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G.Strappa, Utilità degli studi sulla periferia ad est di Roma,
in Studi sulla periferia est di Roma, Franco Angeli, Milano 2012, pp. 17 – 28
Archivio
Segezia
di Giuseppe Strappa
in AA.VV. Metafisica costruita, Roma 2002.
Tra le molte letture delle città di fondazione costruite in Italia tra le due guerre, una delle più fertili, ritengo, possa essere quella di interpretarle non solo come risultato di contingenze politiche, ma come esito di un processo che opera, nel fluire della storia, su tempi lunghi e, anche, prodotto di una forma di rinuncia all’individualismo, a quella volontà di “distinguersi ad ogni costo” nella quale Giuseppe Pagano aveva colto uno dei più insidiosi pericoli dell’architettura moderna. Interpretarle, in altri termini, come adesione, seppure non priva di ambiguità e contraddizioni, a una più generale langue comune che la cultura architettonica italiana del ‘900 tenta di elaborare. O meglio, stenta a riconoscere nelle condizioni di crisi generate dalla contrapposta interferenza degli echi rivoluzionari che arrivano dalle aree nordeuropee, del dettato storicista trasmesso dalle accademie, dell’interpretazione romantica che non pochi architetti coinvolti nel dibattito sull’architettura nazionale fornivano della tradizione di edilizia minore.
Riconoscibile attraverso un insieme di caratteri condivisi, la radice di questa lingua, spesso indicata come specificamente nazionale dalla pubblicistica della fine degli anni ’20 e degli anni ’30, appartiene, in realtà, ad una vasta koinè architettonica che apparenta contesti civili, per altri versi diversissimi tra loro, formatisi intorno al bacino del Mediterraneo.
Una vasta area culturale della cui specificità si comincia a prendere coscienza a partire dagli anni ’20 del XX secolo. Si tratta di un fenomeno che non ha precedenti nella cultura europea: il problema di un’identità mediterranea è un portato della modernità, delle trasformazioni culturali e politiche che hanno spostato verso nord il centro del mondo relegando il Mediterraneo in posizione periferica. Se quella antica, infatti, era la storia del mondo vista con gli occhi del Mediterraneo, è anche vero che si trattava della storia dei greci o dei romani, essendo il Mediterraneo soprattutto luogo di conflitti tra culture diverse. Solo per un breve periodo l’uomo mediterraneo aveva sentito come patria condivisa le terre romanizzate che andavano dalla penisola anatolica alla Spagna e all’Algeria: dopo il declino della grande unificazione romana le unificazioni parziali bizantine, arabe, ottomane, sotto la spinta dell’intolleranza e del proselitismo imposti dalle nuove religioni monoteistiche, non avevano fatto che acuire divisioni tra culture diverse.
In architettura, in particolare, la coscienza di una specificità mediterranea si forma con l’insorgere del Movimento moderno: come ogni identità essa nasce da una contrapposizione, dal riconoscimento, a volte contraddittorio e non sempre lucidamente cosciente negli scritti dei protagonisti, di istanze antagoniste operanti nella storia, identificabili attraverso la polarizzazione, nell’Europa del nord, delle ricerche per un’architettura caratterizzata dalla serialità legata al mondo delle macchine ed alla produzione industriale. Queste ricerche, coerenti con il processo formativo di aree culturali che coincidono per larga parte con le regioni storicamente segnate dal gotico, si traducono in forme opposte a quella nozione di organicità che era stata per secoli il vero carattere specifico del mondo mediterraneo, con il programmatico distacco tra le componenti dell’organismo edilizio: l’indipendenza della distribuzione dal sistema statico-costruttivo, della quale la “pianta libera” era il portato più evidente, l’indipendenza della leggibilità esterna dalla costruzione, testimoniata in forma di manifesto dalla “facciata libera”.
Si fa quindi strada, in modo complesso ma sinteticamente evidente, l’idea di un’ architettura moderna basata su ideali umanistici, un mondo di forme “necessarie”, per molti versi divergenti da quelle del Movimento moderno anche se non prive di superficiali assonanze, derivate dal processo formativo dell’edilizia a matrice muraria, che lega organicamente, attraverso la funzione portante e chiudente della parete, distribuzione, struttura, leggibilità.
Il riconoscimento di questa diade di polarizzazioni riscontrabili nell’architettura moderna tra le due guerre va operato superando la confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti. Caso esemplare è quello dei ponderosi volumi che Alberto Sartoris dedica alla nuova architettura, dove la distinzione tra climat mediterranéens e climat nordiques viene dedotta esclusivamente attraverso le aree geografiche di appartenenza, indipendentemente dal carattere degli edifici selezionati e non tenendo conto della complessità del problema, della nostalgia delle origini che il mondo mediterraneo, ad esempio, ha sempre suscitato negli architetti nordici, da Asplund a Markelius ad Aalto ,
E sull’idea di “mediterraneità” si scrive molto, anche in Italia, tra le due guerre, senza dedurne, tuttavia, nozioni trasmissibili che superino un generico riferimento alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi finendo per rendere incerta o ambigua ogni definizione . Soprattutto negli anni tra il 1930 ed il 1934 la polemica sui caratteri dell’architettura nazionale che ha diviso gli architetti italiani coincide spesso con quello sull’architettura mediterranea. L’idea che si vuole avallare è quella di una tradizione antica della quale si propone un aggiornamento: la ripresa della semplicità dei volumi, la lezione della varietà di forme nella spontanea composizione delle abitazioni isolane. Se si fa eccezione delle note posizioni critiche di Persico e Pagano, di alcune riflessioni interne al gruppo che si forma intorno alla rivista «Quadrante» e di isolate osservazioni (come quelle di Giuseppe Capponi, che riconosce nelle forme della casa mediterranea, che “stranamente esprimono quell’idea che è così propria della più moderna concezione dell’architettura”, non il generico fascino del primitivismo, ma il risultato di un processo ), il dibattito è informato a generici richiami al pittoresco e alle qualità “spirituali” della tradizione mediterranea da contrapporre al “materialismo” dell’internazionalismo nordeuropeo.
