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L’ARREDO URBANO E L’ARTE DI COSTRUIRE LE CITTA’.

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di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del  2.10.1991

“Arredo urbano” è forse una delle locuzioni   più  ambigue che la cultura   architettonica contemporanea    abbia coniato: contiene il concetto insidioso di “guarnire un ambiente”, insinua subdolamente l’idea che le piazze e i giardini nelle città siano una sorta di salotti buoni da abbellire con oggetti di consumo. Alludendo  ad un provvisorio e sovrapposto  decoro , esso  testimonia nella  lingua  il degrado che subisce ai nostri giorni l’arte di costruire le città , l’abbandono di quel  processo continuo  di formazione  dello spazio urbano  capace di  assimilare  le necessarie  novità : il lampione, l’edicola, la fontana disegnati con sapienza e chiamati semplicemente con i loro bei  nomi.  Non a caso nella letteratura sull’argomento spesso lo si incontra con il suo puntuale pendant : la beautyfication,    altro terribile neologismo che ha fatto di recente irruzione nella pubblicistica di architettura e che significa, più o meno, cosmesi  dell’immagine.
Questa breve e personale nota  architettonico-lessicale in margine alla mostra  La capitale a Roma: città e arredo urbano dal 1870 al 1990  appena inaugurata al Palazzo delle Esposizioni, costituisce in realtà  una fuorviante introduzione ai materiali esposti . I contenuti  della mostra rispecchiano  infatti  raramente il titolo: rilevata l’ambiguità  (si veda il lucido scritto  di Corrado Terzi nel catalogo edito da Carte Segrete) percorrono in genere, per nostra fortuna,  itinerari più vasti e avventurosi dove l’interesse prevalente sembra essere   lo spazio della città, la scena urbana. Tema di  titanica complessità: uno sterminato racconto  che si potrebbe far iniziare  con la formazione del sistema di grandi piazze a cavallo delle mura, quando la città ormai  si affacciava a Porta Maggiore, a Porta Ostiense, a Porta San Giovanni  a interrogare  il suo  incerto futuro di periferie . Per proseguire con il dramma  degli “isolamenti”, dei “diradamenti” dei tessuti antichi, degli sventramenti otto-novecenteschi che hanno abbandonato nel loro percorso angoli deformi di città, veri   relitti urbani. Oppure spazi dilatati, di pedante vocazione oratoria ai cui margini si sono spesso raccolti  altri spazi dalla grazia sommessa e domestica: piazze esigue come cortili dove la modesta, appartata invenzione di una fontana o  la secca arguzia di una testa di fauno (disegnati secondo il gusto per l’aneddoto minuto e imprevedibile  di tanta edilizia “minore” romana) evitano agli abitanti la desolazione dell’anonimato . Scenografie qualche volta  da operetta che pure sdrammatizzano, vivaddio, la tenace inclinazione al sublime , verso la quale sembrano  scivolare, come per vocazione, gli spazi romani.
Poi la città fascista. Che non fu solo sinistro antagonismo tra Geometria e Storia, ma anche  gelida, enigmatica  eleganza : i porticati dell’Eur, i piazzali del Foro Italico, i viali della Città Universitaria. Ed anche, perchè no, il patrimonio dimenticato di studi per le sistemazioni delle aree centrali che generarono spesso esiti  infausti (si veda il caso esemplare di piazza Augusto Imperatore)  soprattutto per la miopia dei politici.
E poi ancora le periferie dissennate della Ricostruzione, i prati sudici  cantati da Pasolini, le vecchie osterie con i pergolati polverosi, naufragate nel mare dei casermoni; ma anche il monumento delle Fosse Ardeatine, capolavoro e simbolo dell’architettura romana del dopoguerra, al quale peraltro Bruno Cussino dedica  un immotivato, inaccettabile    insulto nell’introduzione al catalogo.
E il boom economico , l’abbandono di ogni speranza di una dimensione civile  dello spazio pubblico, la fiammata dell’effimero,  fino alle illusioni  degli anni ’80 , all’euforia ottimista e contagiosa che ha  coinvolto architetti di ogni tipo ,professionisti , studenti , docenti , impiegati della pubblica amministrazione, in  uno sforzo generoso che ha prodotto un’ immane quantità di progetti, disegni, proposte, programmi, piani. Non lasciando quasi alcun segno sulla città.
Infine, comune a tutte le epoche, la cognizione inquietante del sottosuolo carico di storia, l’ubiquità del tenebroso splendore delle viscere della città, che ogni tanto affiorano come un’apparizione   a largo Argentina, come  tracce preziose tra i vicoli del Ghetto o nei prati delle periferie  : rovine auguste e indifese  di fronte alle quali parlare di “arredo” sembra un’ ingiuria volgare.
Il   materiale al quale la mostra attinge con risultati a volte spettacolari è,  come si vede , un magma  affascinante di smisurata vastità . Di fronte al quale, va detto, alcuni settori stentano a trovare un proprio centro (si veda l’erratico assortimento di temi in alcune delle sezioni storiche). Ma il vero significato della mostra è forse riposto  nei suoi vuoti : invano  si cercherà un accenno allo SDO, un disegno che riguardi la costruzione reale dei  grandi interventi per  Roma capitale, un’impennata di concretezza e orgoglio civile  che non renda inutile la lezione del passato.

