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Archivio

PIRANESI DI LANGENBACH

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di Giuseppe Strappa

Piranesi, Invenzioni al digitale,  in «Corriere della Sera» del 06.03.2005

Gli edifici antichi si accalcano, nell’Iconografia del Campo Marzio disegnata da Giovanni Battista Piranesi, come fantastici, simmetrici microcosmi che prolificano senza relazione tra loro. Ogni occasione offerta dalle rovine reali viene amplificata, moltiplicata a dismisura fino a coprire, per intero, la millenaria ansa del Tevere con un densissimo tessuto d’incredibili invenzioni antiquarie dove l’occhio stupito dell’osservatore non trova mai riposo. Perfino la fonte letteraria diviene pretesto.  Basta un cenno di Plinio ad un orologio solare perché  nasca, a ridosso del mausoleo d’Augusto, un’immaginaria, colossale macchina architettonica.
La Roma settecentesca di Piranesi è, in realtà, un magma visionario dove la fascinazione delle rovine antiche confluisce in paesaggi a volte del tutto inesistenti, come le suggestioni della Mole Adriana e del Tabularium che si fondono nelle “Carceri d’invenzione”.
Ammirato dagli artisti anglosassoni fin dai tempi del Grand Tour, Piranesi è stato, venerdì scorso, oggetto di un’insolita celebrazione all’Accademia di San Luca dove l’architetto americano Randolph Langenbach ha presentato The Piranesi Project, performance basata su proiezioni, citazioni, commenti, concepita nel quadro del Rome Prize Fellowship dell’American Academy in Rome.
La vocazione piranesiana di Langenbach è dimostrata dalle tante vedute d’archeologia industriale prodotte nel corso della sua passata attività di fotografo, dove ombre lunghe di pilastri e luci radenti sulle murature sembrano dilatare spazi, alterare prospettive. In un processo inverso alla deformazione della realtà, Langenbach impone ora alle fotografie digitali della Roma contemporanea di coincidere con i disegni d’invenzione piranesiani, facendo confluire in una sola immagine temerarie fughe prospettiche le quali, multiple e astratte, costringono l’occhio e l’intelligenza a smentirsi reciprocamente. Le ossessive tessiture delle acqueforti, che s’intersecano provocando ombre cupe e si addensano in rovinosi  labirinti notturni, si distendono così in lente diffrazioni, si trasformano in forme che alludono alla realtà senza mai riprodurla per intero. L’esperimento, del resto, non poteva trovare terreno migliore del  disegno pastoso delle incisioni piranesiane che si forma come la materia muraria che è chiamato a rappresentare: per strati successivi, ripetute morsure di acido sul rame, sottrazioni violente, come se la figura fosse estratta a fatica da una geologia di segni profonda e  preformata.
Le costruzioni di Langenbach, che non reclamano valore scientifico, forniscono la straordinaria emozione artistica di un completamento dei disegni di Piranesi, come se le settecentesche nebulose di segni, provvisoriamente coagulate  nell’immagine fantastica delle rovine, trovassero oggi una conclusione nella rappresentazione digitale delle murature.
Ma il passaggio del tempo mostrato dalle raffinate dissolvenze, fa anche emergere il progressivo, drammatico distacco della Roma antica da quella contemporanea, il moderno isolamento delle rovine dal proprio tessuto. Estraneo alla classicità razionale e cristallina di Winckelmann che guarda all’arte greca, Piranesi ci ricorda, infatti, un’antichità contaminata dalla vita e dal suo fluire nel tempo, un paesaggio, tutto romano, distrutto nei secoli successivi da quella progressiva monumentalizzazione dell’antico, come ha commentato Giorgio Ciucci, i cui guasti continuano a prodursi  anche ai nostri giorni.
A farci riflettere è, ancora, l’occhio che guarda Roma dall’esterno.  Dell’americano Langenbach, questa volta, che, come in un gioco di specchi, osserva Roma attraverso gli occhi del veneziano Piranesi.