E tuttavia un carattere distintivo può essere riconosciuto invece, al di là delle affermazioni dei protagonisti, nella nozione di continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, molti progetti e costruzioni degli architetti moderni che guardano al Mediterraneo. Continuità leggibile tanto nei tipi edilizi quanto nel linguaggio architettonico inteso, appunto, nel senso di declinazione individuale di una lingua condivisa. Si pensi ad esempio alle ricerche sulla casa a corte, vera matrice spaziale delle forme mediterranee, riproposta da Luigi Piccinato per la sua casa coloniale esposta alla V Triennale di Milano. “È invero interessante vedere – scrive in proposito Piccinato – come in fondo la storia ci offra un tipo di casa mediterranea comune a quasi tutti i popoli vissuti intorno al mare mediterraneo:un tipo in cui le differenziazioni tra nazione e nazione sono più superficiali che sostanziali” . E si pensi anche, contrapposta alla discontinuità dei sistemi elastici e discreti delle aree nordeuropee, alla continuità plastica della parete muraria e dei relativi nodi tettonici, spesso impiegati spontaneamente, ma a volte criticamente anche indagati da architetti come Giuseppe Pagano. Il quale in Architettura rurale in Italia riconosceva nel marcadavanzale il segno della permanenza di una lingua ancora operante, che Pagano stesso impiegava concretamente, peraltro, nelle facciate di palazzo Gualino.
Ma continuità, anche, con le strutture del territorio, che introduce una nozione di paesaggio che meriterebbe di essere indagata a fondo: contro la tradizione pittoresca anglosassone della landscape architecture e propiziata dal legame tra costruito e ambiente imposto dalle bonifiche, si forma un’idea di paesaggio inteso come aspetto visibile della struttura del territorio, espressione organica dei valori di un contesto civile del quale non solo e non tanto la natura incontaminata, ma le aree produttive, la natura addomesticata dal lavoro dell’uomo costituiscono gli elementi fondanti.
Di questa nozione organica e antimeccanica di paesaggio costruito le città di fondazione forniscono forse l’interpretazione più evidente attraverso il loro legame di necessità col territorio, l’unità dell’ impianto basato sulla gerarchia dei percorsi, la plasticità muraria degli edifici,.
Nel pieno della modernità Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia , sorte intorno a Roma tra il 1928 ed il 1936, rispondono ancora, in diverso grado, ai principi di organicità stabiliti dal rapporto di continuità col retroterra agricolo, dalla gerarchizzazione dei percorsi legati alla viabilità territoriale, dalla relativa collocazione e individuazione dei tipi edilizi, dal carattere delle costruzioni coerente con la tradizione muraria nonostante gli aggiornamenti.. Organicità che ha inizio dal rapporto di congruenza con il processo storico di trasformazione del territorio: esse partecipano alla conclusione dell’ultima fase di un ciclo che, secondo un “tipo territoriale” piuttosto costante nell’Italia centrale, parte dal recupero della viabilità romana, continua con la ristrutturazione degli insediamenti di promontorio dei monti Lepini e si conclude con la formazione di insediamenti rurali di fondovalle e pianura, di origine produttiva. La fondazione delle città dell’Agro Pontino, per questa ragione, é da associare alla conclusione dei grandi cicli di antropizzazione del territorio del bacino del Mediterraneo che hanno portato, anche, alla bonifica della piana di Salonicco, delle aree del Basso Rodano, della Mitidja algerina.
Tra queste città sembra utile riproporre come esemplare il caso di Sabaudia, per essere stata considerata dalla storiografia ufficiale del dopoguerra la città di fondazione più innovativa, mentre, come cercheremo di dimostrare, testimonia con concreta evidenza la continuità con gli organismi urbani tradizionali
Nonostante sia stata interamente progettata nel 1933, e risulti quindi il prodotto di quel modo critico di pianificare gli interventi che nelle aree nordeuropee trovava esito nella contrapposizione tra città e contesto, Sabaudia presenta evidenti legami di continuità col suo territorio: una continuità storica in quanto ultima fase di un processo di antropizzazione che procede da monte verso valle, secondo cicli e fasi tipiche di ogni processo insediativo del territorio italiano; continuità spaziale dovuta alla maglia di percorsi e nodi territoriali gerarchizzata in fondovalle dalla pedemontana e dall’Appia, e strutturata attraverso il sistema delle miliare; continuità tipologico-processuale in quanto la forma della città è “pertinente” alla propria fase storica, che è quella di una progressiva riutilizzazione delle aree produttive di pianura e di fondovalle, quale recupero di aree anticamente civilizzate, entrate in crisi nel periodo tardo antico.
L’organismo urbano di Sabaudia, come gli altri centri rurali della bonifica, è quindi il portato di percorrenze territoriali. Tanto che Sabaudia può essere considerata un borgo agricolo fortemente gerarchizzato da una posizione (discontinuità orografica) e da una viabilità (raccordo con la viabilità costiera) singolari che le conferiscono il ruolo di nodo territoriale: “Essa non è una città -scriveva Piccinato- ma un centro comunale agricolo: indissolubilmente legato al suo territorio e alla terra che produce”.
Questo legame tra insediamento e territorio risulta evidente dalla gerarchizzazione degli assi urbani secondo un impianto polarizzato dagli edifici di servizio (specialistici) che costituiscono l’origine dei percorsi, mentre nella periferia viene dislocata, a somiglianza degli insediamenti tradizionali, l’edilizia specialistica antipolare, raggruppata per affinità tipologica.
Si noti infatti come un ruolo centrale assuma il sistema delle percorrenze relativo alla piazza del Comune ed ai suoi edifici specialistici, il quale “annoda” gli assi accentranti di corso Principe di Piemonte, corso V. Emanuele III e corso V. Emanuele II e come quest’ultimo risulti fondamentale per costituire la continuazione di una delle direttrici territoriali che partono dall’Appia in direzione della costa. In opposizione all’ideologia dello zoning del moderno nordeuropeo, gli architetti che idearono Sabaudia non disegnarono un piano urbanistico: progettarono l’architettura della città avendo in mente un tessuto di edifici orientato da percorsi; pensarono unitariamente la forma delle costruzioni e l’impianto di di strade e viali.
E il nesso organico tra edificio e tessuto, tra distribuzione interna e percorsi esterni appare evidente nella scelta dei tipi edilizi impiegati, che costituiscono un aggiornamento processuale dei tipi tradizionali. Si veda il Palazzo del Comune, nel quale la struttura dei vani gerarchizzati è organizzata dai percorsi interni su cortile polarizzati dalle scale, o il complesso religioso in piazza Regina Margherita, dove il vano nodale della chiesa è accentrato dalla continuazione di un asse urbano che dal portale raggiunge l’altare, mentre la “Casa delle suore” è organizzata, come negli impianti conventuali, su un percorso che si diparte dal presbiterio.
