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Archivio

KUSTURICA ALL’ACQUARIO ROMANO

 

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 20.09.2004

Eschimesi e bande musicali, tartarughe, abiti da sposa e pesci, tenuti insieme da un solo vortice vitale e surreale: il mondo visionario di Kusturica che irrompe tra le vecchie mura dell’Acquario Romano sembra dare forma simbolica a questa Notte bianca del 2004, alla fusione di città, spettacolo ed arte.
Le foto del set di Underground, le immagini del back stage di Gatto nero gatto bianco, le musiche dei tromboni, delle balalaike, delle chitarre elettriche del gruppo Zabranjeno  Pusenje, non potevano essere accolte in un posto migliore: un edificio dalla storia strampalata come un film di Kusturica, nato come stabilimento per la produzione ittica dalla truffa di un fantasioso avventuriero comasco ma dove si svolgevano, invece, “mescendo l’utile e il dolce”, balli e veglioni sotto lo sguardo stupito di murene e polpi che osservavano meditabondi dai cristalli delle vasche. Perfino la gara, epica e stravagante, tra Buffalo Bill ed i butteri della Maremma si svolse in questo circo ovale, vagamente folle, cui l’architetto Bernich aveva dato un bizzarro sussiego.
La presenza di Emir Kusturica nell’Acquario, trasformato oggi in Casa dell’Architettura, potrebbe essere spiegata con la recente idea del regista di Sarajevo di costruire, con materiali locali, un villaggio tra le montagne della Serbia martoriata, una piccola città ideale destinata a realizzare l’impossibile utopia dell’arte che sconfigge il mercato. Ma in realtà i motivi sono più generali e complessi. Perché, soprattutto, l’opera di Kusturiza affronta uno dei temi più urgenti dell’architettura contemporanea proponendo la rara sintesi tra l’espressione di sentimenti e messaggi universali e la testimonianza di un mondo locale ancorato alle proprie radici: un universo di frontiera dove l’architettura, i dipinti, la musica, hanno paternità precarie, sembrano possedere la poesia, struggente e anonima, di un canto gitano.  L’arte come continuazione e aggiornamento di processi dinamici in atto, testimonianza del fluire, disgregarsi e fondersi della vita, rappresentazione delle sue diversità. Le cose, ci dice Kusturica, si conoscono attraverso il loro contrario e le dissonanze sono il sale della terra. Indicando, tuttavia, come ogni forma dialoghi con le altre, finisca, rinnovandosi, per contaminarsi, per contenere una fertile parte del  carattere opposto. Non è poca cosa in un mondo che nelle differenze riconosce ormai solo il pericolo di nuovi conflitti e dove le stesse immagini di una corporation globale si vendono altrettanto bene a Bilbao come a Los Angeles.
Ma la forza del regista serbo sta tutta nella capacità di trasmettere questo selvaggio ottimismo in modo immediato: sotto le nuvole di Roma, il furore circolare della banda di Kusturica pareva frullare in cielo la storia e i fantasmi del luogo e raccogliere, insieme, l’allegria di una notte in cui la città illuminata a festa e il fiume in piena dei suoi abitanti d’ogni etnia e colore, sembravano, per una volta, fondersi in una sola, fantastica architettura in movimento.

L’architettura religiosa in un libro di Strappa

La presentazione

L’architettura religiosa in un libro di Strappa

in “Corriere della Sera” del 26.05.2009

Il tema dell’architettura religiosa è tornato di grande attualità. Anche a Roma si costruiscono nuove chiese, veri poli urbani in quartieri spesso degradati che pongono, anche, il problema di cosa significhi un edificio per il culto nel mondo contemporaneo. Giuseppe Strappa, architetto e ordinario di progettazione, tenta di dare una risposta con un libro, «Edilizia per il culto» (Utet, Torino) che ha la forma e l’ambizione di un vero trattato. Tesi di fondo è che ogni chiesa, sinagoga o moschea costituisce anche un «organismo » del quale occorre comprendere, soprattutto, il processo formativo. In un periodo in cui l’architetto, anche nei temi religiosi, è ossessiona¬to dalle mode, Strappa sostiene che si è originali solo riscoprendo l’origine delle cose, le radici dalle quali le forme hanno inizio. L’opera verrà presentata oggi a Valle Giulia da un esperto del tema come Paolo Portoghesi. Il grande storico e architetto romano non è, infatti, solo autore di importanti architetture religiose, dalla Chiesa della Sacra Famiglia a Salerno alla Moschea di Roma, ma si è posto, tra i primi, il problema della crisi del progetto contemporaneo, dello smarrimento dell’uomo di fronte a un mondo costruito che non sa più leggere e, quindi, trasformare con coerenza.

