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LOUIS KAHN E ROMA

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LOUIS KAHN E ROMA
Terminata la stagione dei “maestri” (Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe), quella di Louis
Khan è stata senz’altro la figura più rilevante nel panorama architettonico mondiale
degli anni ’70.
In anni recenti si sta assistendo, a livello globale, a un rinnovato e crescente interesse per la
sua opera, riconosciuta come vero atto di rifondazione dell’architettura moderna.
Una prima fase di tale riscoperta, legata essenzialmente alle vicende umane dell’architetto
americano è stata inaugurata dall’uscita del film My Architect di Nathaniel Kahn (2003); a
pochi anni di distanza il restauro della Yale University Art Gallery (2006) ha riaperto in America
il dibattito su Louis Kahn, al quale hanno fatto ampia eco in ambito europeo la retrospettiva
“Louis Kahn ,The power of Architecture” al NAi di Rotterdam protrattasi poi a Basilea e Oslo ,
il libro di William Whitaker e George Marcus “The houses of Louis Kahn” e il testo, in lingua
italiana di Maria Bonaiti “Louis I. Kahn. 1901-1974” (2013). Il 2012 ha visto inoltre
l’inaugurazione del magnifico Franklin D. Roosevelt Four Freedoms Park, realizzato postumo a
quarant’ anni di distanza dalla morte dell’architetto americano.
Grande attesa sta suscitando, inoltre, l’inaugurazione della nuova ala del Kimbell Museum (uno
dei capolavori di Kahn) progettata da Renzo Piano e prevista per la fine di Novembre 2013.
La maggior parte di questi nuovi studi verte, tuttavia, soprattutto sulle opere del “primo Kahn”
o su quelle incompiute. Si avverte ora, invece, l’esigenza di indagare il fondamentale
rapporto di Louis Kahn con Roma, città che lo ha affascinato con le sue potenti rovine
e che è all’origine del suo nuovo modo di progettare. Roma ha, infatti, influenzato
enormemente Louis Kahn e, a sua volta, Kahn ha condizionato in maniera durevole un’ intera
generazione di architetti romani.
Rispondendo a questa necessità il DRACO, Dottorato in Architettura e Costruzione della
Sapienza di Roma, diretto da Giuseppe Strappa, organizza, con la collaborazione dell’American
Academy in Rome, e con il supporto dei figli di Louis Kahn (il regista Nathaniel, la musicista
Sue Anne, la pittrice Alexandra) e dei più importanti studiosi del tema, la giornata di studio
: “Roma,l’eredità di Kahn” , moderata dagli architetti Elisabetta Barizza e Marco Falsetti.
La prima parte della giornata indagherà le tematiche legate al soggiorno di Kahn a Roma e la
vitale influenza di tale soggiorno sul suo pensiero. Interverranno i figli di Kahn Nataniel, Sue
Ann e Alexandra (in streaming da Philadelphia), e gli architetti, Maria Bonaiti, Giorgio Ciucci,
Paolo Portoghesi, Giuseppe Strappa. Saranno indagati il contesto italiano e romano in cui il
messaggio di Kahn è stato accolto e le diverse forme della sua ininterrotta influenza.
La seconda parte della giornata interesserà gli aspetti più direttamente legati al progetto,
analizzando l’ influenza di Kahn sulla generazione di architetti che per prima ha conosciuto e
indagato la sua opera. Interverranno Franco Purini, Lucio Barbera, Claudio D’Amato, e gli
architetti del G.R.A.U. (Gruppo Romano Architetti Urbanisti) eredi diretti del messaggio
kahniano: Paola Chiatante, Gabriella Colucci, Anna Di Noto, Roberto Mariotti, Massimo Martini,
Pino Milani, Francesco Montuori, Patrizia Nicolosi e Corrado Placidi.
Aula Magna della Facoltà di Architettura, sede di Valle Giulia, Via Gramsci, 53,
Martedì 26 novembre, ore 10.