RIDOLFI, IL VILLINO ASTALDI E IL POVERO FOSCHINI

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di Giuseppe Strappa

Il valore di un simbolo, in «Corriere della Sera» del 04.03.2006

Il villino Astaldi, celebrato per la memoria che lo lega alla figura di Ridolfi e mai a quella di Foschini è, oggi, un’opera d’architettura tra le più complesse. E’ il simbolo del passato che ha cessato di fluire nel presente e un viaggio nell’inquietudine della nostra coscienza moderna: non solo una stratificazione che, come un deposito geologico, mostra i traumi delle diverse epoche di formazione, ma anche la rappresentazione, esibita, di una demolizione, di un giudizio su un’intera stagione dell’architettura romana e di una rottura della quale, ancora, portiamo i segni.
Una storia che ha inizio ai primi del’900 con la lottizzazione delle aree comprese tra Villa Torlonia e Villa Borghese dove l’ing. Adolfo Sebastiani decide di costruire due magnifiche ville per le proprie figlie. L’architetto è quell’Arnaldo Foschini (coadiuvato da Attilio Spaccarelli) destinato a svolgere un ruolo decisivo nelle vicende edilizie romane, dalla trasformazione di corso Rinascimento alla presidenza dell’INA Casa negli anni della Ricostruzione. Nei due edifici costruiti tra via Mercadante e via Porpora, Foschini si pone sul solco tracciato dai maestri, dai Koch, dai Calderini. Ma il tradizionale riferimento al rigore dell’architettura civile del’500 diviene meno severo, si stempera nei primi, tolleranti sentori del“barocchetto” che incresperà lo storicismo romano di un gusto pittoresco e lieve, brulicante di sottili estrosità.
Il villino destinato a Valeria Sebastiani, rilevato e completato nel 1923 dalla famiglia Astaldi, viene sottoposto a radicale trasformazione nel 1954. Questa volta l’architetto è Mario Ridolfi, uno dei migliori del panorama romano. Il quale demolisce i volumi dell’attico che concludono l’edificio per costruire un grande piano in calcestruzzo armato, aggettante dal filo dell’edificio. Una nuova costruzione nasce così liberamente, come poggiata, si direbbe, su una sorta di suolo artificiale, su moderne rovine: “completamente staccata – per usare le parole di Ridolfi – e disimpegnata dal resto”, è priva del legame organico che, a Roma, ha sempre annodato alle preesistenze la nuova costruzione.
Per questa sua storia di lacerazioni, il villino Astaldi sembra sintetizzare, in modo esemplare, valori e contraddizioni della vicenda romana moderna, dove la qualità dell’architettura si confronta con la labilità delle regole e sembra divenire incerto, perfino nella coscienza dei migliori, il senso e il carattere della realtà costruita.



UNA NUOVA SCUOLA PER GLI ARCHITETTI

di Giuseppe Strappa


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in «Corriere della Sera» del 11.04.08

Una grande città come Roma ha bisogno, è ovvio, di buoni architetti. Ma non bastano le iniezioni di architettura, le grandi opere disegnate da star internazionali che possono servire, al più, a promuoverne l’ immagine. Occorre che a Roma si formino nuove generazioni di bravi architetti: la vera modernità, quella che trasforma i luoghi dove pulsa la vita, le periferie, i quartieri sovraffollati, le borgate, sarà progettata dalle centinaia di architetti che, ogni anno, sfornano le nostre facoltà. Ma è vero, come è stato scritto su queste pagine, che oggi questa formazione è un po’ provinciale. Il vero ritardo del nostro intero mondo dell’ architettura è, in realtà, e da anni, dovuto al terrore stesso di essere provinciali.  Sull’onda delle mode, delle nuove specializzazioni, delle contaminazioni tra  discipline, l’insegnamento si è frammentato in mille rivoli. Corsi di laurea triennali di ogni tipo dovrebbero ampliare l’ ’”offerta didattica”, secondo un’espressione da grande magazzino ormai in voga. Come se, per affrontare la complessità di un mondo in convulsa trasformazione, bastasse disperdersi nei suoi infiniti meandri. Inseguendo tendenze e specialismi, si è dimenticato, così, che il centro dell’attività dell’architetto è il progetto, la sintesi che unifica in un solo gesto costruttivo strutture, spazi, materiali, impianti.
Forse siamo allo stadio terminale di una schizofrenia genetica delle facoltà di architettura italiane, nate dall’unione di insegnamenti di ingegneria con quelli delle accademie di belle arti: due anime che non hanno mai trovato una vera fusione. Eppure la Scuola di Architettura romana delle origini ha rappresentato, unificando ogni disciplina nel progetto,  un modello diverso nel quadro italiano che ha prodotto non solo grandi architetti, ma figure importanti in molti campi della cultura: grandi storici, restauratori, archeologi, costruttori, scenografi, critici la cui originalità consisteva proprio nel vedere il mondo con gli occhi del progettista.
Per non essere provinciali forse basta guardare alle nostre spalle, pensare (come si sta, peraltro, sperimentando altrove) non ad facoltà universitaria, ma ad una moderna scuola dove ogni disciplina non si chiude nel proprio statuto, ma è concentrata su un solo scopo: l’educazione al progetto. Sarebbe una scelta contro quella perdita di centro che ha comportato la deriva superficiale dell’architettura italiana testimoniata dalle goffe e datate polemiche in corso. Ultima quella sui nuovi progetti milanesi che vede Mike Bongiorno e Fuksas parlare, con gli stessi argomenti, ancora del grattacielo come energia futura della città. Specchio di questa condizione è l’involontaria autoironia con la quale Milano si accinge a costruire i propri simboli contemporanei come scintillanti oggetti di design: una torre  strizzata e ritorta, un grattacielo puntellato, un altro ripiegato su sé stesso, curvo e molle, come afflosciato dopo uno slancio vitale.

