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CANCELLATE / CANCELLAZIONI

di Giuseppe Strappa
in «Groma» 4/5,  marzo 1999

Poche grandi città in Europa possono vantare un tessuto storico ancora fortemente organico come Roma, dove un rapporto esemplarmente organico lega gli spazi pubblici della città al costruito e alle memorie dell’Antico. Qui la gerarchia dei percorsi conferma, ancora, come il processo formativo dell’edilizia di base sia stato originato da trasformazioni continue basate su aggregazioni e rifusioni, mentre gli edifici speciali dimostrano, evidente, la loro formazione per “specializzazione”, appunto, dei tipi abitativi: gli impianti delle grandi architetture (di  chiese,  conventi,  palazzi), individuano (rendono individuale, unico ed irripetibile) tipi basati sulla trasformazione dei tessuti, dei quali “introiettano” la nozione di percorso e aggregazione, oltre che il modulo dimensionale. Basta osservare una pianta dei piani terreni di una parte qualsiasi della Roma entro le mura, spesso perfino di quella ottocentesca, per comprendere come l’edilizia monumentale, le strutture religiose, i grandi servizi pubblici, l’edilizia di base  stabiliscano tra loro rapporti di necessità consolidatisi nei secoli. Un rapporto di intenso che rende ancora familiari la chiesa barocca, il tempio classico, perfino il frammento antico, rispetto al quale si è assestata nel tempo una forma consolidata di utilizzazione originata dal moto che nella città si svolge, nel legame unitario tra percorsi interni ed esterni agli edifici.
Per questa ragione occorre valutare con molta attenzione il complesso processo in atto di progressiva segregazione, poco appariscente ma continuo, che sta modificando radicalmente il rapporto tra monumenti e città, dove il monumento viene inteso non come parte viva di un organismo urbano, ma “bene culturale” di valore autonomo, dove è peraltro  sintomatica l’evidente deformazione del valore storico dei termini “patrimonio” e “cultura”.
Andrebbe infatti considerato come il legame organico tra tessuto ed edifico costituisca, esso stesso, un patrimonio prezioso, sotto alcuni aspetti forse il più prezioso, che la città moderna ha ereditato da quella antica.
Questo processo costituisce, peraltro, il segno evidente di come davvero si stia trasformando la cultura della città: sotto l’insegna ormai onnicomprensiva, e quindi labile e vaga, della Tutela, si chiudono spazi porticati, aree  protette,  luoghi cordiali “minacciati” che hanno  il torto di raccogliere con generosità eccessiva, in alcune ore del giorno, barboni, pazzi, ubriachi: naufraghi portati a riva da una città divenuta metropoli ostile e sottilmente violenta; un’umanità sconfitta e imbarazzante che la città imbarbarita sembra voler  stanare. In questo modo si ritiene di superare il singolare vuoto di competenze nella manutenzione delle aree di pertinenza dei monumenti. Si noti, peraltro, come vengano invece tollerate tanto la scia di immondizie  lasciata dalla folla di turisti che senza sosta si abbatte su palazzi e rovine, quanto le adunate giovanili che ogni sera trasformano luoghi di grande storia e poesia come S. Maria della Pace o piazza Campo de’ Fiori in  rumorosi bivacchi: in questo caso il degrado viene ritenuto beneficamente inevitabile, opportunamente salutare, alimentando un commercio ormai intoccabile. Un problema reale (di igiene, di assistenza sociale, di ordine pubblico) che qualsiasi società civile risolverebbe nelle sedi opportune, sta dando luogo, a Roma, ad un incontrollato processo di sottrazione: scompare così una civiltà di percorsi che ha dato vita ai tipi edilizi sui quali è basata la costruzione di gran parte delle città europee, e avanza la cultura dei recinti, delle segregazioni.