Due capitali. Nuove architetture in Kazakistan, i casi di Almaty ed Astana

kazak

Due capitali
Nuove architetture in Kazakistan
i casi di Almaty ed Astana
conferenza di
Aizhan T. Akhmedova
Kazakh Leading Academy of Architecture and Civil Engineering
KazGASA_Almaty University
introduce
Giuseppe Strappa_coordinatore Dottorato DRACO
Pisana Posocco_membro del Collegio
dei docenti del Dottorato DRACO
aula Fiorentino, via Gramsci, 53
martedi 12 novembre 2013
ore 15.00
diap sapienza
draco _ dottorato in architettura e costruzione
organizzazione: Pisana Posocco,
Valeriya Klets
progetto grafico: Valeriya Klets

LOCANDINA

ORGANICITA’ FUTURA

 

ORGANICITA’ FUTURA

di Giuseppe Strappa

In Città di Pietra – L’altra modernità, catalogo della X Biennali di Architettura di Venezia, Venezia 2006.

Il tema della sezione “Città di pietra” all’interno della Biennale d’architettura del 2006, ripropone alla riflessione alcuni temi fondanti delle discipline di progetto che sono stati a lungo ritenuti superati senza che alcun dibattito o, almeno, pensiero compiutamente espresso, ne avesse dimostrato la reale inattualità.

Credo che tra questi temi abbia un ruolo centrale, per il carattere fondante che possiede, quello relativo al principio di organismo e organicità, che informa appieno la nozione stessa di architettura mediterranea. Principio che sembra entrare, secondo una critica sbrigativa quanto settaria, in collisione con i portati più evidenti del pensiero contemporaneo: sembrerebbe non contenere e comprendere le radici profonde delle trasformazioni che sono alla base della formazione della città moderna e le modificazioni che determinano le condizioni di crisi della città contemporanea. Sotto questo riguardo il metodo di leggere la realtà costruita come organismo, a partire dal suo processo formativo, viene non di rado considerato, da una parte, strumento di pacificazione e conciliazione delle lacerazioni prodotte dalle trasformazioni dell’ultimo mezzo secolo ottenuto in vitro, nell’universo perimetrato e protetto dei riferimenti alla tradizione, secondo un consolidato luogo comune che vuole leggere la storia come luogo dell’armonia e la modernità come dissonanza, dall’altra una sorta di archeologia del territorio inapplicabile alla città contemporanea, per la quale  l’unica nozione utilizzabile sembra essere quella di “complessità”. Nozione in realtà ormai vaga proprio per essere divenuta, nell’uso, onnicomprensiva: che sembra documentare, ma non spiegare, la contemporanea frammentazione dell’unità formativa dell’architettura della città. Nessuno sembra chiedersi se dissonanze e frammentazioni, il disordine che sembra mostrarsi privo di significato, non siano in realtà lo strato superficiale di cambiamenti profondi, l’aspetto visibile di strutture in formazione, il segno ancora oscuro, come sempre nella storia, del nuovo ordine che sta emergendo.

Non c’é dubbio che le tecniche di progettazione abbiano subito, negli ultimi due secoli, un progressivo fenomeno di astrazione: dalla conoscenza diretta del paesaggio costruito si è passati alla conoscenza indiretta derivata dall’accumulo di riproduzioni del paesaggio reale (descrizioni comunque critiche e dunque inevitabilmente deformate del reale, che pongono un’attenzione “di parte” su alcuni aspetti dell’oggetto descritto, trascurandone altri) fino agli odierni modi di percezione, esclusivamente mediati. La percezione contemporanea, filtrata e indiretta, contribuisce a separare le forme tra loro rendendole autonome, impedendo di cogliere l’intervallo prezioso tra le cose.  Che diviene vuoto.

