  un’unica linea di pendenza dall’altezza di un piano a quella massima di otto piani. Averne costruiti di più alti mi sembra sia stato uno sbaglio.

Ritengo comunque che la città sia un organismo vivo difficile da ingabbiare in un disegno definito una volta per tutte. Le variazioni apportate derivano da scelte economiche forse inevitabili. Ad esempio il centro commerciale, posto nel fulcro del “Ventaglio” è stato orientato con il fronte verso il quartiere esterno, molto più popoloso. Così l’attività commerciale interna al quartiere non ha retto la concorrenza. Si poteva evitare forse, che il quartiere perdesse quella vivacità determinata dalla presenza di attività commerciali integrate alla struttura residenziale.
Per il resto il quartiere si presenta bene. È tenuto pulito, la gente si comporta in modo educato, curando i giardini e gli spazi comuni. Io dopo aver traversato una periferia romana fortemente degradata, ne sono rimasto  piacevolmente sorpreso e ammirato. Ma questo è merito dei suoi abitanti che si sono organizzati in difesa del proprio quartiere e di conseguenza della propria città. A questi vanno i miei complimenti insieme agli auguri di successo per gl’ impegni futuri.

Roberto Maestro
Roma 18 1 2010

 

 

 

Plastici dei progetti iniziali


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Una delle alternative al progetto definitivo


Plastico di studio della versione definitiva

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URBANISTICA E ARCHITETTURA DELLA CITTA’

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L’URBANISTICA E L’ARCHITETTURA DELLA CITTA’
Lezione del prof. Maurizio Marcelloni al corso di Figure dell’Architettura Contemporanea
appunti schematici a cura dell’ arch.  Giancarlo Galassi

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La lezione inizia richiamandosi al libro di Scipione Guarracino, Le et�
della storia. I concetti di Antico, Medievale, Moderno e Contemporaneo
,
(Bruno Mondadori,  2001) nel quale l’autore dimostra che la storia è sempre
finalizzata dagli storici alle proprie dimostrazioni.

Un termine per definire la crisi della città moderna, il passaggio
alla città contemporanea che avviene a partire dalla metà degli anni ’
70 del secolo scorso,  può essere quello di “ambiguità”.

Fino agli anni ’50 la città è “compatta” e si sviluppa per addizioni.
L’architetto-urbanista moderno, avendo questo modello di
riferimento, pensa all’ampliamento della città per addizioni in tre
dimensioni.

Al 1942 risale la legge urbanistica n.1150, una legge esemplare che è
stata presa a modello in tutta Europa.

In particolare sanciva che il Piano Regolatore Generale (PRG) è 1) esteso a tutto il territorio comunale 2) valido a tempo indeterminato, aprendo così un campo di lavoro immenso per gli
urbanisti e pianificando una strategia di sviluppo per i successivi 30-
40 anni.

La legge ha cominciato ad essere in realtà applicata, dopo la Ricostruzione,
dalla fine degli anni ’50 e con essa l’urbanistica perde la sua
tridimensionalità.

Numerose figure di urbanisti come Quaroni, Astengo, Samonà, Piccinato,
De Carlo… avevano continuato a impostare il loro lavoro in termini
tridimensionali ma quando l’adozione dei PRG diviene routine
professionale generalizzata, l’urbanistica perde il suo rapporto con la
terza dimensione e a questo si può schematicamente attribuire il rifiuto della pratica
urbanistica da parte di Quaroni mentre Astengo si adegua alle circostanze demandando a
una fase successiva, il Piano Particolareggiato Attuativo (PPA) il
problema della tridimensionalità.

A partire dalla fine degli anni ’70 si è cominciato a capire che il
PRG non funzionava perchè 1) prevedeva tempi troppo lunghi per il suo
completamento e 2) aveva bisogno di analisi complesse che richiedevano
a loro volta tempi lunghi che andavano ad aggiungersi alle lunghezze
dei tempi tecnici della burocrazia, determinando così, spesso, un
periodo di non meno di 10 anni per l’adozione di un piano.

Quando un PRG diviene legge (ci vogliono in media 10 anni perchè le decisioni prese in fase di progetto divengano norma) la città è già cambiata.

Cosa ha modificato la validità del PRG secondo la legge del ’42?  1)
La crisi economica dovuta al petrolio della metà degli anni ’70 che
mette in diffcioltàla produzione industriale elemento propulsivo della
conurbazione. Una conseguenza di questo fenomeno sono le aree dismesse
all’interno delle città. Utile il merito il testo di Jane Jacobs, Vita
e morte delle grandi città, Einaudi 1961 (rist. 2009).

Altro elemento di modificazione è stato  2) che tra la fine dei ’70 e
l’inizio degli anni ’80 la rivoluzione informatica cambia il modo di
comunicare così come ci ha chiarito nei suoi scritti Manuel Castells.

Ma c’è da dire che, se anche il telelavoro è ancora una prospettiva
importante per migliorare la qualità della vita in città, l’uomo
resterà sempre un’animale sociale e il problema del traffico non può
essere risolto nell’attesa della diffusione del telelavoro.

Ancora 30 anni fa era facile riconoscere un abitante della città da
un residente in un comune del circondario, oggi che la conoscenza, l’
informazione, si è generalizzata, non è possibile più riconoscere un
cittadino da un abitante di un piccolo centro.

Si inizia a pensare di dislocare funzioni urbane importanti nei
comuni circostanti la città, un’operazione che va sotto il nome di
competitività urbana.