Terza esercitazione caratteri tipologici corsi A e B

Il tessuto edificato di San Lorenzo, pur essendosi formato al di fuori di ogni pianificazione e per logiche speculative, risente dell’impostazione urbanistica ottocentesca con una maglia ortogonale che ha generato isolati composti da parcelle in linea. L’area di intervento è definita dagli assi stradali di via dei Reti, via dei Sabelli e via dei Volsci, ed è costituita da edilizia frammentata di scarsa entità. Nella vigente pianificazione, è prevista l’apertura di una nuova strada, parallela a via dei Reti, per potenziare il collegamento fra lo scalo San Lorenzo e Piazzale del Verano. Si verrebbe così a configurare isolato, che supponiamo sgombro da preesistenze, da edificare, in continuità con il tessuto del quartiere, con tipologie a linea.

1) Nella prima parte dell’esercitazione bisogna individuare il percorso matrice considerando che Via dei Sabelli è una strada consolidata e con alcune attività commerciali e che sulla strada di previsione verrà spostato la maggior parte del traffico veicolare. E’ possibile considerarle entrambi come percorso matrice.

2) La seconda fase (impianto) comporta la saturazione con tipologie in linea dei percorsi ortogonali a Via dei Reti

3)Terza fase di edificazione sul percorso di collegamento tra i diversi percorsi di impianto. (solo se si identifica un solo percorso matrice)

4) La quarta fase edificatoria riguarda la specializzazione delle tipologie in linea d’angolo. In seguito alle scelte operate sono possibili più soluzioni. Nel caso in cui sia stato scelto di attribuire a entrambi i percorsi (via dei Reti e la strada di previsione) la valenza di percorsi matrice le soluzioni d’angolo risentiranno di questa scelta di impostazione tendendo a comportarsi in maniera simmetrica rispetto l’asse verticale dell’isolato. Nel caso opposto, dando valenza di percorso matrice o a via dei Reti o alla strada di nuova edificazione, le soluzioni d’angolo risentiranno delle preesistenze (fase 3) dando vita a soluzioni più variate.

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Seconda esercitazione caratteri tipologici corsi A e B