Siamo dunque di fronte ad una crisi che ha caratteri inediti rispetto alle grandi fasi critiche, di transizione, che hanno percorso fino ad oggi la storia della città e del territorio:  l’interpretazione artificiale e mediatica del mondo si sovrappone alla percezione naturale della realtà, consentendo di “liberare” la forma dal suo alveo concreto, di staccarla dai legami organici che la tengono unita agli altri prodotti dell’antropizzazione del territorio: di proporre forme analoghe a quelle del mondo reale letto nella sua disgregazione ponendo problemi, e questo è uno dei nodi della questione, appartenenti tradizionalmente ad altre discipline “descrittive” che operano di diritto sulla forma staccata dalla realtà. Trascurando così che l’architettura, nella sua essenza, non è descrizione (né imitazione o interpretazione) della realtà: è la realtà. E separando, nello spazio e nel tempo, le forme dalla loro cornice naturale, tranciandone le relazioni reciproche e dunque perdendo la possibilità di leggerne la ricchezza, la complessa necessità reciproca nel grande flusso delle trasformazioni del paesaggio costruito.  L’organicità dell’edificio, della città, del territorio, non risulta leggibile, infatti, nella forma “principale” sulla quale si focalizza l’interesse dell’osservatore, ma nello spazio che è generato dall’incontro, dall’intervallo o dall’ intersezione tra le forme, che dimostra la con-formazione dell’elemento, la sua maggiore o minore predisposizione ad accogliere il rapporto con altri elementi, a disporsi all’aggregazione, a formare unità di grado maggiore.  Spazi che nelle periferie, nei margini conflittuali e irrisolti della città contemporanea hanno acquisito la dimensione di grandi  schegge nelle quali, tuttavia, non si compie lo sforzo di riconoscere la traccia  alterata della forma che precede l’esplosione. Se non si coglie il senso delle polarità delle quali è intersezione, lo spazio ibrido e vago delle periferie finisce col ricadere nel grande mare del pittoresco metropolitano e l’unica spiegazione della forma che assume la complessità finisce con l’appartenere al dominio della statistica: il reale come caso particolare  e fortuito del possibile. La nuova retorica del vuoto  può essere letta, per questa via, come rifiuto della concretezza dello spazio-intervallo tra le forme, prodotto dell’indagine analitica delle molte espressioni della città e del territorio che riduce ogni oggetto a frammento, ogni forma a rovina, ovvero resto di un processo di mutazioni separato dalla propria dimora organica (si vedano in proposito le anticipatrici considerazioni di Paul Virilio sulla dematerializzione del paesaggio urbano e l’irruzione di tecnologie dell’immagine virtuale in L’orizon negatif,  Paris 1984).

In altri termini, il contributo della nozione di organismo alla lettura della città contemporanea ritengo  possa consistere in un richiamo, critico e vitale, alla realtà: nel dimostrare come non esista il vuoto se non nel modo contemporaneo di percepire il mondo come dematerializzazione della realtà fenomenica, nell’immagine astraente che separa lo spazio dai propri contorni, i quali in realtà lo in-formano, danno aspetto riconoscibile, nella loro interezza, a sequenze di strutture e processi operanti, altrimenti invisibili.

Mi sembra che la leggittimità di questo contributo sia messo in crisi da quattro condizioni al contorno che sembrano vanificare ogni sforzo di aggiornamento della nozione di organismo.

1. A conforto delle tesi sull’obsolescenza della nozione di organismo si aggiunge oggi una nuova, evidente  condizione, mai sperimentata prima d’ora in termini tanto estesi, di enorme abbondanza di risorse disponibili nel mondo occidentale. Condizione che ha inciso profondamente anche nel modo di concepire l’economia dell’architettura col rendere meno stringenti alcune fondamentali necessità nei rapporti interni tra parti dell’organismo architettonico e urbano.

Da tempo il termine “consumismo” è entrato nel novero delle parole abbandonate, retaggio innominabile di un sociologismo polveroso. La spiegazione è semplice:  in realtà la logica onnivora del consumo (unitamente a quella ad essa inevitabilmente collegata della competizione) è talmente connaturata alla condizione contemporanea da essere divenuta invisibile alla critica, da costituire il vero terreno di coltura e di confronto dell’innovazione in architettura.