Alle 18, Aula Magna della Facoltà di Architettura «Valle Giulia», via Gram¬sci 53

Il libro viene presentato oggi pomeriggio alle 16 a Valle Giulia da un esperto del tema come Paolo Portoghesi, in primo piano nella foto qui sopra insieme a Giuseppe Strappa

ALESSANDRO ANSELMI, LA SCOPERTA DELLA LEGGEREZZA

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di G. Strappa

in «Corriere della Sera» del 12.03.2004

Architetto romano alla soglia dei settant’anni, Alessandro Anselmi è stato protagonista di una vicenda intellettuale esemplare, per molti versi, della travagliata ricerca di una via all’architettura contemporanea originale e, insieme, radicata nella nostra cultura,
Una ricerca iniziata negli anni ‘60, quando, all’interno del GRAU (Gruppo Romano Architetti e Urbanisti) sperimentava ingegnosi ordigni concettuali che avevano esito in forme misteriose e complesse, dove riaffioravano i segni di una classicità evocata con struggente nostalgia, impossibile da ricostruire nella sua unità e destinata a spezzarsi, nell’alveo più consolidato della tradizione romana, in frammenti da ricomporre.
Esperimenti solitari, piranesiane archeologie d’invenzione che fissavano implacabili leggi geometriche cui obbedire con lo scrupolo dell’ossessione. Era, quello del GRAU, un mondo confinato, una struttura chiusa, di un’eleganza macchinosa e anelastica, a volte incline ad una gravità quasi funeraria della quale rimane, monumento straordinario e celebratissimo, il cimitero costruito nella cittadina di Parabita. Questo sistema infinitamente astratto (Isti mirant stella era il motto di uno dei loro progetti più riusciti) che sembrava dare un rigido ordine al pensiero, predisponeva inaspettatamente a cogliere anche il lato composito, lacerato ed ambiguo del reale.
E da questo mondo, infatti, Anselmi sembra emergere negli anni ’80 scoprendo, improvvisamente, la leggerezza. Una rivelazione coltivata con furore, che genera le scenografie curvilinee del municipio di Rezé les Nantes, le superfici piegate del centro per uffici di Pietralata, del municipio di Fiumicino, dove una stessa parete sembra flettersi a formare la piazza, le pareti verticali, le coperture secondo un estro nuovo nel quale l’uso unificante e spettacolare del disegno risulta, a ben guardare, profondamente barocco. Con, in più, quel pizzico di romanesca ironia che permette di mantenere un distacco vitale dagli oggetti: quella leggerezza, appunto, che non è superficialità, ma un modo di comprendere in forma agile e sintetica l’essenziale delle cose evitando il gravame di farraginosi significati.
Nella sua fertile e attivissima maturità Anselmi, pur attento al panorama internazionale, non si è lasciato sedurre dalle mode, dal “mal francese” che rende provinciale anche una grande capitale dell’architettura come Roma alla quale pure hanno attinto i protagonisti della vicenda contemporanea, da Louis Kahn a Robert Venturi. Al contrario, come un abile funambolo in bilico sopra il magma indistinto del consumismo universale, Anselmi è riuscito ad esportare la propria ricerca, dimostrando come oggi occorra pensare globalmente ma agire mantenendo ben salde le proprie radici.
La grande mostra organizzata dal DARC sull’opera di Alessandro Anselmi che si inaugura oggi, venerdì, 12 marzo, al MAXXI di via Guido Reni, costituisce, dunque, non solo l’omaggio doveroso che la cultura architettonica romana riserva ad uno dei suoi esponenti più significativi ma, si spera, anche un segnale.