Scopo dell’esercitazione è l’applicazione delle nozioni di processo e organismo aggregativo acquisite nel primo ciclo di lezioni. L’area oggetto dell’esercitazione è quella di piazza della Moretta lungo via Giulia a Roma in una zona inedificata risultante da demolizioni avvenute nel 1931. Si ipotizza di ricucire il tessuto mediante la riedificazione di due degli isolati demoliti secondo la loro configurazione planimetrica ante 1931. Il tessuto, fortemente densificato è composto oggi da case a schiera, pseudoschiera e palazzi, deriva dal processo di trasformazione delle domus con cui si ritiene fosse edificata gran parte dell’ansa del Tevere nella zona libera dai resti degli edifici specialistici di epoca romana. Si dovrà eseguire la riprogettazione di tali isolati partendo dalla supposta permanenza del sostrato tipologico delle domus anche dopo la costruzione del tracciato cinquecentesco di via Giulia rispetto al quale i percorsi di adduzione al fiume sono precedenti. Gli isolati sono così definiti da vicolo delle prigioni, da vicolo della padella e da vicolo dello Struzzo (da pensare ricostituiti). Si possono riutilizzare i criteri di alcune esercitazioni eseguite in precedenza, con l’avvertenza che le aree sono ora leggermente irregolari.
Si tenga conto, in proposito, che l’edificazione delle domus avviene prevalentemente attraverso pareti murarie ortogonali o parallele ai percorsi di accesso fatto salvo il fronte su via Giulia che, in quanto percorso di ristrutturazione, ha il fronte non ortogonale ai muri interni alle abitazioni. Queste peraltro, in virtù dell’importanza di via Giulia, assumeranno carattere speciale (palazzetti, alberghi ecc.). Anche il fronte opposto, verso il Tevere, (sul proseguimento di via della Bravaria) presenta irregolarità planimetriche dovute al percorso lungofiume, imponendo delle varianti tipologiche.

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In definitiva, supposta come data la lottizzazione degli isolati composti da recinti di domus con un fronte di 15m circa (3 cellule), si devono prevedere seguendo la griglia allegata, le seguenti fasi:

1.Prima fase: edificazione secondo il tipo con le relative varianti sincroniche da posizione. Si tenga conto dell’isorientamento delle domus ma anche se del caso, del prevalere della gerarchia dei percorsi e delle varianti da posizione (fronti ed angoli su via Giulia).

2.Seconda fase: utilizzo del fronte. Tabernizzazione.

3.Terza fase: incremento delle cellule su un margine.

4.Quarta fase: Completo addossamento delle cellule sui muri del recinto (densificazione): Insulizzazione e formazione delle pseudoschiere con apertura del recito

Nella dalla quarta fase si introduce ovviamente l’aggiornamento e trasformazione del tessuto alle condizioni contemporanee con:

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a.    Introduzione di tipi edilizi aggiornati ed adatti ad un tessuto fortemente densificato in alcune parti.  Si può prevedere una trasformazione dei parte del tessuto in case in linea o in palazzo.
b.    Previsione di eventuali spazi pubblici in corrispondenza di eventuali servizi.
c.    Impiego di materiali e tecniche costruttive contemporanee e congruenti col luogo.
Non è necessario disegnare entrambi gli isolati (uno dei due può essere solo accennato).

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Le scale da impiegare e il livello di approfondimento sono a discrezione dello studente, purchè venga rispettato il formato usuale delle tavole (A3).
Si può montare la planimetria definitiva sulla planimetria che trovate in questa pagina (rilievo dei piani terreni – cliccare sul disegno e poi ingrandire).

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ESAMI STRAPPA

L’esame del laboratorio 2 del prof. G. Strappa
si terrà MARTEDI 21 dicembre2010
dalle ore 11,00
in aula 4

per sostenere l’esame occorre registrarsi sul portale INFOSTUD
https://stud.infostud.uniroma1.it:4445/Sest/Log/Corpo.html

si raccomanda, per una eventuale mostra dei lavori, di portare all’esame, oltre al book di tutte le esercitazione e degli schizzi preparatori,  un DVD o CD ROM contenente  tutte le tavole d’esame nel loro formato (A1), non i DWG di autocad o il PDF, ma una immagine raster della tavola in formato JPEG o TIFF a colori (300 dpi) e scrivendo sulla copertina il proprio nome, corso, seminario, titolo progetto, email e telefono.