Archeologia e città

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 02.09.2004

Nel 1527 il topografo Marco Fabio Calvo leggeva nei resti della Roma antica, da quella quadrata di Romolo a quella radiocentrica di Augusto, geometrie sempre più complesse che finivano per proporre, insieme, una ricostruzione simbolica e una figura di città ideale: i frammenti enigmatici e inselvatichiti dell’impianto antico sembravano annunciare, agli occhi degli uomini del Rinascimento, la forma  condivisa della città ideale e futura.
Ma la coscienza dell’antico come patrimonio collettivo doveva essere già viva fin dal V secolo se editti come quelli emanati dagli imperatori Onorio e Maggioriano richiedevano che le spoglie della passata grandezza fossero reimpiegate solo per costruire nuove opere pubbliche. Un riuso, peraltro, nel quale l’intelligenza del ruolo strutturale e simbolico della rovina costituiva, quando la scarsità di risorse induceva al saccheggio dei monumenti classici, una forma attiva di tutela. Forse l’esito più alto della familiarità romana con l’antico è stato fornito dal genio di Michelangelo con la sintesi architettonica di S.Maria degli Angeli, dove gli spazi solenni e la materia stessa delle terme di Diocleziano vengono trasmessi alla basilica cristiana. In questa consuetudine, profonda e ammirata, con un passato operante che pervade la città moderna e che abita come sostrato profondo i suoi edifici, è contenuto il carattere più autentico della Roma storica: materiale magmatico composto di segni sparsi, frammenti esplosi e riassorbiti il cui senso è dato dalla loro inevitabile associazione alle forme della vita che fluisce. Sulla comprensione di questo dato evidente e sul rispetto scrupoloso delle testimonianze dovrebbe essere fondata, credo, ogni operazione sul patrimonio archeologico. Mostrando due opposti pericoli.
Il primo è costituito dall’irruzione nelle aree archeologiche dell’architettura internazionale “firmata”. La qualità  delle trasformazioni non può essere assicurata invitando, come sembra si voglia fare, architetti dello star system  a presentare progetti che saranno giudicati da colleghi di uguale orientamento. Il nostro patrimonio archeologico non ha bisogno di immagini spettacolari che ridurrebbero, secondo un dilagante “effetto Bilbao”, i resti antichi a sfondo di estetizzanti virtuosismi (va riconosciuto a Massimiliano Fuksas, in proposito, il merito di aver presentato la sua proposta come diagramma e affermazione di principio).
Il secondo è costituito dalla deriva specialistica di un’archeologia intesa come scienza da laboratorio, che accumula conoscenze attraverso l’indagine e le ordina in polverosi scaffali. Lo scavo, senza un’idea di città che unisca restauro e ruolo contemporaneo delle testimonianze antiche non  è solo è inattuale, può essere dannoso. E poiché il nome che si da alle cose finisce per trasformarle, forse dovremmo smettere di impiegare termini come “parco archeologico” che prefigurano la fine del ruolo vitale dell’antico e la sua trasformazione in oggetto di una contemplazione antiquaria e vagamente cimiteriale.