Con effetti, peraltro, spesso dannosi, come nel caso della costruzione dellaTrés Grande Bibliothéque di Parigi, il cui progetto, come nota J.M.Mandosio (L’effondrement de la Trés Grande Bibliothéque, Parigi 1999), si adegua con tanta partecipazione alle richieste di “spendibilità” politica dell’immagine, da  lasciare irrisolti i problemi legati alla natura stessa dell’organismo architettonico.

Il limite antimoderno ma anche, allo stesso tempo, la forza stessa del metodo progettuale legato alla nozione di organismo, risiede nella sua attitudine esemplificativa e dimostrativa della realtà, nel prefigurare un mondo di regole depurato e semplice (simplex  come contrario di multiplex) : un processo di riduzione critica della realtà dunque che, come tale, contiene allo stesso tempo, si noti, complesse scelte interpretative e programmatiche. La “semplificazione critica” prende atto della complessità-multiformità del costruito e si pone, in questo senso, non diversamente da ogni ipotesi scientifica, come risultato di un atto di selezione: la possibile sintesi unificante ricercata in quanto la realtà costruita contiene di tipico e generalizzabile, come uno strato geologico profondo che si modifica con lentezza al di sotto del flusso delle improvvise e caotiche trasformazioni superficiali. Forzando un po’ la mano possiamo dire che, come in qualsiasi testo, noi leggiamo nella città e nel territorio quello che vogliamo e possiamo leggere (in questo senso la lettura non è mai neutrale ma è, essa stessa, progetto). Se si osserva la realtà costruita con l’ottica cui abbiamo fatto cenno, non è difficile riconoscere come sopravviva, potente, un sostrato culturale che induce all’uso di forme e tecniche costruttive  specifiche e differenziate all’interno di aree che hanno sviluppato, storicamente, caratteri comuni: ancora, e di nuovo, sono oggi riconoscibili i diversi aspetti, perfino nella sperimentazione architettonica, tipici delle aree a tradizione elastica e di quelle a tradizione plastica dando luogo ad una possibile individuazione di caratteri, se non omogenei, almeno leggibili con una certa costanza, interni alle aree di tradizione seriale e gotica (non solo nordeuropee ma anche nordamericane) e di tradizione organica e mediterranea.

Funzione ordinatrice e semplificatrice, si diceva, la quale costituisce, si badi, tutt’altro che la banalizzazione dei dati della realtà. Al contrario la semplificazione rappresenta l’atto complesso di riconoscere la struttura portante del problema che permette di superare l’accessorio, il dettaglio, il complemento secondario destinato ad uniformarsi (a comporsi in unità) secondo la traccia generale disegnata nell’insidioso groviglio di segni che ogni paesaggio contemporaneo contiene. Metodo che ha pieno diritto, ritengo, a rivendicare una possibile attualizzazione: la lettura dell’esistente non può, in realtà, oggi, avvenire nella “piena innocenza” della pura constatazione, per le molte conseguenze che il modo di leggere e progettare la città per parti (e la città letta “per frammenti” non ne è che la conseguenza estrema) ha avuto sullo sviluppo disastroso della città europea degli ultimi quarant’anni.

2. E’ evidente che la diffusione a rete degli scambi e la globalizzazione dell’informazione  sono tra i fenomeni contemporanei quelli che possiedono, insieme ad una grande forza di suggestione, le maggiori potenzialità di trasformazione della vita urbana; e tuttavia, nonostante le teorie più aggiornate vi facciano continuo riferimento, non sembra essere stata elaborata alcuna proposta credibile che metta in relazione tali fenomeni con la possibilità del controllo progettuale della realtà costruita, né alcun disegno di architettura è riuscito ad includere, se non attraverso la suggestione dell’immagine analogica, l’innovazione delle mutazioni della comunicazione diffusa.