LETTURA DELL’ ORGANISMO ARCHITETTONICO

 

Lezione di G.Strappa
Prendiamo in esame il caso di Villa Capra cercando di comprenderne le ragioni formative e le potenzialit¦ di sviluppo:
– perché essa si configura come organismo;
– perché di questo organismo possono essere date alcune leggi generali, che lo identificano allíinterno di una famiglia di organismi: una definizione che, trascendendo il singolo edificio, permetta di riconoscere nel manufatto architettonico la presenza di caratteri costanti che individuano il tipo.
Villa Capra, concludendo una famiglia di edifici e ponendosi all’inizio di un’altra, sotto molti punti di vista, esemplare. Riguardiamola sotto l’ottica del rapporto col luogo e delle componenti che lo informano.
Il luogo. Nel programma unitario dell’organismo uno dei dati del problema è legato all’utilizzazione dell’edificio rispetto alle condizioni al contorno: una villa situata nella campagna vicino Vicenza, su un luogo di cui sono note le qualità, e dal quale è possibile osservare quasi in maniera isotropa il paesaggio circostante con pochi discreti punti cospicui: “Il sito è degli ameni e dilettevoli che si possano ritrovare, perché è sopra un monticello di ascesa facilissima ed è da una parte bagnato dal Bacchiglione fiume navigabile, e dall’altra è circondato da altri amenissimi colli, che rendono l’aspetto di un molto gradevole Theatro, e sono coltivati, e abondanti di frutti eccellentissimi e buonissime viti…”.

 

L’utilitas. Questo edificio è una villa, quindi fa riferimento ad un modo di abitare di consolidata tradizione: corrisponde ad una grande, ben individuabile famiglia di edifici. La villa, così come si è configurata nel tempo, corrisponde ad un edificio di abitazione di campagna, che ha con la natura un rapporto contemplativo: la tradizione della villa corrisponde alla cultura dell’otium, del riposo volto alla riflessione, allo studio, alla contemplazione. Rapporto diverso, quindi, da quello che instaura la casa rurale, altra forma diffusa di relazione diretta tra edilizia abitativa e natura, che è invece principalmente produttivo, di sfruttamento. dato che condiziona la funzione è costituito dalla figura del committente, il referendario apostolico Paolo Almerico, figura di prelato colto, intellettuale e letterato. Ne risulta un programma di relazioni tra le parti dell’edificio dove l’istanza funzionale non è separabile da quella simbolica.
La firmitas. Dal punto di vista della costruzione il programma è altrettanto chiaro: non possono che essere utilizzate le tecniche tradizionali disponibili, legate alla struttura muraria continua o alla struttura trilitica (parti portanti) e alle coperture spingenti a volta, a cupola o semplicemente appoggiate come travi e capriate (parti portate). L’esteso uso della parete muraria condiziona la geometria dell’edificio: l’organizzazione per setti murari costringe ad un rapporto di necessità strettissimo tra la parete portante (che è anche chiudente) e la coperture portate. Lo studio statico dell’organismo risulta dunque non isolabile da quello distributivo.