Un processo incontrollato, si diceva, perché originato da un problema particolare, se pur non marginale, quando il senso del recinto investe, al contrario,  il significato stesso della formazione dello spazio urbano: genera  una struttura di individuazione-esclusione, definisce margini, innesca propri  meccanismi funzionali e simbolici .
Meccanismi che si traducono in articolazioni dello spazio all’interno di un codice legato alla stratificazione delle forme attraverso le quali l’uomo ha sperimentato lo spazio separato e concluso, che nella città moderna ha dato origine a particolari strutture di esclusione, delle quali gli organismi cimiteriali e carcerari rappresentano l’esito più leggibile. Strutture che ora si vanno appropriando dei monumenti storici, dove non è più l’ingresso all’edificio (l’androne, il vestibolo) ad esprimere la rappresentazione del rito di passaggio tra interno ed esterno, ma lo spazio antistante o retrostante la recinzione, che diviene il luogo privilegiato della mediazione, dello scambio, del mercato, mentre si formano, all’esterno, le percorrenze periferiche che individuano linee dividenti che rendono immediatamente riconoscibili nuovi principi di centralità e perifericità. Che finiscono per organizzare un nuovo spazio, empirico ed inevitabilmente oppositivo rispetto alla città ereditata.
E’ esemplare il processo di segregazione dei resti del teatro di Marcello, iniziato con la trasformazione del rudere inserito come parte  viva del tessuto, occupato da botteghe, in resto archeologico parzialmente abitato, e concluso dalla formazione di una recinzione continua che lo ha trasformato  in monumento isolato ed estraneo al tessuto.
E l’isolamento  ottocentesco del monumento sembra venire riproposto come età dell’oro del culto moderno dei monumenti: da pochi anni a Palazzo Massimo alle Colonne è stato chiuso il porticato d’ingresso che costituiva lo spazio ospitale concesso dal principe alla città, a S. Maria della Pace è stato da tempo ingabbiato il pronao semicircolare e a S. Maria in Via un’ inutile e volgare gabbia avvolge la facciata. E’ stata perfino inspiegabilmente isolata, poco dopo il restauro, l’ appartata S. Maria della Quercia.
Ultimo, dolorosissimo sequestro annunciato, la chiusura del pronao del Pantheon, architettura  nata come spazio pubblico per eccellenza, raccordata com’era all’antistante  piazza porticata che in età adrianea circondava l’ingresso al monumento.  Uno spazio dilatato e permeabile, quasi onirico, che anche vive ancora in intensa, straordinaria simbiosi con  piazza della Rotonda.
Ma in realtà si progetta di recingere un po’ tutto, dai piccoli monumenti ai grandi spazi aperti del Campidoglio o del Colle Oppio, riscoprendo, anche, indizi di inferriate, tracce di cancellate del secolo scorso elevati alla nuova dignità di segni augurali del destino del luogo.
Un malinteso senso del termine “protezione” sta distruggendo così, progressivamente e senza eccessive proteste, gli ultimi segni della città a dimensione umana, attraverso un universo di recinti (grate, inferriate, cancelli) : sistemando una cancellata accanto all’altra in un centro urbano che ha la più alta concentrazione di monumenti al mondo, gli abitanti verranno progressivamente e quasi inavvertitamente relegati nei corridoi di un gigantesco museo di pietra grande quanto la città storica.
Cambia così il modo di leggere i monumenti: spazi quotidiani e intensamente vissuti migrano in un universo concluso e distante, meramente documentario, consegnati al limbo asettico delle visite guidate, all’astrazione della storia dell’arte, dove le strutture antiche,  finalmente liberate del peso della vita reale,  riposeranno in un tranquillizzante rigor mortis.

