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Archivio

ALESSANDRO ANSELMI, LA SCOPERTA DELLA LEGGEREZZA

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di G. Strappa

in «Corriere della Sera» del 12.03.2004

Architetto romano alla soglia dei settant’anni, Alessandro Anselmi è stato protagonista di una vicenda intellettuale esemplare, per molti versi, della travagliata ricerca di una via all’architettura contemporanea originale e, insieme, radicata nella nostra cultura,
Una ricerca iniziata negli anni ‘60, quando, all’interno del GRAU (Gruppo Romano Architetti e Urbanisti) sperimentava ingegnosi ordigni concettuali che avevano esito in forme misteriose e complesse, dove riaffioravano i segni di una classicità evocata con struggente nostalgia, impossibile da ricostruire nella sua unità e destinata a spezzarsi, nell’alveo più consolidato della tradizione romana, in frammenti da ricomporre.
Esperimenti solitari, piranesiane archeologie d’invenzione che fissavano implacabili leggi geometriche cui obbedire con lo scrupolo dell’ossessione. Era, quello del GRAU, un mondo confinato, una struttura chiusa, di un’eleganza macchinosa e anelastica, a volte incline ad una gravità quasi funeraria della quale rimane, monumento straordinario e celebratissimo, il cimitero costruito nella cittadina di Parabita. Questo sistema infinitamente astratto (Isti mirant stella era il motto di uno dei loro progetti più riusciti) che sembrava dare un rigido ordine al pensiero, predisponeva inaspettatamente a cogliere anche il lato composito, lacerato ed ambiguo del reale.
E da questo mondo, infatti, Anselmi sembra emergere negli anni ’80 scoprendo, improvvisamente, la leggerezza. Una rivelazione coltivata con furore, che genera le scenografie curvilinee del municipio di Rezé les Nantes, le superfici piegate del centro per uffici di Pietralata, del municipio di Fiumicino, dove una stessa parete sembra flettersi a formare la piazza, le pareti verticali, le coperture secondo un estro nuovo nel quale l’uso unificante e spettacolare del disegno risulta, a ben guardare, profondamente barocco. Con, in più, quel pizzico di romanesca ironia che permette di mantenere un distacco vitale dagli oggetti: quella leggerezza, appunto, che non è superficialità, ma un modo di comprendere in forma agile e sintetica l’essenziale delle cose evitando il gravame di farraginosi significati.
Nella sua fertile e attivissima maturità Anselmi, pur attento al panorama internazionale, non si è lasciato sedurre dalle mode, dal “mal francese” che rende provinciale anche una grande capitale dell’architettura come Roma alla quale pure hanno attinto i protagonisti della vicenda contemporanea, da Louis Kahn a Robert Venturi. Al contrario, come un abile funambolo in bilico sopra il magma indistinto del consumismo universale, Anselmi è riuscito ad esportare la propria ricerca, dimostrando come oggi occorra pensare globalmente ma agire mantenendo ben salde le proprie radici.
La grande mostra organizzata dal DARC sull’opera di Alessandro Anselmi che si inaugura oggi, venerdì, 12 marzo, al MAXXI di via Guido Reni, costituisce, dunque, non solo l’omaggio doveroso che la cultura architettonica romana riserva ad uno dei suoi esponenti più significativi ma, si spera, anche un segnale.

LA CHIESA DI MEIER A TOR TRE TESTE

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di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 26.10.2003

La costruzione della nuova chiesa Dives in Misericordia a Tor Tre Teste dimostra come il magma urbano delle periferie costituisca il vero laboratorio delle sperimentazioni contemporanee: lontano dalle polemiche che hanno travagliato il progetto per l’Ara Pacis, Richard Meier ha espresso al meglio quella maniera di complessa ed elegante astrazione che gli ha assicurato il successo internazionale.
Ma sul nuovo edificio, oltre che per il fascino dei suoi spazi spettacolari, occorre anche riflettere per il significato che riveste nella storia di questa città.
La chiesa di Meier, in realtà, spezza di colpo quei vincoli di organicità che avevano costituito l’essenza della tradizione romana: come in uno straordinario kit di elementi scultorei disassemblati, ogni parte è autonoma, pone propri, complessi problemi risolti, peraltro, con spettacolare virtuosismo.
Oggetto prezioso e ubiquo, ultima, abbagliante scheggia che irrompe tra i frammenti edilizi dispersi tra la Prenestina e la Casilina, la scintillante opera di Meier evita con cura quegli elementi di mediazione (quadriportico, nartece, sagrato, piazza, atrio, porticato) che nel passato raccordavano lo spazio sacro con la vita civile che scorreva intorno.
La nuova chiesa indica quindi l’abbandono dei principi attraverso i quali era possibile riconoscere, in edifici religiosi diversissimi tra loro, anche recenti, il sostrato potente di matrici condivise, comprendere l’annodarsi di nuovi spazi, riconoscere la scintilla dell’innovazione. Una lingua comune che imponeva anche quei vincoli “economici” che l’opera di Meier non riconosce. Vincoli intesi non come mero risparmio, ma come giusta proporzione, etica congruenza, condivisa perfino dallo straripante linguaggio delle chiese barocche, tra fini e risorse impiegate.
Questa tradizione, bisogna dire, si era dal dopoguerra ad oggi tanto isterilita da richiedere un grande sforzo di rinnovamento nel quale la Chiesa ha avuto il merito di coinvolgere le forze vive della città, le università, l’intera cultura architettonica.
Ma forse la comprensibile ansia di sperimentazione ha pagato i suoi rischi. In gara con le altre grandi istituzioni contemporanee (i musei, le gallerie d’arte, i municipi), l’architettura della chiesa non sembra proporre nuove strade ma inseguire, piuttosto, tendenze in atto legate all’universo senza memoria della pubblicità, della moda, delle immagini in competizione alle quali si richiede solo di imprimersi con forza sulla retina. Per questo la chiesa di Meier non può essere considerata un punto d’arrivo, ma un sasso lanciato nello stagno, l’inizio di una ricerca paziente che non ammette scorciatoie.