Progetto Palladio Digitale

La venustas, problema delicatissimo per essere il periodo nel quale Palladio progetta un momento di transizione nel quale si instaura un rapporto tutto particolare con l’antico. Le componenti del programma “espressivo” della villa palladiana sono molteplici: da una parte líistanza di dare dignit¦ allíedificio utilizzando le forme rintracciate nelle testimonianze dell’antico, secondo il disegno, che Palladio persegue costantemente, di dare un volto nuovo agli edifici della nobiltà colta veneziana che ancora non possiede segni attraverso i quali autorappresentarsi. Non possono che rivelarsi inadeguati alle esigenze della committenza tanto il tipo di edificio derivato dalla “barchessa”, la residenza del piccolo proprietario terriero veneto con semplice copertura a tetto, quanto il tipo della villa-castello formatasi nel Quattrocento (Villa Porto-Colleoni a Thiene; Villa Giustinian a Roncade) ed ancora in uso ai tempi di Palladio. Ma qui più che altrove, cogliendo l’occasione di rispecchiare il carattere di una committenza allo stesso tempo intellettuale e religiosa, insorge l’istanza a fondere elementi di un edificio religioso legato alla storia (il tempio) con le forme di un edificio civile (la residenza di campagna). Si tratta di un processo critico complesso per le scelte da operare e perchè in realtà Palladio, come è noto, opera su materiali da tempo detratti dalla storia. Egli non vive la prima età della riscoperta dell’antico, quando con entusiasmo si cominciavano a studiare le tracce lasciate dal mondo classico. Opera, invece, su un corpo già consolidato di nozioni, riflessioni, conoscenze: conosce a fondo Vitruvio e i trattatisti rinascimentali, ha acquisito e fatto uso di un patrimonio di studi ormai consolidati. Opera, inoltre, all’interno di una sorta di fertile contraddizione tra fonti dirette e fonti letterarie: il trattato di Vitruvio trae origine per larga parte dallíantichità greca, mentre Palladio in realtà studia ed opera sull’antichità romana. Contraddizione che si manifesta appieno quando gli vengono commissionate le illustrazioni al testo antico (un testo letterario del I secolo a.C. privo, com’è noto, di commento grafico). Questa condizione di interprete costretto a fondare le sue deduzioni su fonti malsicure pone Palladio in una posizione particolare nei confronti dell’antico: non già quella dell’archeologo o del filologo, ma dell’architetto, nel ruolo fecondo di chi è costretto a risalire processualmente alle origini delle forme architettoniche, ad interpretare “criticamente” gli esempi antichi, ad “inventare” nuove varianti ai tipi tramandati. Inventare nel senso etimologico di invenire, dunque trovare, incontrare, scoprire (imbattersi, in un certo senso), dove l’inventio è più ritrovamento critico che innovazione programmatica.
Cerchiamo di ricostruire, interpretandola strumentalmente, la genesi di Villa Capra. Per prima cosa vengono tracciati due assi. Gesto fondamentale di orientamento che permette all’uomo di orizzontarsi rispetto alla natura (al sole, alla campagna, alla vegetazione). Sono gli stessi gesti elementari di fondazione, ripetuti per gli edifici come per le città. Il tracciamento dei due assi di orientamento è seguito dal disegno del recinto quadrato, atto elementare di appropriazione dello spazio. L’edificio deve essere rivolto verso il paesaggio per permettere la contemplazione della campagna circostante: viene tracciato un sistema ordinatore di altri quattro assi, secondo due direzioni, che proiettano l’edificio all’esterno; la contemplazione viene tradotta in termini architettonici, attraverso l’idea del pronao ripetuto sui quattro lati.
Palladio stabilisce una gerarchia tra le parti:
– il perimetro quadrato, limite individuato da linee che dividono l’architettura dalla natura, l’interno dall’esterno;
– la serie dei vani perimetrali ripetuti lungo il perimetro, alla periferia dell’edificio;
– il nodo spaziale, il grande vano centrale, fondamento e cuore dell’edificio, espresso attraverso la forma circolare.