Il carattere degli elementi e delle strutture costruttive degli edifici di Sabaudia costituisce, infine, una declinazione moderna dei caratteri propri dell’area plastico-muraria romana. Gli edifici sono, per la gran parte, ottenuti dalla composizione di pareti murarie leggibili come portanti e chiudenti allo stesso tempo, organizzate secondo fasce di stratificazione architettonica tradizionale: basamento, portato spesso fino al marcadavanzale, elevazione e, infine, unificazione e conclusione modernamente rifuse in unità. Questo dato é più evidente (maggiore massività e organicità) quando le costruzioni sono realmente eseguite in muratura portante, mentre, quando risultano costruite ad ossatura in cemento armato, la leggibilità del carattere degli edifici è resa complessa dalla parziale esposizione del telaio in c.a., rivestito o meno in mattoni, che conferisce agli organismi un certo grado di serialità (si veda, ad esempio l’impiego dei porticati-pilotis).
Se progetto di tessuto e progetto edilizio nascono, nelle città di fondazione dell’Agro Pontino, contemporaneamente, portato di una stessa idea di aggiornamento della nozione ereditata di città, le stesse nozioni fondanti si riscontrano, seppure con qualche ritardo e declinate a volte in maniera più pragmatica, nei progetti per i nuovi insediamenti italiani in aree decentrate come quelli per Cortoghiana in Sardegna, primo banco di prova delle riflessioni progettuali di Saverio Muratori, o per i centri di Segezia, Incoronata e Daunilia in Puglia, dove il tema della bonifica richiedeva, pur nella permanenza, anche amministrativa, della nozione di “opera pubblica” , la pianificazione di un legame organico col territorio.
Ma gli stessi principi sono riscontrabili nei nuovi insediamenti delle colonie italiane del Mediterraneo, sotto l’influenza, anche, di quella spinta all’assimilazione che negli ultimi anni del fascismo verrà sostituita dalla strategia del “diretto dominio”. Come ha notato Giorgio Ciucci in un acuto saggio sull’architettura delle colonie , prima della conquista dell’Etiopia non esisteva una sostanziale differenza tra i criteri di progettazione edilizia e urbanistica adottati per il territorio nazionale e quelli per le colonie e i possedimenti d’oltremare, specie mediterranei. L’impianto di Portolago, cittadina costruita sull’isola di Leros dagli architetti Rodolfo Petracco e Armando Barnabiti, presenta, a scala ridotta, caratteri affini a quelli dell’organismo urbano della contemporanea Sabaudia, con l’asse principale che raggiunge l’area degli edifici specialistici principali (il complesso dell’albergo-cinema-teatro; il municipio e la casa del fascio) e due percorsi a tenaglia che collegano poli secondari (le scuole, la casa del balilla, la dogana, il quartiere operaio). Nonostante l’abbandono e le trasformazioni subite, anche qui le pur modeste costruzioni, alle quali sembra aver giovato la scarsità delle risorse economiche, testimoniano lo sforzo di cogliere un processo di trasformazione in atto . E considerazioni analoghe possono essere fatte per i tanti insediamenti rurali costruiti negli anni’30, come Campochiaro e Peveragno, costruiti a Rodi dal ’29 al ‘35, o per i villaggi Baracca, Bianchi, Breviglieri, D’Annunzio e i tanti altri costruiti per la colonizzazione della costa tra Derna e Bengasi.
Visti sotto questo pur parziale aspetto, non si può non rilevare come gran parte dei borghi e delle città di fondazione costruiti dagli architetti italiani tra le due guerre siano partecipi di una nuova, tutta moderna specificità mediterranea la quale, se si guarda alle radici organiche (tettoniche e tipologiche) della costruzione e del suo rapporto con l’organismo urbano, oltre le ideologie e le inevitabili diversità areali, sembra per larga parte derivare da un nucleo centrale di caratteri condivisi, la coscienza dei quali nasce e si evidenzia dalla contrapposizione con la serialità e discontinuità del mondo moderno nordeuropeo.
E dalla quale traggono origine i linguaggi, cioè gli usi personali della lingua, il cui studio strutturale permetterebbe di legare in un inedito percorso, ad esempio, la produzione “muraria” dei pionieri del moderno, testimoniata dal Le Corbusier delle case Errazuris, De Mandrot, Jaoul; le opere degli architetti “emigrati” verso il sud, come i costruttori della “città bianca” di Tel Aviv, (città di fondazione dove l’idea howardiana che sta alla base del piano di Geddes genera nel tempo un tessuto denso e mediterraneo, in analogia con alcuni casi italiani, e gli architetti formatisi nel Bauhaus finiscono per interpretare, sul piano dei risultati, una versione muraria della modernità internazionale); quelle di interpreti più recenti del linguaggio plastico e murario su cui si fonda la tradizionale organicità del mondo costruito mediterraneo come Pouillon, Pikionis o Costantinidis.
Illuminando di nuovi significati opere e personaggi che, se interpretati secondo i metodi e i principi delle storiografie ufficiali, non risulterebbero che frammenti dispersi della vicenda dell’architettura moderna.
1. Cfr. A. Sartoris, Encyclopédie de l’architecture nouvelle, Milano ; nuova ed. 1954 sgg ; vol.I, Ordre et climat méditerranéens, 1948, vol.II, Ordre et climat nordiques, 1957.