Poche grandi città in Europa possono vantare un tessuto storico ancora fortemente organico come Roma, dove un rapporto esemplarmente organico lega gli spazi pubblici della città al costruito e alle memorie dell’Antico. Qui la gerarchia dei percorsi conferma, ancora, come il processo formativo dell’edilizia di base sia stato originato da trasformazioni continue basate su aggregazioni e rifusioni, mentre gli edifici speciali dimostrano, evidente, la loro formazione per “specializzazione”, appunto, dei tipi abitativi: gli impianti delle grandi architetture (di  chiese,  conventi,  palazzi), individuano (rendono individuale, unico ed irripetibile) tipi basati sulla trasformazione dei tessuti, dei quali “introiettano” la nozione di percorso e aggregazione, oltre che il modulo dimensionale. Basta osservare una pianta dei piani terreni di una parte qualsiasi della Roma entro le mura, spesso perfino di quella ottocentesca, per comprendere come l’edilizia monumentale, le strutture religiose, i grandi servizi pubblici, l’edilizia di base  stabiliscano tra loro rapporti di necessità consolidatisi nei secoli. Un rapporto di intenso che rende ancora familiari la chiesa barocca, il tempio classico, perfino il frammento antico, rispetto al quale si è assestata nel tempo una forma consolidata di utilizzazione originata dal moto che nella città si svolge, nel legame unitario tra percorsi interni ed esterni agli edifici.
Per questa ragione occorre valutare con molta attenzione il complesso processo in atto di progressiva segregazione, poco appariscente ma continuo, che sta modificando radicalmente il rapporto tra monumenti e città, dove il monumento viene inteso non come parte viva di un organismo urbano, ma “bene culturale” di valore autonomo, dove è peraltro  sintomatica l’evidente deformazione del valore storico dei termini “patrimonio” e “cultura”.
Andrebbe infatti considerato come il legame organico tra tessuto ed edifico costituisca, esso stesso, un patrimonio prezioso, sotto alcuni aspetti forse il più prezioso, che la città moderna ha ereditato da quella antica.
Questo processo costituisce, peraltro, il segno evidente di come davvero si stia trasformando la cultura della città: sotto l’insegna ormai onnicomprensiva, e quindi labile e vaga, della Tutela, si chiudono spazi porticati, aree  protette,  luoghi cordiali “minacciati” che hanno  il torto di raccogliere con generosità eccessiva, in alcune ore del giorno, barboni, pazzi, ubriachi: naufraghi portati a riva da una città divenuta metropoli ostile e sottilmente violenta; un’umanità sconfitta e imbarazzante che la città imbarbarita sembra voler  stanare. In questo modo si ritiene di superare il singolare vuoto di competenze nella manutenzione delle aree di pertinenza dei monumenti. Si noti, peraltro, come vengano invece tollerate tanto la scia di immondizie  lasciata dalla folla di turisti che senza sosta si abbatte su palazzi e rovine, quanto le adunate giovanili che ogni sera trasformano luoghi di grande storia e poesia come S. Maria della Pace o piazza Campo de’ Fiori in  rumorosi bivacchi: in questo caso il degrado viene ritenuto beneficamente inevitabile, opportunamente salutare, alimentando un commercio ormai intoccabile. Un problema reale (di igiene, di assistenza sociale, di ordine pubblico) che qualsiasi società civile risolverebbe nelle sedi opportune, sta dando luogo, a Roma, ad un incontrollato processo di sottrazione: scompare così una civiltà di percorsi che ha dato vita ai tipi edilizi sui quali è basata la costruzione di gran parte delle città europee, e avanza la cultura dei recinti, delle segregazioni.
Un processo incontrollato, si diceva, perché originato da un problema particolare, se pur non marginale, quando il senso del recinto investe, al contrario,  il significato stesso della formazione dello spazio urbano: genera  una struttura di individuazione-esclusione, definisce margini, innesca propri  meccanismi funzionali e simbolici .
Meccanismi che si traducono in articolazioni dello spazio all’interno di un codice legato alla stratificazione delle forme attraverso le quali l’uomo ha sperimentato lo spazio separato e concluso, che nella città moderna ha dato origine a particolari strutture di esclusione, delle quali gli organismi cimiteriali e carcerari rappresentano l’esito più leggibile. Strutture che ora si vanno appropriando dei monumenti storici, dove non è più l’ingresso all’edificio (l’androne, il vestibolo) ad esprimere la rappresentazione del rito di passaggio tra interno ed esterno, ma lo spazio antistante o retrostante la recinzione, che diviene il luogo privilegiato della mediazione, dello scambio, del mercato, mentre si formano, all’esterno, le percorrenze periferiche che individuano linee dividenti che rendono immediatamente riconoscibili nuovi principi di centralità e perifericità. Che finiscono per organizzare un nuovo spazio, empirico ed inevitabilmente oppositivo rispetto alla città ereditata.
E’ esemplare il processo di segregazione dei resti del teatro di Marcello, iniziato con la trasformazione del rudere inserito come parte  viva del tessuto, occupato da botteghe, in resto archeologico parzialmente abitato, e concluso dalla formazione di una recinzione continua che lo ha trasformato  in monumento isolato ed estraneo al tessuto.
E l’isolamento  ottocentesco del monumento sembra venire riproposto come età dell’oro del culto moderno dei monumenti: da pochi anni a Palazzo Massimo alle Colonne è stato chiuso il porticato d’ingresso che costituiva lo spazio ospitale concesso dal principe alla città, a S. Maria della Pace è stato da tempo ingabbiato il pronao semicircolare e a S. Maria in Via un’ inutile e volgare gabbia avvolge la facciata. E’ stata perfino inspiegabilmente isolata, poco dopo il restauro, l’ appartata S. Maria della Quercia.
Ultimo, dolorosissimo sequestro annunciato, la chiusura del pronao del Pantheon, architettura  nata come spazio pubblico per eccellenza, raccordata com’era all’antistante  piazza porticata che in età adrianea circondava l’ingresso al monumento.  Uno spazio dilatato e permeabile, quasi onirico, che anche vive ancora in intensa, straordinaria simbiosi con  piazza della Rotonda.
Ma in realtà si progetta di recingere un po’ tutto, dai piccoli monumenti ai grandi spazi aperti del Campidoglio o del Colle Oppio, riscoprendo, anche, indizi di inferriate, tracce di cancellate del secolo scorso elevati alla nuova dignità di segni augurali del destino del luogo.
Un malinteso senso del termine “protezione” sta distruggendo così, progressivamente e senza eccessive proteste, gli ultimi segni della città a dimensione umana, attraverso un universo di recinti (grate, inferriate, cancelli) : sistemando una cancellata accanto all’altra in un centro urbano che ha la più alta concentrazione di monumenti al mondo, gli abitanti verranno progressivamente e quasi inavvertitamente relegati nei corridoi di un gigantesco museo di pietra grande quanto la città storica.
Cambia così il modo di leggere i monumenti: spazi quotidiani e intensamente vissuti migrano in un universo concluso e distante, meramente documentario, consegnati al limbo asettico delle visite guidate, all’astrazione della storia dell’arte, dove le strutture antiche,  finalmente liberate del peso della vita reale,  riposeranno in un tranquillizzante rigor mortis.