Il tipo si comincia a tradurre in un programma di assi, linee, vani attraverso riflessioni che abbiamo esposto in astratto, ma che in realtà, nella mente dell’architetto, non sono scindibili da ragionamenti costruttivi, funzionali, espressivi: dalla concretezza muri e delle volte. Ne deriviamo una considerazione che svilupperemo ampiamente in seguito: la geometria non determina, ma interpreta ed esprime la vita dell’edificio. Le componenti dell’organismo hanno tra loro un rapporto di necessità intrinseco, secondo una concezione unitaria dello spazio, della struttura, della vita che nell’edificio si dovrà svolgere. Palladio non pensa ad uno schema funzionale da tradurre in architettura: la sua è una totale dell’edificio da realizzare attraverso forme semplici, elementari, dove la forma circolare del nodo spaziale è, coscientemente, leggibile come sintesi perfetta dell’unità dell’organismo perché la circonferenza “avendo le sue parti simili tra loro, e che tutte partecipano della figura del tutto; e finalmente ritrovandosi in ogni sua parte l’estremo ugualmente lontano dal mezo, è attissima a dimostrare la Unità, la infinita Essenza, la Uniformità e la Giustizia di Dio”. Per questo Villa Capra è uno degli esempi di organismo architettonico più chiari: perché è cristallinamente unitario il modo di relazionarsi delle parti con le necessità generali dell’edificio. Dalla iniziale concezione unitaria dell’organismo Palladio ha derivato le considerazioni che uniscono funzione e simbolo: lo spazio centrale è lo spazio della vita, quindi deve essere lo spazio dell’emozione dinamica che si prova entrando
all’interno dell’edificio.” uno spazio domestico, ma anche simbolico, che trascende la pura funzione abitativa. Come la geometria è la rappresentazione formale della regola gerarchica per la pianta, così avviene per l’alzato. Il vano circolare centrale è dominante e quindi a doppia altezza, i vani minori occupano la periferia dell’organismo, sono secondari e “quindi” su una sola altezza: il concetto di centro e periferia, della gerarchia delle parti, informa in modo totale il disegno dell’edificio. E quasi a conservare l’idea leggibile del recinto, della corte originariamente aperta intorno alla quale l’edificio si struttura, il grande vano centrale viene coperto a cupola, simbolo della volta celeste, dello spazio dinamico, aereo, mentre il volume del parallelepipedo che lo circonda simboleggia la base, la terra, la parte statica, materiale dell’edificio. Gerarchicamente il cilindro è la parte più importante, e accanto ad esso si organizzano le parti periferiche, subordinate dal punto di vista funzionale e statico. L’edificio è un organismo perfetto perché ogni parte concorre in rapporto di strettissima necessità statica, funzionale, espressiva a formare un’unità: tant’è che le parti periferiche sono subordinate gerarchicamente anche dal punto di vista del ruolo che svolgono all’interno del sistema statico-costruttivo: la cupola, parte portata, spinge sulle reni, dove viene impostata la capriata, e sui vani periferici (parte portante) destinati ad assorbire, secondo un meccanismo consolidato, le sollecitazioni prodotte dal vano centrale. Anche la capriata, a sua volta, potenzialmente spinge sulla muratura perimetrale (anche se le azioni mutue sono “provvisoriamente”, potremmo dire, eliminate dal tirante) e quindi la funzione dei pronai è allo stesso tempo quella di individuare e rendere leggibili gli assi accentranti dell’edificio, e, contemporaneamente, di reagire alle sollecitazioni ultime trasmesse dalla copertura agli elementi contigui. L’intero edificio poggia infine su un basamento-podio che, oltre a sopraelevare la villa rispetto al terreno, indicandone l’artificialità rispetto alla natura, ha il compito di scaricare sul terreno i carichi delle murature.
E’ riscontrabile, in altre parole, una legge gerarchica comune a tutte le componenti dell’edificio. Nell’utilitas questa legge è riconoscibile attraverso la sequenza: vano centrale di rappresentanza, vani subordinati perimetrali. Nella firmitas lo stesso programma funzionale coincide in una gerarchia statica: parte portata (la cupola spingente), vani perimetrali che sostengono questa spinta, pronai che raccolgono la spinta residua delle coperture e la contrastano, basamento. Utilitas non significa quindi dare risposta alle funzioni in modo meccanico e utilitaristico: quella di Palladio è uníidea umanistica di funzione, legata al modo con cui l’uomo è destinato a vivere lo spazio, che procede non attraverso strumenti puramente logico-funzionali ma fondamentalmente emotivi. Si veda, come lampante dimostrazione, il ruolo assegnato alle scale interne. Villa Capra è una particolare interpretazione della villa e, ovviamente, non l’unica possibile: in molti edifici di questo tipo, a volte anche ville palladiane, la scala ha una funzione importante, costituisce il cuore stesso dell’edificio che indica l’idea di continuità dello spazio centrale del piano terreno con il resto della casa. In questo caso il programma Ë diverso: lo spazio simbolico al centro dell’edificio deve essere di chiarezza assoluta, non disturbato da elementi accessori. La scala ha quindi un ruolo meno importante di quanto la sua funzione richiederebbe, un ruolo del tutto subordinato: il programma dell’utilitas è condizionato dalla più generale visione del “funzionamento simbolico” dell’edificio.