2. Cfr.: S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista – mediterraneità e purismo, in: Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, a cura di S.Danesi e L.Patetta, Venezia 1976; M. Fuller, Mediterraneanism,in: Amate Sponde… Presence of Italy in the Architecture of the Islamic Mediterranean, numero monografico di «Environmental Design» n.9-10, Como 1992; G.Capponi, Motivi di architettura ischiana, in «Architettura e arti decorative», a.IV, fasc.XI, luglio 1927.
estratto da G.Strappa, Architettura moderna mediterranea in Italia,
in AA.VV. Arte e cultura del Mediterraneo nel XX secolo, UNESCO, Roma 2004
IDENTITA’ ORGANICA
Cancellando di colpo la nozione di area culturale che si era diffusa nella coscienza europea almeno dall’inizio del XIX secolo, le storie ufficiali di architettura moderna (a partire dagli anni ’30 e con rare eccezioni) sembrano raccogliere le vicende degli architetti e degli edifici intorno ad alcuni nodi critici che, comunicati attraverso slogan, individuano movimenti, correnti, tendenze ai quali viene attribuito un carattere internazionale. Ma i quali, nondimeno, riconoscono invariabilmente i loro centri nelle grandi aree urbanizzate nordeuropee e poi nordamericane, delle quali interpretano valori, gusti, aspirazioni: quello che viene comunemente accolto come internazionalismo architettonico e che tenterà una propria codificazione linguistica nell’International Style costituisce, in altre parole, il prodotto di una ristretta area geografica del mondo, politicamente ed economicamente accentrante, che ha finito per esportare i propri modelli culturali alle aree più periferiche. Generando al contempo, per reazione, almeno nelle regioni di cultura architettonica maggiormente consolidata, una complessa, nuova presa di coscienza delle proprie specificità alle quali si stenta ad assegnare oggi una definita collocazione storiografica e critica.
Il tema dell’architettura moderna a carattere plastico e murario che si è sviluppata ai confini del moderno internazionale, della sua definizione, della sua storia, dei luoghi dove essa è stata progettata e costruita, ma anche del suo significato contemporaneo e della sua attualità operante, costituisce, in questo quadro, un argomento per molti versi insolito e nuovo.
Anche la consapevolezza di un’identità architettonica organica relativa a una vasta area culturale che aveva il proprio centro nel bacino mediterraneo, identificabile attraverso caratteri comuni pur tra prerogative locali ed eredità conflittuali, si è andata formando di recente, proprio con l’insorgere del ruolo culturalmente egemone del Movimento moderno,a conclusione di un processo che, sulla spinta delle trasformazioni economiche e politiche iniziate nel XVII secolo, aveva finito con lo spostare verso nord il centro del mondo relegando il Mediterraneo ai propri margini.
Nell’Europa settentrionale lo sviluppo dell’architettura moderna ha, in realtà, condotto all’estrema conclusione il processo di trasformazione pertinente alle aree di cultura gotica, caratterizzate da sistemi costruttivi leggeri, trasparenti, seriali, portanti e non chiudenti nel tentativo di rompere qualsiasi residuo legame con i principi di stratificazione muraria e organica gerarchizzazione della costruzione.
Walter Gropius espone il tema con didascalica chiarezza: “[Gli architetti moderni] stanno cercando di ottenere mezzi creativi sempre più audaci per vincere la stessa gravità, per raggiungere, attraverso nuove tecniche, sia nell’apparenza, sia nella realtà, una condizione di sospensione al di sopra del suolo.” La pianta libera risolve, peraltro, il “genetico” conflitto tra la non eliminabile organicità della distribuzione, dove gli spazi si integrano e specializzano in funzione del ruolo che svolgono nell’edificio, e l’istanza alla serialità della struttura, di origine elastico-lignea, del sistema trave-pilastro di dimensioni unificate in calcestruzzo armato che costituiva il “ritmo sotteso” della costruzione moderna.
La serialità (carattere di un’aggregazione costituita da un insieme di elementi ripetibili e intercambiabili ) costituirà, non a caso, uno dei tre principi posti a fondamento della nuova architettura internazionale: “Nella struttura a scheletro gli elementi di supporto sono normalmente e tipicamente collocati a distanze uguali in modo che le tensioni siano equilibrate. Perciò la maggior parte degli edifici ha un regolare ritmo sotteso, chiaramente visibile prima che sia applicata l’epidermide esterna.”
Le maisons Dom-ino danno forma di manifesto a questo sviluppo seriale ed aperto, disponibile ad ogni soluzione formale delle strutture elastiche il cui involucro indipendente, utilizzando la stessa pianta, può essere costituito tanto dalle chiusure murarie vernacolari dei disegni per il Groupment sur colline del 1916 , quanto da piani e volumi razionali, come nelle case in serie pubblicate da Le Corbusier qualche anno dopo , che utilizzano, in modo sorprendente, un identico impianto distributivo.
Sviluppo che si contrappone, risultando per molti versi complementare, a quello organico formatosi nel mondo delle murature massive sulle rive del Mediterraneo e che, esportato nei paesi nordici in età moderna, col Rinascimento, ha determinato attraversamenti e intersezioni che rendono evidentemente complesso, oggi, rintracciare processi formativi specifici.
Eppure è altrettanto evidente come nelle aree a carattere plastico e murario dell’Europa meridionale, ma anche mediorientali e nordafricane, la transizione al moderno si sia caratterizzata, almeno in parte, per l’esteso impiego di forme massive e opache, derivate da sistemi costruttivi dove la funzione statica e costruttiva coincideva con quella di formare e chiudere gli spazi, stabilendo una chiara solidarietà, un rapporto di organica necessità, appunto, tra componenti architettoniche . In queste aree, nei primi due decenni del XX secolo, l’innovazione tecnica e tecnologica dovuta all’introduzione di nuovi materiali non ha dato luogo a forme di costruzione radicalmente innovative, ma ha proceduto soprattutto per aggiornamenti sostanzialmente continui e congruenti rinnovamenti. Si può senz’altro affermare che qui la persistenza di una chiara nozione di organismo di matrice plastica e muraria costituisca, soprattutto nel corso degli anni ’30 del ‘900, una scelta cosciente degli architetti che produce, soprattutto in Italia, nel periodo tra le due guerre e negli anni immediatamente successivi, un’architettura organica moderna basata su ideali umanistici, che spesso rinuncia all’individualismo delle avanguardie a favore della ricerca di una lingua comune capace di esprimere, ancora nell’età del calcestruzzo armato e dell’acciaio, un legame sintetico tra distribuzione, struttura, leggibilità.
Una diade di polarizzazioni tra aree, questa, nella quale è possibile individuare caratteri opposti e integrabili (come l’unione di sistemi murari ed elastici), resa complessa dalla confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti della vicenda moderna attraverso quei generici riferimenti alla mediterraneità, alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi (che può appartenere alla macchina come alla casa contadina) che hanno finito per rendere difficile ogni perimetrazione. Diade, tuttavia, riconoscibile attraverso la nozione di continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, tanto la costruzione quanto il linguaggio architettonico inteso, appunto, come declinazione individuale, se non di una lingua, di un insieme, almeno, di caratteri condivisi.