La quale ha già prodotto da tempo, peraltro, i suoi effetti traumatici nella vita quotidiana con l’introduzione delle reti telefoniche, seguita dalla diffusione del fax e della posta elettronica. In realtà l’architettura possiede una sua non eliminabile fisicità in grado di accogliere soprattutto le mutazioni che riguardano l’ambiente fisico. Molto più delle nuove forme di comunicazione immateriale, i cambiamenti indotti dalla “fisicità” delle forme di trasporto meccanizzato hanno contribuito all’aggiornamento degli edifici, dei tessuti, delle strutture del territorio. Si pensi, a fronte dell’ impatto relativamente scarso prodotto dall’uso del telegrafo o della posta pneumatica, alla rivoluzione operata dall’ introduzione dell’ascensore nella forma degli edifici. L’edificio specializzato seriale assumeva, tradizionalmente, la forma di un tessuto nel quale veniva operato un ribaltamento dei percorsi all’interno (il palazzo, ad esempio, il convento e gli infiniti tipi edilizi da essi derivati).  Rispetto a questi percorsi tradizionali, soprattutto orizzontali, i vani scala non potevano che porsi, per la brevità del loro sviluppo, come prosecuzione o comunicazione tra percorsi e la cui lunghezza veniva limitata da evidenti ragioni antropiche. Con l’irruzione del trasporto meccanizzato il vano ascensore diviene un vero e proprio asse che individua un percorso verticale sul quale si impiantano, seppure instabilmente,  percorsi secondari orizzontali che distribuiscono i diversi piani. Viene così ricostruita, in verticale, la logica della gerarchizzazione delle percorrenze di un tessuto, aprendo fisicamente una terza dimensione all’incremento dell’organismo aggregativo: con le dovute cautele e revisioni, la processualità  formativa delle torri nella metropoli contemporanea, permette ancora di riconoscere la presenza della nozione, aggiornata, di tessuto.

Si pensi poi, passando dalla scala dell’organismo edilizio a quella dell’organismo urbano e territoriale, all’innovazione costituita dall’introduzione delle linee tranviarie e metropolitane, delle reti ferroviarie, fino all’attuale meccanizzazione totale: da un luogo della terra all’altro il viaggio avviene oggi solo attraverso la mediazione della macchina (l’auto o il treno metropolitano, il nastro trasportatore, la scala mobile, l’aereo e poi di nuovo la scala mobile, il nastro trasportatore, il treno metropolitano o l’auto) in una sequenza razionale di percorsi che acquisisce un proprio carattere (riconoscibile e programmabile) distributivo, spaziale, estetico. Accanto a questi fenomeni riconducibili entro l’alveo generale del processo di mutazione dei caratteri tipici della città e del territorio, gli altri fenomeni dovuti alla formazione delle reti di comunicazione immateriale (il decremento nella gerarchizzazione dei centri o de-centramento; l’instabilità del rapporto tra attività produttiva e luogo, o de-localizzazione) intervengono come indicazione generale che non può essere articolata in tutta la sua imprevedibile complessità. La quale deve essere ridotta alla sua essenza di orientamento, alla previsione di comportamenti “elastici” ma, riteniamo,  non labili.

All’interno della tendenza largamente diffusa alla mitizzazione estetica della contemporanea congestione della metropoli e del territorio, la diade progetto – realtà si può quindi riconoscere nella coppia di  termini contrapposti e complementari semplificazione – complessità, dando origine alle due nozioni di realtà semplificata e complessità progettata dove la prima indica la conoscenza della funzione critica non solo del progetto, ma anche della lettura di cui il progetto è parte costituente, mentre la seconda si associa al ruolo astraente del progetto contemporaneo, che tende a proporre come fine dell’architettura non lo scioglimento (o almeno il razionale controllo) della complessità intesa come multi-forme (come forma multipla nella quale riconoscere l’unità di grado superiore) ma, come cercherò di chiarire, la sua comprensione generale, l’espressione sintetica dell’ unità frammentata come plesso inestricabile.