Contro la decadenza delle città nascono i cosiddetti Piani
Strategici, ovvero i piani delle 4 / 5 cose che strutturalmente
consentano di far ripartire economicamente una città come accaduto a
Barcellona, a Birmingham e a Bilbao: si tratta di rimettere in modo,
decadute le industrie, il processo economico ricostruendone altrimenti
le basi.

A questo punto il piano del ’42 è in crisi definitiva. Le modalità di
intervento devono essere completamente altre, anche di riavvicinamento
tra architettura e urbanistica.

Ed è il Piano Urbano che fa saltare completamente un PPA e il PRG.

Le novità sono:

1) L’adozione di un Piano Strategico inteso non come piano
urbanistico in senso stretto ma tale da individuare pochi punti di
intervento che abbiano delle ricadute economiche: ad esempio la Nuova
Fiera di Roma vicino all’aereoporto o il nuovo Palazzo dei Cingressi
all’Eur, strutture che dovrebbero far risalire Roma nella classifica
delle città congressuali” (ora è al 75° posto), determinando un
importante indotto così come avvenuto a Barcellona e a Bilbao. Dal
punto di vista gestionale c’è da dire che Roma è molto indietro.

2) mettere in moto, tramite il Piano Strategico, un movimento di
autonomia dei comuni vicini. Cambiando i criteri localizzativi delle
funzioni strategiche si collocano importanti edifici fuori della grande
città secondo un processo di metropolizzazione della periferia.

Le funzioni prima localizzate nel Centro Storico vengono spostate in
piccoli comuni, vedi l’esempio del nuovo centro servizi della Banca d’
Italia a Frascati (4000 addetti).

Si passa così dal concetto di “area metropolitana” a quello di “citt�
metropolitana” proprio per il rapporto dialettico che si stabilisce tra
città e comuni del circondario.

Parigi in proposito si è inventata i grandi progetti di bordo
realizzati al confine tra la città e i comuni vicini.

La città metropolitana è fondata su un policentrismo a geometria
variabile.

3) Cambiare la tradizionale antitesi città-campagna cosicché l’
immagine più vicina alla città contemporanea è quella dell’arcipelago:
Roma come arcipelago metropolitano (Altre definizioni: metapolis, citt�
diffusa) con il vuoto della campagna è all’interno della città di
Roma.

Andrè Corboz in Ordine sparso – Saggi sull’arte, il metodo, la citt�
e il territorio,  Angeli 2006, scrive un testo sull’evoluzione dell’
urbanistica (anche su come si fa ricerca) ein particolare definisce il
territorio come palinsesto, il territorio ‘parla’ e definisce la
scomparsa della contrapposizione città-campagna.

Ilya Prigogine (premio Nobel per la chimica) ha sviluppato la Teoria
della Complessità che mette in crisi il positivismo che sosteneva che
la complessità potesse comunque essere disvelata per segmenti.
Prigogine sostiene che la complessità non si disvela, nell’universo
delle possibilità c’è un solo punto fermo: l’incertezza. Occorre
accettare questa incertezza e viverla bene!

L’urbanistica come programmazione non serve più, occorre, piuttosto,
partire dal basso e ogni volta ‘reinventare’. Gli urbanisti che hanno
pianto perché la realtà non andava secondo i loro PRG hanno allora
messo in crisi i loro strumenti (cfr. un articolo di Bernardo Secchi, I
tempi sono cambiati).

I nuovi strumenti che cercano di stare al passo con la complessit�
sono: 1) la Pianificazione Strategica e 2) la Pianificazione
Strutturale. Vengono selezionati solo alcuni elementi che strutturano
il territorio: la viabilità, il sistema ambientale ecc…, tutto il resto
è demandato ad altre figure, a piani locali.

Il vecchio PRG conteneva tutto, oggi invece con una maggiore
flessibilità, si demanda a piani di scala inferiore.

Tra gli strumenti operativi non si parla più di PPA o di
lottizzazione ma di Programmi Integrati (PrIn) che tengono in
considerazione tutti le figure che operano nel territorio.

Il Progetto Urbano diviene uno strumento complesso che interviene su
un pezzo di città trasformandolo fisicamente e funzionalmente. Il
progetto si cala a scala urbana nella realtà esistente contribuendo a
migliorare la qualità della vita delle persone che abitano il
territorio oggetto d’intervento.

I nuovi metodi sono 1) “Pianificar facendo” invertendo il meccanismo
dialettico tra strategie  e operazioni concrete di costruttori e
pianificatori. La processualità allora è fondamentale: il piano viene
aggiornato con il contributo di tutti i soggetti coinvolti (le
ferrovie, la regione…).

Il piano di Roma, già attuato in questo senso, ha sconvolto gli
urbanisti.

Insomma: gestione e attuazione camminano insieme.

Altro metodo: 2) Progetto Urbano e Policentrismo: formazione di
grandi magneti di rango urbano che competono con il centro storico e
riqualificano le periferie.

Di fronte alla complessità non ci sono scorciatoie, l’urbanistica
tradizionale ha le armi spuntate.

La sperimentazione ha trovato inoltre, con la recente crisi economica
(una crisi tipica di una società postindustriale) una nuova ragione.
Alla crisi economica si somma poi la crisi ambientale.

In Inghilterra esistono i cosiddetti piani di Transition City che
sperimentano modelli di sviluppo sostenibile prevedendo in 10/15 anni
un cambio di stile di vita.

Per spiegare la complessità proprio Prigogine usa la metafora della
città, esemplare organismo dissipativo cioè in grado di consumare più
di quanto produce.

L’architetto urbanista contemporaneo deve forzare al massimo le
possibilità che gli sono offerte; densificare salvando la
discontinuità, in una condizione di trasformazione continua che
utilizzi la mixité, le funzioni integrate miste.