L’attuale declino della sperimentazione sull’architettura a carattere plastico e murario, che coincide con la mancanza di ricerca sulle strutture al tempo stesso portanti e chiudenti, dimostra come il carattere autentico di contemporaneità si identifichi oggi con le doti di leggerezza e trasparenza, con la snellezza coltivata con virtuoso narcisismo, con l’indipendenza dell’involucro dagli spazi contenuti che “libera” la forma dalle regole della costruzione. La massività e i sistemi pesanti, il gesto costruttivo sintetico che risolve, allo stesso tempo, problemi distributivi e costruttivi sembrano, in questo quadro, connotare un’architettura distante, inattuale, premoderna, che attinge ai valori di un passato mitico e svanito, relitti portati a riva dalle ondate revivaliste che si succedono periodicamente in Europa e negli Stati Uniti.
Dato, questo, di un processo il cui esito non è affatto scontato, perché il valore di un’architettura è in stretto, mutevole rapporto con le cose cui si da importanza e significato.
In realtà si è andata gradatamente smarrendo, nella produzione più mediatica (più idonea alla diffusione e quindi più nota),non solo il valore, ma la cognizione stessa del carattere del materiale, la coscienza di come il suo impiego non costituisca la mera componente tecnica confinata all’esecuzione dell’opera, ma il portato di una cultura spesso transnazionale, e una delle cause prime dell’invenzione architettonica :”Dire che il materiale rappresenta il mezzo necessario e sufficiente – scriveva Mario Pagano – per la realizzazione architettonica non basta. Esso è qualche cosa di più. Esiste nel materiale qualche cosa che non è soltanto aspetto esterno ma è tendenza formale inerente il materiale prescelto.”
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Jacques Herzog e Pierre de Meuron
di Giuseppe Strappa
in «Metamorfosi» n° 67 del luglio/agosto 2007
Venivano giù da un grande oblò rugginoso. Balcanici con gli occhi nascosti da pesanti schermi ottici, grassi cinesi con pantaloni di pelle colorata, un gruppo di tecnici del Nuovo Kerala con i loro copricapo in penne di fagiano. Poggiavano appena il piede sul terreno e già sollevavano lo sguardo impaziente verso la collina, come per porre fine a una lunga attesa.
Cupa e solenne contro il cielo limpido di dicembre, avvolta alla base da muschi e licheni, appariva la Rovina. Smisurata, enigmatica.
Alcuni piani erano crollati all’inizio del terzo millennio per l’incuria degli abitanti, ma la sagoma originale s’intuiva ancora, nonostante le vistose lacune riempite dall’azzurro del cielo. Verso sud, invece, la figura si rompeva contro la luce e lasciava indovinare le infinite aggiunte che si erano stratificate nel tempo, come una spessa crosta, sulle strutture di cemento: costruzioni difensive in resina di reimpiego e pesanti piastre di ferro dalla splendida ossidazione, tutelate dalla Suprema Intendenza Regionale fin dall’anno dei primi restauri, risalenti ormai al 2273.
Con fatica il gruppo prese a muoversi tra la selva di bottegucce spuntate come funghi ai piedi dello sito archeologico. Cumuli di montanti in verbonio e logori teli di kuplar si univano a formare una bazar fluido, in eterna trasformazione, dove industriosi immigrati celtici vendevano ogni genere di souvenir.
Anche i rumori si fondevano in un solo brusio di fondo. E su tutto aleggiava, tristissima e misteriosa, la nenia di un piccolo cantastorie irlandese. Le note si avvitavano leggere alle spire di fumo dei bracieri e poi salivano, insieme, verso il sole.
“Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser…. Ma mai, mai avrei pensato di vedere uno spettacolo tanto fastoso e potente, le nostre radici autentiche celebrate da questo glorioso monumento in rovina”.
Il ballerino rumeno che aveva pronunciato queste parole era stato evidentemente rapito da un trasporto eccessivo. Eppure le sue esagerazioni non mancavano di una qualche giustificazione.
Perché da tempo, ormai, Corviale non era più soltanto un luogo fisico. Era soprattutto un luogo della mente, una zona molteplice e universale, dove si era concentrato, accavallato, rifuso per secoli ogni tipo di leggende, alimentate dal proliferare di siti dedicati, sui quali si tenevano in esercizio perditempo informatici di tutti i paesi.
Da quando la Rovina era divenuta il caso di studio d’elezione nei principali congressi sulla fine (la fine della modernità, la fine dell’architettura, la fine del racconto) aveva costituito il terreno di prova dei più ostinati falsari di documenti.
Da principio si trattava di contraffazioni piuttosto rozze, al limite del dilettantesco, sfornate da giovani ricercatori delle università terrestri, ansiosi di pubblicare inediti su un argomento ormai conosciutissimo. Ma, col tempo, veri professionisti della falsificazione, non di rado insospettabili docenti di chiara fama in pensione, cominciarono a sfornare falsi impeccabili che avrebbero sfidato le verifiche più sofisticate. Si finì, così, col dubitare perfino dell’attribuzione dell’opera, mettendo in dubbio l’esistenza stessa dell’architetto che l’aveva ideata, il quale sarebbe stato un personaggio d’invenzione, simbolo fantastico e sintetico di una miriade di contributi che si sarebbero succeduti nel tempo.
Il colpo di grazia alle certezze storiche sulla grande opera arrivò verso la metà del primo secolo del terzo millennio, quando un’ondata di virus autoramificati sì abbatté sugli archivi informatici superando tutti i sistemi di sicurezza che li difendevano, infettandoli in modo irreversibile. Non solo danneggiarono i preziosi documenti sull’origine e le trasformazioni della Rovina, ma li corrosero dal di dentro,deformando e trasformando i significati delle testimonianze nel loro opposto. Non si riusciva più a distinguere il vero dal verosimile, l’autentico dalla copia. Allora si tentò di rintracciare gli originali nel GDC, nel Grande Deposito Cartaceo nazionale. Ma ci si accorse, con orrore, che il contenitore sepolto a gas ionizzato destinato alla loro conservazione era stato violato e tutto il contenuto trasformato in un mucchietto di cenere.
Corviale era così divenuto un luogo virtuale, un’immaginaria regione germinale della cultura occidentale affollata di simboli d’invenzione opposti e deformi, dove ogni comunità ritrovava coesione e confini riconoscendovi, come in uno specchio, le proprie ansie, allucinazioni, speranze.