3. In questo senso le teorizzazioni dei ricercatori della complessità (il cui fitto stuolo di più o meno dichiarati epigoni ha contribuito in modo rilevante alla contemporanea dispersione del ruolo dell’architettura e dell’architetto) si pongono come cosciente lettura semplificata della realtà alla quale fa seguito un artificioso progetto della complessità.

Tutte le contraddizioni economiche e sociali che hanno condotto alla formazione della metropoli contemporanea come gigantesco nodo territoriale inestricabile, terribile ed affascinante, vengono colte sinteticamente e semplicememte nel loro valore estetico di individuazione dei caratteri estremi della complessità urbana, da riproporre con gli strumenti della descrizione, e quindi fondamentalmente letterari, nella progettazione del nuovo, anche in aree culturali dai caratteri radicalmente diversi.

La Manhattan della Delirious New York raccontata da Koolhaas, non a caso, è il luogo deputato alla trasformazione permanente che contiene non solo l’immagine della mutazione, dell’irrazionalità e dell’utopia, ma anche  degli strati  di architetture possibili, layers  di progetti abortiti che costituiscono possibili alternative alla realtà costruita. L’ interpretazione critica e processuale che la “cultura della congestione” in qualche modo contiene, mette in evidenza la crescita programmaticamente antiorganica della metropoi contemporanea,  l’estremizzazione delle sue matrici seriali, lo sviluppo per addizioni continue in conflitto tra loro.  Ma la critica di Koolhaas contiene, anche, la presunzione di progettare la casualità del molteplice letto nei suoi frammenti separati: l’evocazione della complessità dei suoi primi progetti per Le Havre, Lille, Karlsruhe, finisce per divenire il gesto del samana , per apparentarsi al rito taumaturgico che media forze irrazionali, misteriose, incontrollabili. Perduta la pertinenza con la propria fase storica e con la propria area culturale (tolte dal loro tumultuoso contesto economico e antropico) le forme delle torri-grattacielo si trasformano in oggetti di evocazione,  non dissimili, in fondo, dalla (ormai) nostalgica imitazione di modelli e comportamenti lontani e mitizzati, diffusi in Europa almeno a partire dal secondo dopoguerra. Una tecnica di seduzione, evocatrice di un mondo nuovo della densità e dell’accelerazione, dove le contraddizioni sembrano di volta in volta, illusoriamente e paradossalmente, sciogliersi per eccesso di concentrazione.

Ma non è affatto detto che l’architettura del futuro, sulla scia, in fondo, delle visioni che da Jules Verne a Le Corbusier, da Marinetti a Robert Moses hanno percorso l’immaginario occidentale moderno, dovrà prendere le forme del mondo della velocità, della macchina, dell’intensificazione dei flussi. Ne’ che il fascino della scoperta del caos latente nell’Universo, delle nuove teorie scientifiche che ipotizzano l’indeterminatezza del rapporto tra causa ed effetto, sia qualcosa di più che una giustificazione vaga ed effimera di una frammentazione (di una perdita della capacità di leggere il generale negli infiniti particolari che la realtà di continuo propone) che ha invece ragioni interne alla crisi di trasformazione che l’architettura  periodicamente subisce nei momenti di grande passaggio epocale.

E’ invece possibile che, passata  l’euforia analogica e lo stupore per i cambiamenti in atto, l’architettura della città futura, sulla scia della grande tradizione mediterranea, aggiornata dal portato dei tempi, risulti fondata sull’aggregazione di grandi vani vuoti capaci, anche, di contenere il fragore dei grandi flussi di una popolazione instabile, rumorosa, migratoria senza per questo inseguire un’impossibile adeguamento ad ogni cambiamento in atto: tutto quanto è destinato a seguire una mutazione, non può che prescindere dalle forme della mutazione stessa, dovendo possedere una solidità di grado superiore, capace di ospitare l’incognito. Il naufragio dei miti della “dimensione umana”, delle tante macchine per abitare, curare, riunire disegnate dagli architetti, ha mostrato, oltre ogni ombra di dubbio, la necessità di separare il mutevole, l’accessorio, il transeunte (la parte mobile e fragile del costruito) dalla solidità della pietra che sostiene e separa.  Per questo le nostre città torneranno ad essere, nell’organicità dei loro caratteri, città di pietra, anche se la pietra sarà sostituita da altri materiali a carattere murario (in questo senso l’architetto contemporaneo è il primitivo del nuovo millennio il quale, di fronte delle nuove materie che la scienza e l’industria gli propongono, tenta di riconoscerne faticosamente i caratteri, il processo attraverso il quale la materia nuovissima può essere  trasformata in materiale.