Anche se il problema dei due vani angolari, che risulterebbero dall’applicazione meccanica della geometria, non può che essere risolto nella fusione di due vani, ottenendo vani gerarchizzati, l’impianto rimane, tuttavia, orientato dai due assi di percorrenza che organizzano due fasce laterali (quasi la fascia di pertinenza di una strada urbana) che generano, come nei tessuti urbani di case a schiera, un’anomalia sugli angoli, dando luogo ad una pianta “incidentalmente” asimmetrica. L’interpretazione di questo edificio svolta con gli strumenti dell’architettura, riconoscendo la fondamentale unità dell’organismo, è diversa dall’interpretazione dello storico dell’arte: se si osservano gli schemi interpretativi di R. Wittkower delle ville palladiane si rileverà una diversa lettura, legata alla forma visibile che l’edificio ha assunto nella costruzione: da storico, riflettendo sugli esiti, Wittkower riconduce questo edificio nel filone degli organismi monoassiali, secondo lo schema comune che dovrebbe informare tutte le ville palladiane14. In realtà, riguardato sotto il punto di vista della “matrice” formativa che presiede alla formazione dell’organismo, esso possiede due assi di simmetria intersecantesi nel polo dello spazio centrale, con vani perimetrali di carattere rigidamente seriale, gerarchizzati unicamente allo scopo di risolvere il problema dell’accesso al vano angolare. Anche la posizione delle aperture di porte e finestre, distribuite in “infilata” secondo assi contemporaneamente di percorribilità secondaria e di continuità percettiva, conferma la legge generale di isotropia. In che modo quello che sembra essere esclusivamente il portato “necessario” delle scelte che riguardano l’organismo riesce a rendere leggibili i contenuti dell’edificio? Si immagini di sovrapporre alla sezione il prospetto: la facciata (dove sono anche rappresentati i diversi ruoli delle parti di edificio rispetto alla verticale, alla forza di gravità: basamento, elevazione, unificazione, copertura) corrisponde esattamente, ma, si badi, non meccanicamente, all’idea di spazio che Palladio voleva rappresentare. Essa non rispecchia il semplice dato costruttivo, ma esprime la vita dell’edificio. Le linee orizzontali (sia la sequenza continua della trabeazione che il marcapiano unificante il piano dí appoggio alla conclusione del basamento) percorrono le quattro facce dell’edificio rivelandone la gerarchia interna coll’informare le pareti murarie e i quattro pronai, indicando la quota di imposta sia del primo piano che dei timpani. Sono segni che esprimono sinteticamente e convenzionalmente (simbolicamente) il carattere dell’edificio, rendendone leggibile l’unità. Si noti come anche il basamento, quasi una fondazione fuori terra, denunci la gerarchia che anima l’edificio, eseguito ad archi e volte in quanto autonomamente stabile e virtualmente precedente la costruzione abitata, come un suolo artificiale sul quale fondare líedificio.
E’ chiaro come tutta l’espressione architettonica corrisponda ad alcuni principi, un ordine generale che denuncia la necessità del rapporto tra i diversi elementi: questa regola, resa leggibile, è lo stile usato da Palladio.
A differenza del modo romantico di intendere lo stile come espressione individuale, lo stile in architettura può essere quindi definito come la scelta dei principi che coordinano l’atto costruttivo dell’artefice. E’ quindi un principio molto diverso, ad esempio, da quello che contempla l’uso personale di un repertorio.
In fase di coscienza critica la nozione di stile prevede, nella mente dell’artefice, una conoscenza degli elementi e della loro relazione reciproca (struttura) talmente profonda da consentire un uso del linguaggio individuale eppure aderente alla processualità della realtà costruita. La riconoscibilità individuale dello stile, tutt’altro che condannabile, è comunque data dalla inevitabile frequenza di certi elementi e dalla ripetizione di alcune strutture tettoniche sperimentate. E se in altre arti può esistere una relativa coincidenza tra poetica e stile, questo non può verificarsi in architettura: dove nelle arti figurative lo stile riguarda la rappresentazione, in architettura esso riguarda la costruzione. Lo stile per l’architetto deve essere generalizzabile, deve corrispondere appunto ad un modo universale, trasmissibile e leggibile, di coordinare la progettazione. In questo l’architettura è diversa dalle arti visive: le altre arti rappresentano o interpretano, in diverse forme, la realtà; l’architettura è la realtà. Da questa considerazione deriva larga parte delle riflessioni che verremo sviluppando nel seguito.