E nel deserto della memoria cominciarono a sorgere fantasmi e visioni. Paure che sembravano sopite e che attendevano, invece, in agguato nel fondo delle coscienze uscirono urlando alla luce del sole.
I documenti non hanno mai provato, ad esempio, che ci fosse il minimo fondamento di verità nella leggenda della banda di peruviani che avrebbe ammaliato gli ottomila abitanti di Corviale suonando tutta la notte i loro cajòn e flauti di Pan, attirandoli fuori, nei prati bui, per poi massacrarli all’alba, ad uno ad uno, per rubargli la casa.
Alcuni, incerti riscontri di questi fatti sembravano provenire dallo studio della glittica delle antiche migrazioni latino americane, ma si scoprì in seguito che i sigilli rinvenuti nei piani bassi della Rovina non erano che falsi creati ad arte con vecchie macchine a controllo numerico. Nondimeno la storia, per quanto inverosimile, fu presa per vera, e si trasformò in una sorta d’indiscutibile tragedia sepolta nella storia metropolitana utile a giustificare odi inconfessabili seguiti dagli attacchi più vergognosi, le scorrerie più feroci e sanguinarie contro le inermi comunità che si erano rifugiate tra i ruderi.
Allo stesso modo non poggia su alcuna base scientifica la convinzione, pure caparbiamente sostenuta da illustri accademici, che il progetto di Corviale contenesse un anatema genetico o che un incantesimo avesse dilatato la scala della costruzione fino a farla sfuggire di mano agli architetti, come una nuova Torre di Babele in pannelli prefabbricati.
Doktor Sötil, la guida, con la miscela di ovvietà ed arguzia del consumato affabulatore, espose tutto questo velocemente ai visitatori ben sapendo che si trattava, in fondo, di argomenti piuttosto noti.
“Gli elementi principali dei fatti che determinarono la trasformazione di Corviale – aggiunse osservando con imbarazzo la punta dei propri stivali – sono, ad ogni modo, certi.”.
Fingendo di non udire il brusio di scetticismo che le sue parole avevano suscitato, proseguì, indicando le rovine “Questo, cari signori – la voce era divenuta di colpo stentorea – doveva essere l’inizio di una nuova era! Certo, di una nuova era felice! Era stato immaginato come uno smisurato, geniale magnete, la rappresentazione della catarsi delle tragedie urbane del XX secolo. Ebbene, per soli dodici copechi io vi guiderò tra i resti di questo sogno meraviglioso, di questa secolare utopia.”
I turisti, tutt’altro che sorpresi, sfilarono pazientemente davanti all’improvvisato condottiero. Le dodici monete cadevano nella sudicia bisaccia che la guida si era affrettata a spalancare, una ad una, risuonando.
Il gruppo si avviò su per la collina evitando i venditori di infusi e la selva di bambini che si affollavano chiedendo il bakshish.
Entrarono nell’interno semibuio della Rovina squarciato da improvvise lame di luce, attraverso una delle cinque fessure che si aprivano come ferite sulla facciata continua della costruzione. I tralicci, che un tempo sorreggevano i cilindri traslucidi delle scale, si proiettavano sconsolati nel vuoto.
Iniziarono ad aggirarsi, piccoli viventi tra le auguste macerie, quasi con timore, come in un’incisione piranesiana.
La guida mostrava pazientemente quello che rimaneva dei diversi piani, i resti delle cellule abitative che componevano l’immenso organismo e le presunte ragioni del suo declino biologico. Spiegava, con notevole competenza, la differenza tra le case, ormai vuote, poste ai piani bassi e quelle ai piani alti e la probabile funzione del livello intermedio di servizio, il più devastato per essere stato a lungo il terreno di scontro tra le diverse fazioni in cui si erano divisi, nel corso dei secoli, gli abitanti.
Parlava di getto e quasi correva temendo di non terminare prima del buio. Ma si fermò in improvviso raccoglimento di fronte ad un grande vuoto dove resti incomprensibili e muti sembravano testimoniare un antico disastro. Era evidente come alcuni piani fossero crollati già quando la costruzione era abitata (la guida ne attribuì la causa alle disastrose dilatazioni termiche negli anni del Grande Riscaldamento della crosta terrestre) formando una strana cavea circondata da terrazze.
Lo spazio che precipitava tra solai spezzati e monconi di ferro, chiuso in alto, chissà quando, da una copertura di fortuna, aveva generato un singolare microclima che favoriva la crescita di specie vegetali insolite per le nostre latitudini. Come la rara Chamaedorea oblongata, palma da tempo ritenuta estinta, e felci straordinariamente rigogliose, soprattutto inconsuete varianti (ma qualcuno parlava di deformazioni genetiche) della famiglia delle epifite, particolarmente delle Platyceria willinckii. Si era così formato, nel grembo più segreto ed oscuro della Rovina, un curioso orto botanico al quale i visitatori si accostavano sempre con rispetto e timore. Un luogo curioso ed umido, di grande valore didattico, che aveva acquistato nel tempo un proprio pubblico di affezionati frequentatori.
Ma sul fondo buio e fradicio della cavità, mai visitato per secoli da essere umano, si intuiva lo sviluppo abnorme di alcuni vegetali carnivori, mostruosi d’aspetto, che si diceva provenissero da un pianeta misterioso e lontano. I vecchi raccontavano come, molti anni addietro, la Croce del Sud, la nave spaziale più gloriosa e più bella della flotta pontificia, avesse planato lungo la costa del Tirreno con i motori in fiamme, ondeggiando come un uccello ferito, per poi virare di novanta gradi all’altezza di Roma nel disperato tentativo di compiere un atterraggio di fortuna.
La massa gigantesca aveva lasciato un solco di tre leghe lungo la pianura fino a fermarsi, smisurato mostro sbuffante ed esausto, proprio ai piedi della collina. Uno dei motori si era staccato dalla carlinga rotolando lontano e ora giaceva desolato come l’artiglio di un misterioso animale ucciso. Nessuno sapeva da quale viaggio la nave tornasse. Molti testimoni, tuttavia, giuravano di aver visto l’unico sopravvissuto, con il volto ustionato, uscire dal relitto fumante e trascinarsi con un sacco sulle spalle fino al piano interrato della Grande Rovina. Quel sacco avrebbe contenuto i semi delle piante carnivore, come se il superstite, prima di morire, avesse voluto che la vita e la leggendaria epopea della Croce del Sud dovessero, in qualche modo, continuare. Ancora non era noto, comunque, come questo mondo vegetale in continua trasformazione si sarebbe evoluto.