Questa architettura (della quale sembrano già emergere i segni di un’inaugurale poesia) darà i suoi prodotti esemplari, non diversamente dalle basiliche e dai fori dell’antichità mediterranea, proprio nelle grandi infrastrutture a contatto con la velocità e con la macchina: nelle fabbriche dove una tecnologia in continua evoluzione non permette alla forma di adeguarsi a funzioni provvisorie, in continuo mutamento, ma soprattutto nei grandi nodi di scambio territoriale. In tutti quei luoghi, in altre parole, dove la complessità deriva dalla mancanza (dall’impossibilità) di riconoscimento dei nessi tra le cose: riconoscere l’aeroporto (ma anche la stazione della metropolitana, lo scalo dei container ecc.) come nodo di una struttura di percorrenze risulta infatti impossibile di fronte alla mancanza di visibilità fisica della rete di trasporto. E tuttavia sarebbe semplicistico leggere l’aeroporto come frammento, le stazioni delle subways  come tessere disperse nel flusso delle trasformazioni urbane. L’architettura dovrà farsi carico, al contrario, anche del non visibile, dell’organicità non direttamente leggibile che lega gli aeroporti tra loro, come pure le stazioni delle metropolitane e i nodi dell’alta velocità. Non è un caso che le nozioni di organismo e  tipicità riemergano proprio nei contesti dai quali, come espressione riconosciuta della modernità, dovrebbero essere più lontane.

4. Ultimo e consolidato aspetto della questione che prenderemo in esame: la pretesa obsolescenza della nozione di tipicità, strettamente connessa a quella di organismo, a fronte del vortice del cambiamento nei processi produttivi insorto con la modernità ed esasperato dalla crisi contemporanea.

Forse occorrerebbe riflettere, più di quanto non sia stato fatto fino ad ora, sulla permanenza della nozione di tipo nell’architettura moderna: gran parte della didattica e della produzione storiografica contemporanee continuano a proporre l’architettura moderna come risultato di una grande koinè innovatrice la cui coesione era basata su una sorta di eroica negazione del tipo.

Questa negazione, ultima difesa di un tenace individualismo tardoromantico, effettivamente latente in molti manifesti della modernità, era in larga parte dovuta alla condizione di crisi indotta dall’irruzione della macchina, considerata come innovazione improvvisa che causa il mutamento fulmineo, la rivoluzione estesa ad ogni campo delle attività umane, e quindi, anche al carattere degli edifici.

Orbene, considerando la macchina, anche nella sua versione aggiornata di hardware, sotto un diverso, più realistico punto di vista, non si può non riconoscere il suo evidente contenuto tipologico.