COSTRUZIONE, TRASFORMAZIONE, ROVINA

COSTRUZIONE,  TRASFORMAZIONE,  ROVINA

prof. Giuseppe Strappa

L’uomo che lavora, che prega, che abita, struttura (organizza cioè attraverso la costruzione) intorno a sé uno spazio.

Per questo ogni uomo tende ad essere, in un certo senso, architetto dello spazio che vive.

Dalla vita, e dal moto che ad essa è sempre associato, deriva l’ordine riconoscibile degli spazi e dell’ordinato disporsi del materiale ad essi complementare.

La forma di ogni singola costruzione, degli aggregati edilizi, del territorio stesso, costituisce il punto di equilibrio di componenti in movimento che possono essere riassunte, semplificando sinteticamente, dalla nozione di moto e da quella, strettamente correlata, di trasformazione.

L’architettura costituisce, in questo senso, la rappresentazione di aspetti, tipici e tipizzati dall’ esperienza  collettiva, della vita dell’uomo

La forma è pertanto l’aspetto visibile di una struttura di relazioni dinamiche, della gerarchizzazione di funzioni ed elementi costruttivi, del legame tra spazi legati dal nesso di percorsi, soste, gesti convenzionali o rituali.

Ma il costruttore che disegna o immagina un edificio, non è solo di fronte alla complessità dei problemi che l’opera propone: egli parte già da un’esperienza collettiva storicizzata dal consolidarsi nel tempo degli spazi che organizza intorno a se l’uomo che prega (la chiesa, la moschea, la sinagoga), l’uomo che lavora (la fabbrica,la fattoria, l’ufficio), l’uomo che studia (la scuola, la biblioteca, lo studio).

Lo spazio che il costruttore organizza non contiene, dunque, che in piccola parte l’ apporto critico e individuale di chi deve risolvere un problema: egli opera piuttosto, coscientemente o spontaneamente, seguendo il grande flusso del tempo che origina le forme, le trans-forma, le aggiorna di continuo in base a caratteri che finiscono per divenire tipici di un intorno civile e di una fase storica.

Ma il portato della storia sarebbe solo distesa di frammenti muti senza un centro che li raccolga e li ordini, senza la sintesi che unifica in pochi gesti costruttivi la complessità dell’esperienza e della memoria, unite alla sfida delle nuove richieste che ogni nuova costruzione impone. L’aspirazione a questa sintesi unificante, che percorre anche le fasi più critiche dell’architettura, si esprime attraverso la nozione di organismo.

La vita degli organismi edilizi, il loro formarsi e modificarsi nel corso della storia, fa parte di una grande corrente di trasformazioni che modifica la forma degli edifici, degli aggregati urbani, delle città, del territorio. Come dimostrano le stesse leggi del moto, lo stato di equilibrio che caratterizza gli edifici in una fase della trasformazione della materia, è un caso particolare tra gli infiniti possibili: l‘edificio costruito (e più in generale la realtà costruita) che noi tendiamo a considerare nelle sue componenti stabili (la statica, la razionale distribuzione degli spazi, la leggibilità fissata dalle scelte estetiche) è in realtà uno stato di provvisorio equilibrio all’interno di questo flusso di modificazioni. A partire dalla sua edificazione, che può essere intesa come trasformazione della materia che diviene dapprima materiale, poi elemento della costruzione fino ad aggregarsi in strutture e sistemi a comporre, infine, l’organismo architettonico.