In alto, tra le liane che pendevano dai solai crollati, era stato ricavato un tempietto sormontato da un timpano. La Madonna dell’Ozono vi era raffigurata, al centro, con le mani giunte e gli occhi rivolti al cielo, nell’atto di salvare Corviale, riprodotto in maiolica ai suoi piedi, dalla tragica ondata di calore che si era abbattuta su Roma, uno dei sette flagelli del XXI secolo che aveva distrutto quasi tutta l’edilizia costruita dall’IACP a partire dalla metà del secolo precedente.
Il breve, silenzioso raccoglimento, costituì il necessario intervallo prima di ammirare i resti più appassionanti e discussi: i lunghi percorsi dalle prospettive vertiginose che ribaltavano all’interno dell’edificio il comportamento della città tradizionale del XX secolo, con le abitazioni allineate lungo un percorso pubblico e spazi condivisi per la sosta e il divertimento.
I visitatori si spinsero fino al termine di uno dei percorsi interni, poi si mossero lungo un altro, in senso inverso, fino alla fine. Verificarono con cura, dopo un chilometro di cammino, quello che tutti conoscevano: la strada non portava da nessuna parte. E si chiesero, per l’ennesima volta, come una città potesse iniziare dal nulla e finire nel nulla.
I visitatori attesero, incuriositi, l’interpretazione della guida.
“Per molto tempo si è pensato che l’edificio non potesse finire qui, che il percorso interno dovesse pure portare da qualche parte, come sarebbe stato logico.” Doktor Sötil parlava ora a bassa voce, quasi stesse facendo una confidenza più che dare una spiegazione. “Un percorso senza conclusione era, perfino per i moderni del XX secolo, qualche cosa che ripugnava, contro natura.
Vedete quelle grandi buche? Si è scavato molte volte a ridosso delle testate della Rovina cercando una traccia, una spiegazione ma, ogni volta, senza risultato. Brutus Bernstein, all’inizio del XXII secolo, pubblicò un’ingegnosa ipotesi ricostruttiva che mostrava due gigantesche sfere in calcestruzzo sulle opposte testate dell’edificio. Dovevano essere, secondo l’illustre teologo armeno, i poli, antitetici e complementari, delle percorrenze interne, i quali rappresentavano l’ineffabile armonia delle sfere celesti. Corviale sarebbe stato la riproduzione della Città di Dio, microcosmo concluso e autosufficiente dove una rigida regola monastica avrebbe dovuto governare la vita degli abitanti.
Il glorioso Zetema W. Pecorella coltivò a lungo, invece, la suggestiva congettura che quello che vediamo ora non sarebbe che il moncone, solitario e muto, di un’immensa città lineare che doveva arrivare fino al mare. Per anni devastò con infiniti scavi la piana tra il vecchio quartiere Aurelio e la costa di Castelfutzano alla ricerca di evidenze archeologiche che confortassero la sua avventurosa teoria. Finché un’insurrezione dei contadini che abitavano le terre intorno ai resti di Caval Palocco, esasperati dalle continue perdite del raccolto, non lo costrinse a desistere.
Anni dopo, quando gli uomini riuscirono a riflettere senza pregiudizi sulle due inconciliabili teorie, si capì che si trattava comunque di bambagia storica, di due soluzioni consolatorie al problema, un’ultima, disperata barriera della coscienza che non voleva ammettere l’evidenza: che la ragione non appartiene al Razionale, anche, e forse soprattutto, in architettura.”
Non tutti approvarono le parole piene di convenzionale saggezza della guida, ma ne apprezzavano, col progredire delle spiegazioni, la grande competenza e chiarezza. Solo un rotondo agrimensore del Regno Cristiano del Quebec, ultima isola francofona nel gran mare neocinese, sembrava non capire.
La visita si avviava alla conclusione. L’azzurro del cielo, che appariva di quando in quando tra scale crollate, polverosi scaffali vuoti e vecchi vasi di plastica, si andava trasformando in un bagliore opalescente e diffuso.
I visitatori, esausti per i tanti corridoi, sentieri labirintici e ballatoi percorsi, approdarono al tepore di una taverna posta al settimo livello, dove era prevista una lunga sosta.
Qui, davanti ad un calderone di zuppa fumante, ognuno raccontò a turno i propri corviali.
Jorge Kamut raccontò del palazzo circolare di Gora, dove i saggi si disponevano serenamente nell’apparente armonia turchese dei gironi esterni, i filosofi in quelli cremisi più interni, seguiti dai magistrati, disposti in complessi anelli di celle amaranto, poi dai curatori, ordinati in confuse camerate circolari scarlatte, finché si arrivava al centro misterioso e magmatico, al bianco nucleo polare che conteneva tutte le follie del palazzo, ma anche le sue verità e, quindi, il germe della propria rovina.
Un mongolo dal volto bruciato dal sole, frugando nella memoria, ne rinvenne uno nel centro abbandonato di Buyant-Huaa; un arabo ricordò di aver visto qualcosa di simile costruito sulle macerie di quella che fu la superba città di Doha; un vecchio georgiano ricostruì, con poche, energiche frasi, l’immagine del luminoso falansterio di Suhumi, costruito in basalto dorato sulle rive del Mar Nero e distrutto dalle lotte intestine degli abitanti.
In ogni angolo del mondo, si scoprì dopo ventiquattro racconti, l’uomo aveva cercato di dare forma ai suoi sogni e quanto più aveva creduto nelle proprie utopie, tanto più cocente era stata la sconfitta.
Rimaneva, secondo il programma, l’incontro con un gruppo di specialisti che si stavano occupando del restauro della Rovina e del possibile, cautissimo uso sociale di alcune sue parti di minore rilevanza documentaria. I visitatori indugiarono a lungo sui ballatoi a discutere, eccitati, sull’andamento dei lavori e dove questi potessero definirsi propriamente restauro e dove recupero, dove riuso e dove ripristino o risanamento, ristrutturazione, rifacimento, ricostruzione, rinnovamento, miglioria.
In realtà, sebbene il lavoro da fare fosse immenso, l’attenzione era concentrata da anni esclusivamente su di un singolo pannello di facciata rovinato al suolo., Trasportato con ogni cura in laboratorio, il malconcio elemento era divenuto terreno di scontro tra diversi gruppi di ricercatori, con confronti che investivano complesse filosofie d’intervento.