NODI NELLE CITTÀ


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di Giuseppe Strappa

in «Area» N°27 , 1996.

Se si usa appena qualche cautela nei confronti del trionfante luogo ideologico che vuole la modernità associata ad una condizione di perpetua crisi dove, inevitabilmente “tutto quello che è solido si dissolve nell’aria” e si guarda alla semplice evidenza della realtà costruita, non si può non constatare che, dalla contraddittoria fase di passaggio dalla città tradizionale europea alla metropoli contemporanea, emerge una evidente, traumatica innovazione nei tessuti, ma anche una altrettanto evidente continuità negli organismi edilizi.
Alcuni aspetti della sostanziale diacronicità tra organismi abitativi e tessuto urbano sono stati da tempo osservati nella continuità del processo che ha generato l’attuale casa in linea a partire dalle rifusioni di unità di schiera. E tuttavia non è mai stato indagata a sufficienza la complessa continuità formativa, generata dalla nozione di aggregato, di molti edifici specializzati moderni. I quali spesso, lontani dall’imitare la macchina, mostrano al loro interno la spiegazione delle proprie leggi formative “annodando” (trasformando in nodi spaziali) luoghi in origine fisicamente o virtualmente aperti: come molti organismi edilizi del passato, essi nascono dalla dialettica tra recinto e copertura, tra strutture seriali ed organiche, tra città ed edificio.
La derivazione del teatro moderno dal tessuto é, ad esempio, tra i fenomeni più evidenti e documentabili di questo processo. La stessa rappresentazione teatrale si evolve per specializzazione di forme di spettacolo “di base” (le recitazioni religiose, le feste laiche, le giostre). Il famoso disegno eseguito da Johan de Witt nel 1596 del teatro Swan di Londra dimostra pienamente il carattere dell’organismo edilizio in formazione: lo spazio “pubblico” é quello fluido della platea-piazza dove lo spettatore assiste in piedi o in sedili di fortuna; lo spazio “privato” é quello perimetrale dei palchi-tessuto, codificato dalla legge costruttiva del recinto. Se già nel ‘400 si rappresentava Plauto e Seneca nel cortile del palazzo del cardinale Riario coperto da teli, agli inizi del ‘600 si conclude il processo di trasformazione del teatro elisabettiano e inizia quello contemporaneo con la copertura stabile dello spazio aperto del vecchio teatro Fortune.
E un analogo processo formativo può essere colto, ancora in atto, in molti aspetti dell’edilizia speciale ottocentesca. Nelle grandi borse, ad esempio, nate alla fine del XVI secolo come piazze concluse all’interno della serie di uffici e magazzini, la cui protezione genera lo spazio coperto dello scambio (di questo processo la “basilica” di Berlage per la Borsa di Amsterdam rappresenta solo l’esito più noto). Oppure nei grandi magazzini formatisi a Parigi a seguito della nuovissima tradizione dei passages , dove elementi, strutture, sistemi seriali si annodano intorno allo spazio di un cortile coperto.
Ma, soprattutto,esso è individuabile nella dialettica tra spazi urbani e spazi interni agli edifici generati, alla fine del secolo scorso, dall’ organizzazione delle complesse reti di comunicazioni nelle metropoli. L’articolazione dell’edificio per poste e telegrafi nasce, infatti, dal legarsi dei vani seriali, per amministrazione e servizi, intorno alla grande sala per il pubblico, vasto spazio di mediazione tra città ed edificio. L’architetto di fine ‘800, smarrito di fronte all’intrecciarsi di problemi inediti, si rifugia nel patrimonio di esperienze portato a riva dalla storia, nei tipi di edificio tradizionali ancora capaci di propiziare sincretismi, trasformazioni, aggiornamenti. Molti dei maggiori palazzi postali ottocenteschi sono organizzati su impianti basati sulla nozione di recinto, come quelli tedeschi organizzati intorno ad una vasta hof  aperta  (a Breslau, Halle o Potsdam), ma anche protetta da vetrate, come a Berlino.
La transizione dal cortile al vano nodale si manifesta, in tutta la sua evidenza, nel riuso di edifici esistenti organizzati su percorsi interni rigiranti intorno a spazi aperti (conventi, palazzi ecc.). Non si tratta di semplice reimpiego, ma di un processo dove la mutazione dello spazio aperto genera edifici interamente nuovi, di maggiore organicità. Si veda la trasformazione in poste del Fondego dei Tedeschi a Venezia dove l’introduzione, nell’edificio seriale del XVI secolo, di una grande struttura in ferro e vetro a copertura del cortile aperto innesca un processo unitario di trasformazione che coinvolge tutte le componenti dell’edificio: le sollecitazioni indotte dalla copertura, compromessa la stabilità delle pareti murarie sottostanti, si estendono progressivamente (organicamente) all’intero edificio, favorite dalle successive opere di consolidamento. L’intero organismo ne esce rivoluzionato: il nuovo vano centrale risulta, come in ogni edificio nodale, staticamente portato, distributivamente servito e spazialmente dominante, mentre i vani periferici risultano portanti, serventi, seriali.
Nel trasformarsi processuale del grande vano centrale la fase “logicamente” successiva é costituita dalla saldatura di atrio e sala degli sportelli, cioè dalla progressiva fusione del cuore dell’organismo con lo spazio urbano. Nato dalla città, il nodo spaziale torna alla vita delle strade: se ancora all’inizio del XX secolo la stessa manualistica raccomanda di considerare la sala per gli sportelli come “spazioso cortile tutto ricoperto a vetri” (Donghi), in pedanti edifici come le poste di Bologna di Emilio Saffi, si annida l’innovazione, il nuovo carattere urbano degli spazi per il pubblico.
Questo processo, annunciato da molti sintomi, precipita nel fecondo periodo di passaggio dalla fine degli anni ’20 agli inizi degli anni ’30, attraverso mutazioni rapide e complesse, ordinabili in sequenze logiche più che cronologiche, rintracciabili dietro la trama di molte facciate “accademicamente” moderne  come quella del Palazzo delle Poste di Brescia  di Piacentini, o quelle di Bergamo, Agrigento, Palermo costruite da Mazzoni. Fino all’apparizione  della solare modernità delle poste romane di Libera e De Renzi o di Ridolfi, o dello straordinario pezzo di città che Vaccaro ha costruito a rione Carità a Napoli. Edifici che indicano, in modo esemplare, come la riduzione dell’edificio postale a macchina di sterile precisione, (la trasformazione idraulica dei corridoi in “flussi”, di gallerie e portici in “circolazione”) appartenga alle tante mitologie del moderno. Nel suo momento più alto, al contrario, la vicenda dei palazzi postali italiani sembra essere stata sul punto di realizzare l’aspirazione alla sintesi tra organismo edilizio ed organismo urbano inseguita da generazioni di architetti nel corso della storia.