Il film di Pollack su Frank Gehry

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di Giuseppe Strappa

in “Corriere della sera” del 27.03. 2007

Poteva essere un raffinato spot pubblicitario della fabbrica d’architettura Frank Gehry & Co. E invece quello che Sidney Pollack ha girato sull’architetto più famoso del pianeta, con interviste a personaggi come Dennis Hopper, Julian Schnabel, Philip Johnson, è grande cinema.
Il regista di Corvo rosso non avrai il mio scalpo, premio oscar nell’85 con La mia Africa, ci racconta come il fenomeno Gehry incarni, fino in fondo, i miti dell’America d’oggi. Il Sogno americano, ad esempio: il successo che l’architetto ha conquistato nonostante  mille difficoltà, gli anni passati a fare il camionista, i consigli di cambiare mestiere dei suoi insegnanti di architettura.
E poi il coraggio di abbandonare gli incarichi di una professione sicura ma banale per fare il salto nel buio e seguire il proprio estro creativo. Come non ricordare il Gary Cooper di Fonte Meravigliosa, l’architetto-eroe che rifiuta, secondo consumati stereotipi del cinema americano, ogni compromesso?  Possiamo immaginare il sorriso sornione, dietro la macchina da presa, di Sidney Pollack, che di miti americani se ne intende e ne ha dato un’interpretazione amara e pessimista. Eppure la storia dell’ebreo Frank Goldberg (che nel ’54 cambierà il cognome in Gehry) sceso dal Canada al caldo della California insieme al padre povero e malandato per trionfare su un mondo professionale durissimo è assolutamente vera.
Lo psicologo di Gehry, Milton Wexler e i suoi amici parlano dell’ego smisurato che si nasconde sotto l’aria dimessa “da tenente Colombo” dell’architetto: il suo lavoro prodigioso è, anche in termini umani, una sfida al mondo in eterna competizione della metropoli americana.
E non solo la fama, ma le parcelle che percepisce sono il trofeo concreto, indiscutibile della vittoria. Peter Lewis, un cliente tutt’altro che pentito, racconta di aver speso sei milioni di dollari per il progetto di una casa mai costruita.
Ma la storia di Gehry sembra esprimere anche un altro dei più solidi miti del cinema americano: quello della libertà individuale inseguita ad ogni costo che alla fine vince sul male. Dove il male è l’architettura convenzionale (il 99% dell’architettura, dice nel film la rockstar Bob Gedolf senza mezzi termini, “è merda”) mentre il bene è la libertà totale di esprimere emozioni. E le immagini di un Gehry sorridente, che compone con felice candore, quasi giocando, i pezzi dei suoi plastici, fanno pensare che la forma  sia ottenuta, come per magia, attraverso la pura liberazione dalle regole.
Non è compito di Pollack mostrare come la spontaneità di Gehry sia il risultato di un mestiere perfettamente posseduto: lo stesso film è un’architettura di cui lo spettatore deve cogliere la leggerezza senza conoscere la fatica spesa per ottenerla. Il film vuole solo indicare (e lo fa con sequenze bellissime) come le architetture di Gehry esprimano “felicemente” la disgregazione della forma che si separa dal suo contenuto disperdendosi in schegge acuminate e dissonanti, in volute di lucidi frammenti. Provocatoriamente Gehry dice di trovare ispirazione nel cestino della spazzatura. Ma in filigrana compare la vita pulsante della sua Los Angeles, città trash, informe, dispersa, come autentica miniera di materiali inventivi filtrati dall’arte della West Coast dei Judd, Serra, Moses, Francis.
Ne risulta la descrizione di uno strano viaggio artistico nei territori estremi e marginali dell’avanguardia. La quale tuttavia diviene, per uno straordinario cortocircuito mediatico, spettacolo popolare, arte ufficiale, santuario culturale con un milione di visitatori che ogni anno si mettono in pellegrinaggio verso una città banale come Bilbao solo per ammirare il suo abbagliante museo.
Gli architetti, si sa, sono i peggiori divulgatori della propria opera. Ma anche in questo Gehry è un’eccezione: il film girato con Pollack è una perfetta architettura della comunicazione che presenta diversi livelli di lettura e contiene perfino, per chi lo voglia leggere, un nucleo di verità profondo e problematico.