Quando i visitatori arrivarono in vista dei laboratori, cominciarono ad intravedere le sagome di alcuni tecnici in camice bianco presi da viva agitazione. Si trattava di esperti appartenenti a due diverse scuole di pensiero. Un energumeno calvo con il cranio ornato da tatuaggi floreali, sosteneva urlando che il pannello andava ricostruito a l’identique, fregandosene dei poveri resti del materiale originale; l’altro, un milanese smilzo dagli occhi arrossati, ripeteva, resistendo alla gragnola di improperi, che la rovina andava lasciata deperire così come la natura richiedeva, anzi comandava. Tra urla raccapriccianti, si scambiavano insulti terribili (“tardoromantico”, e anche di peggio) estesi alle reciproche famiglie accademiche e padri spirituali. Altri tecnici, divisi in fazioni, si lanciavano oscure minacce condite da volgari allusioni a turpi inclinazioni sessuali dei relativi maestri.
Mentre la guida, passando oltre, semplicemente fingeva di non accorgersi di quanto stava accadendo, i visitatori compresero che i lavori alla Rovina non sarebbero mai terminati.
Uscirono che si avvicinava la sera. Il sole scendeva, glorioso, dalla parte del mare, enorme disco di titanio incandescente sospeso sulle nebbie che cominciavano a salire dai ruderi dell’aeroporto di Fiumicino.
L’urlo lontano di una sirena ricordava la confusione sulla Terra e le prime stelle, alte nel cielo, il supremo Ordine cosmico.
La grande Rovina, ormai priva di vita, mandava un’ombra lunga e lugubre sul fianco della collina che si andava spopolando.
I visitatori erano saliti all’interno di un lucido torpedone a pattini magnetici e si aspettava solo qualche isolato ritardatario per tornare in albergo.
Finalmente l’ultimo turista si affrettò a salire tenendo tra le mani una scatola di cartone. Aveva comperato per pochi centesimi, dal banchetto di un rigattiere, un’ antica sfera di vetro con dentro un Corviale in miniatura che brillava agli ultimi raggi di luce.
Se si scuoteva la sfera una folata di neve sintetica roteava intorno all’edificio di plastica avvolgendolo in una spirale luminosa.
di Giuseppe Strappa.
in “Corriere della Sera” del 17 aprile 2007
Ingegnere e architetto, aveva passato la vita sognando volte straordinarie, sottili come gusci, che sembrano sospese nell’aria. Ali di gabbiano che si accavallano e lasciano filtrare squarci di luce nella penombra, pareti sinuose come onde che s’inseguono a formare involucri di chiese, mercati, stazioni. Costruiva le sue superfici arditissime in mattoni: una sorta di high tech dei poveri, ai confini del mondo, nell’Uruguay lontano e solitario dove anche il calcestruzzo era un lusso e le vere risorse del costruttore erano la manodopera a basso costo e la terra per fare i laterizi. Eladio Dieste avrebbe potuto essere un personaggio dei racconti fantastici di Gabriel Garcia Marquez, un abitante di Macondo.
L’Uruguay dove Dieste nacque e costruì le prime opere negli anni ‘50, era un luogo nuovo e giovane, dominato dal paesaggio struggente dei palmizi, delle praterie popolate di strani animali, piccoli struzzi, tapiri, armadilli. Una terra vergine dove si poteva guardare alle cose (ai materiali, alle forme degli edifici) con gli occhi curiosi di un bambino, senza il filtro delle mode e gli steccati delle scuole.
Ai nostri giorni, quando i circuiti dei media ci hanno assuefatto alle bizzarrie del superfluo, a forme architettoniche mai viste generate da quell’irrefrenabile bisogno di stupire che si annida nelle società più ricche e annoiate del globo, le forme inconsuete di Dieste suscitano un’emozione insolita perché nascono da necessità pratiche, da problemi costruttivi risolti con una logica rigorosa eppure tanto libera da schemi da sembrare pura fantasia.
In questi giorni a Dieste è dedicata una bella mostra alla Casa dell’Architettura di Roma. Con la nostra città l’ingegnere uruguayano aveva legami sotterranei,
partecipando a quel clima di razionalismo costruttivo nel quale nascevano strutture leggerissime, capaci di resistere grazie alla sola forma, come fogli di carta ai quali opportune piegature conferiscono una sorprendente rigidezza. Era il mondo del “minimo strutturale” che a Roma ha avuto alcuni degli esponenti maggiori, da Riccardo Morandi a Sergio Musmeci.
Ma l’aver colto l’eco di sperimentazioni avanzatissime in un angolo sperduto e arretrato del mondo (l’aver espresso il contrasto tra l’opaca povertà del mattone e la lucida leggerezza delle strutture laminari) conferisce alle opere di Dieste la poesia autentica dell’esplorazione solitaria e appassionata. Il guizzo dinamico delle pareti della chiesa di Cristo Obrero, la sua opera più famosa, non appariva nel turbine di traffico di una metropoli, ma dietro l’asinello che trascina il suo basto, nel tempo immobile di un paesaggio arcaico. Forse per questo la sua ricerca ha acquistato il sapore eroico di un’epopea sudamericana. Ancora si racconta, nel Rio Grande do Sul, la storia del collaudo del mercato di Porto Alegre, quando, a poche ore dal completamento dell’enorme copertura, spessa pochi centimetri ma ampia 42 metri, mentre ancora la malta non aveva acquistato tutta la sua resistenza, Dieste fece salire gli operai sulla volta utilizzandoli come zavorra umana per le prove di carico. Un gesto che potrebbe sembrare di azzardato cinismo se lo stesso progettista non fosse salito per primo, sicuro e sorridente, al centro della struttura.
Dieste è morto sei anni fa circondato dall’aura del maestro. Le ultime foto ce lo mostrano appoggiato ad un bastone, la fronte solcata da un nugolo di rughe e lo sguardo fisso, un po’ folle, come se inseguisse nuovi vortici di superfici gaussiane. Usava dire con orgoglio che anche le sue opere stavano subendo “un buon invecchiamento”, sintomo di un’architettura vitale. Ci lascia, soprattutto, una grande lezione di etica architettonica, il rispetto ossessivo per il lavoro impiegato senza sprechi, nel migliore rapporto possibile tra risorse e risultato, dove la bellezza è espressione, insieme, di intelligenza creativa e sapiente parsimonia.