L’edificio, in questo senso, non è un oggetto, ma un processo che prevede successivi cambiamenti di stato:

la costruzione, come cambiamento di stato della materia trasformata in materiale e poi, per gradi successivi, organismo compiuto;

la prima fase di vita dell’edificio, come verifica (o collaudo) e conseguente adattamento, completamento e finitura (arredi ecc.);

la seconda fase di vita, come processo continuo di trasformazioni e aggiornamenti in relazione alle condizioni dell’intorno civile;

la rovina, come estremo cambiamento di stato e ritorno dell’organismo, in un processo inverso a quello della costruzione, a strutture disaggregate (che hanno cioè perso gli interni legami di necessità), elementi, materiale, materia.

Quest’ultima fase di progressivo ritorno allo stato di natura, che l’uomo cerca di allontanare attraverso il restauro, il ripristino, il riuso, la manutenzione, mai considerata e prevista nel progetto, è quella che rende riconoscibile con maggiore evidenza il carattere dell’edificio, che ne testimonia la grandezza (la capacità di rovinare processualmente) o la fragilità (statica, tipologica, estetica, in una parola civile).

Figure dell’architettura contemporanea

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FACOLTA’ DI ARCHITETTURA “VALLE GIULIA” – AULA 16 – lunedì 9,30 – 13,30

prof. Giuseppe Strappa, prof. Lina Malfona, arch. Livia de Andreis

il Corso di Figure dell’architettura contemporanea (4 CFU) è collocato al primo semestre dell’anno accademico ed è propedeutico, all’interno del Laboratorio di Progettazione 1, al corso di Progettazione Architettonica 1 collocato al secondo semestre.
Il corso si propone di fornire allo studente, nella prima fase di contatto con i problemi della progettazione, una sintesi essenziale dei temi attraverso i quali si configura la disciplina del progetto architettonico e che verranno affrontati nel corso degli anni successivi.
Tale quadro generale sarà fornito allo studente attraverso cicli di lezioni teoriche ed anche, in modo più diretto, attraverso casi di studio scelti tra quelli che illustrano in modo più diretto i problemi che l’architetto deve affrontare nel corso del progetto:

1.    La progettazione come sintesi dei vari aspetti della disciplina architettonica;
2.    l ruolo della tipologia;
3.    I processi di definizione della forma;
4.    La relazione con le preesistenze;
5.    Il rapporto con la storia;
6.    Il rapporto con la scala urbana e territoriale;
7.    La componente tecnica e tecnologica;
8.    I problemi della realizzazione;
9.    La critica dell’architettura contemporanea come componente del progetto.

Uno o più autori od esperti significativi delle diverse discipline presenteranno la loro opera (progettuale, tecnica, critica) attraverso una comunicazione comune ai tre corsi. Ogni intervento sarà inserito all’interno di una lezione nella quale il docente presenterà il tema.

All’interno del programma generale del nuovo insegnamento, questo corso si articolerà in fasi successive che riguarderanno i molteplici modi nei quali l’architettura, pur nella propria essenza fondamentalmente unitaria, si individua.
L’architettura, infatti, non può essere colta da una sola definizione ma è costituita da un flusso di esperienze (spaziali, costruttive, storiche, estetiche) che si raccolgono intorno al nodo del progetto. Queste esperienze risultano frammentate, negli insegnamenti universitari, in un insieme di discipline le quali, tutte, confluiscono nel progetto, ma delle quali lo studente rischia di non cogliere l’aspetto operante. Poiché gli studi di architettura non sono finalizzati solo alla formazione, ma anche all’educazione al progetto (configurandosi quindi la sede di questi insegnamenti più come scuola che come facoltà) riteniamo che allo studente che si avvicina al suo apprendimento debba essere offerta una “sezione trasversale” del problema attraverso un corso che ne illustri, insieme, la fondamentale unità, ma anche la complessità delle componenti. Questo approccio dovrebbe essere diretto e sintetico, non mediato da una rigida struttura didattica che: un viaggio che, come ogni viaggio, abbia una direzione ed uno scopo, ma includa l’imprevisto, la scelta personale, la scoperta.
Di questo viaggio il corso non vuole essere tanto la guida (ce ne saranno molte negli anni successivi) ma piuttosto un’indicazione e un invito a esplorare.
Intendendo il termine “figura” nel suo senso etimologico (da fingere, plasmare), il corso proporrà tre modi nei quali la realtà costruita, oggetto dello studio, appare e viene letta dal soggetto secondo intenzionalità operative (il progetto):