NUOTANDO NEL CAOS DEI PROGETTI

di GIUSEPPE STRAPPA

ln: Corriere della Sera 05/05/2009

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Il nuovo “Centro natatorio pubblico”  appena inaugurato in via della Moschea di proprietà del Circolo Canottieri Aniene.

Le rovine della mai costruita Città dello Sport disegnata da Santiago Calatrava, abbandonate nei cantieri di Tor Vergata, non saranno un buon biglietto da visita per i prossimi mondiali di nuoto che metteranno sotto gli occhi di 400.000 spettatori e dei media planetari le capacità organizzative della città e la qualità dei suoi caratteri moderni.

Eppure questa catastrofe gestionale, che c’è costata quasi 200 milioni di euro, avrebbe potuto avere qualche effetto positivo. Poteva costituire, in fondo, un modo innovativo e civile di frammentare un solo grande evento in tante opportunità di rinnovo urbano distribuendo gli impianti (e le occasioni d’architettura) nei quartieri e nelle periferie, secondo lo spirito del piano d’emergenza.

Quello che resterà, dopo l’ondata di polemiche su conflitti d’interesse e denunce di «cubature improprie» saranno queste opere decentrate.

Le quali, purtroppo, sembrano annunciare un’ulteriore occasione mancata.

Perché non ci rimarranno nuove, vere strutture integrate nella vita della città, ma microcosmi autonomi del fitness, ampliamenti frettolosi di circoli privati costruiti, a volte, in luoghi di straordinario valore paesaggistico.

Come lo Sport Village sulla Salaria, a Settebagni, con i suoi 160 mila metri cubi costruiti nell’area alluvionale del Tevere, o il caso estremo dello Sport Palace sull’Appia Antica, che le bocciature della commissione organizzatrice e della Soprintendenza archeologica non sono riuscite a fermare.

Architetture degli affari, senza un cuore, che sembrano lo specchio di una città che non riesce a guardare al di sopra del contingente, a raccogliere le cose che accadono in un progetto condiviso di rinnovamento.

E sono nuove testimonianze della deriva schizofrenica dell’architettura romana, eternamente in bilico tra spettacolari spot firmati da archistar internazionali e la disattenzione per la qualità diffusa, per le opere che vengono usate tutti i giorni dai cittadini che lavorano, studiano, si divertono, viaggiano, fanno sport.