1.    La figura della trasformazione
2.    La figura della costruzione
3.    La figura del linguaggio

Si cercherà di trasmettere allo studente l’accezione ampia e fertile di queste figure: come la trasformazione, ad esempio, non modifichi solo la realtà fisica delle cose, ma anche il modo nel quale essa si esprime e rappresenta, ponendo il problema di un processo che è, insieme, logico e costruttivo, storico ed estetico.
Il corso tenterà anche di affrontare, ponendo la questione in termini didattici, il problema dell’invenzione, intesa come atto del trovare o dell’incontrare.
I diversi temi verranno affrontati, per questo, attraverso l’impiego di diadi di termini opposti e complementari: non solo la costruzione (da struo, fabbricare per strati) ma anche lo scavo; non solo la trasformazione, ma anche la permanenza; non solo il linguaggio, ma anche la sua assenza nella più generale struttura della lingua (della quale il linguaggio è uso particolare). Non solo il viaggio, quindi, ma anche il suo contrario: la sosta e la riflessione che sono, anch’esse, strumento della conoscenza.
Verranno proposte agli studenti, di volta in volta, letture relative agli argomenti affrontati e visite ad edifici romani, cominciando dall’edificio della nostra Facoltà di Valle Giulia, caso di studio esemplare di mutamento e durata, di tettonica muraria ed elastica, di espressione diretta e mediata.
Lo studente sarà invitato a compilare un “quaderno di viaggio” nel quale prenderà nota, con schizzi e appunti scritti, delle lezioni, conferenze e sopralluoghi proposti dal corso.
L’esame consisterà in una discussione sui temi svolti nel corso sulla base delle note riportate nel “quaderno” presentato dallo studente.

IL DEMONE DI LUIGI MORETTI

CONVEGNO

LUIGI MORETTI

ARCHITETTO DEL NOVECENTO

24,25,26 SETTEMBRE – AULA MAGNA DELLA FACOLTA’ DI ARCHITETTURA “VALLE GIULIA”

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In “Corriere della sera” del 23.10.2009
di Giuseppe Strappa

Architetto del Foro italico nel ’36 e del Watergate nel ’61, progettista della GIL di Trastevere e della “Califfa” a Santa Marinella, Luigi Moretti è stato uno dei personaggi più contraddittori e, insieme, geniali dell’architettura romana.
Se non c’è dubbio che la sua “Casa delle Armi” è uno dei capolavori assoluti del moderno europeo, una travagliata vicenda umana lo ha relegato a lungo in uno strano limbo. La critica del dopoguerra non gli ha mai perdonato, in realtà, il solido legame con la destra economica delle immobiliari e degli speculatori e solo nel ’75 Renato Bonelli ruppe il silenzio con un’isolata monografia che rimane, ancora, un esempio d’onestà intellettuale.
A questo imbarazzante demone della cultura romana, che si vantava di lavorare solo per principi e petrolieri, è dedicato un grande convegno presso quella Scuola di Valle Giulia dove Moretti, allievo di Giovannoni, si era formato.
Un’ occasione per riflettere non solo sulla sua opera, ma anche sulle contraddizioni che percorrono interi strati, sotterranei e ben nascosti, dell’architettura moderna. Perché vorremmo che il bello coincidesse con il bene, con il giusto, con l’utile, e invece l’architettura, come la vita, è contraddittoria e non si lascia spiegare con una formula. Vista con gli occhi ingenui che legano forma, etica, politica, La “Casa del Girasole” in viale Bruno Buozzi, ad esempio, è una versione di lusso delle tante palazzine della speculazione romana. Ma è, invece, anche un’opera straordinaria. Moretti vi dispone con cura una parete luminosa di tessere vetrate per poi squarciarla con un violento taglio verticale nel quale rifluiscono le ombre scure dell’atrio e del basamento in pietra grezza. Un pizzico di follia sulla solidità muraria romana. Una macchina barocca che non ha nulla, tuttavia, delle forme del passato.
Forse proprio questa comprensione profonda della continuità del moderno e del senso dell’innovazione, è uno degli antidoti più efficaci che ci ha lasciato Moretti contro la deriva arbitraria e narcisista di molta architettura contemporanea. Perchè “quando tutto è ammissibile – scriveva già nel ’69 – niente è ammissibile”.