Consideriamo, ad esempio, il divario tra ruolo dell’aeroplano nell’immaginario moderno e la sua essenza fenomenica di prodotto industriale. Dal paragone fra il processo di mutazione dei tipi di edificio e dei tipi di aeroplano nascono sorprendenti analogie: non esiste aereo che sia stato totalmente inventato, ma famiglie di aeroplani dove ogni nuova macchina costituisce un aggiornamento della macchina precedente: si pensi alle grandi famiglie di macchine abitate, ai Latécoère, ai Caproni ammirati da Le Corbusier, ognuna deposito di esperienze e innovazioni, piccole e grandi modificazioni, specializzazioni successive. E, poi, alla trasformazione dei materiali: accanto agli esperimenti, nella produzione corrente, negli edifici come nelle macchine, i cambiamenti improvvisi nei materiali non portano immediatamente a forme nuove: aerei costruiti dapprima in legno e successivamente in metallo rimangono pressoché identici per un tempo relativamente lungo, mantenendo i caratteri del tipo, poi aggiornato sviluppandone nuove potenzialità. Ogni tipo è così pertinente alla propria fase storica: il tipo sperimentale, assolutamente innovativo, non può trovare applicazione che nell’ambito ristretto del laboratorio. Negli anni ’30 è stato costruito, negli Stati Uniti, dalla Douglas, un aereo straordinario, realizzato a seguito di un’inchiesta sulla domanda di innovazione nei trasporti, che conteneva tecnologie degne di una macchina degli anni’70. Eppure, nonostante il costo di sviluppo avesse raggiunto i 30 milioni di dollari,  questa macchina  non è stata immessa sul mercato poiché le condizioni tecnologiche ed economiche, la cultura tecnica, l’intero contesto nel quale avrebbe dovuto operare,  non consentivano di recepire la rivoluzione proposta.

Se si prescinde dalle semplificazioni di una storiografia di parte, i documenti della vicenda italiana dell’ architettura moderna mostrano, peraltro, come fosse evidentissima la coscienza del limite culturale e storico dell’innovazione anche nel processo di identificazione tra edificio e macchina.

Basterà rileggere, in proposito, alcuni passaggi del manifesto pubblicato nel 1926 dal Gruppo 7, una delle prime teorizzazioni italiane dell’architettura moderna: “Le nuove forme dell’architettura dovranno ricevere il valore estetico dal solo carattere di necessità,e solo in seguito per via di selezione nascerà lo stile. Si è detto per selezione,questa parola sorprende. Aggiungiamo: occorre persuadersi della necessità di produrre dei tipi,pochi tipi fondamentali. Questa necessaria, inevitabile legge incontra la più grande ostilità,la più assoluta incomprensione. Ma guardiamoci indietro,tutta l’architettura di Roma nel mondo è basata su 4 o 5 tipi e tutta la sua forza sta nell’aver mantenuto questi schemi,ripetendoli e perfezionandoli per selezione,appunto. Ma l’idea della casa tipo sconcerta, spaventa,suscita i commenti più grotteschi e più assurdi. Si crede che fare delle case tipo, in serie, significhi meccanicizzarle, costruire edifici che somiglino ai piroscafi e agli aeroplani. Deplorevole equivoco,nell’architettura non si é mai pensato di ispirarsi alla macchina. L’architettura deve aderire alle nuove necessità come le macchine moderne nascono da nuove necessità e si perfezionano con l’aumentare di quelle. La casa avrà una sua nuova estetica, come l’aeroplano ha una sua estetica,ma la casa non avrà quella dello aeroplano”.

Passaggio che, mi sembra, possa costituire in questo contesto non solo lo scioglimento di un equivoco ancora persistente  nel dibattito in atto, ma anche la prefigurazione, assolutamente limpida, di un’alternativa, di una via organica e processuale alla deriva estetizzante e tardoromantica dell’architettura contemporanea.

LETTURA DEL TERRITORIO

PROF. GIUSEPPE STRAPPA

 

1. IL TERRITORIO COME ORGANISMO

Il territorio è architettura nel suo significato più pieno.
Esso nasce dalla collaborazione tra uomo e natura.
La derivazione etimologica del termine (da terra contrapposto al termine mare) contiene la nozione di luogo abitato, quindi trasformato, costruito e ricostruito dalla mano dell’uomo, contrapposto a quella di luogo inabitato.
Il territorio è anche una grande eredità civile, un patrimonio nel quale sono inscritte le scelte e le trasformazioni operate dalle popolazioni che vi sono vissute. Per questo ogni intervento a questa scala obbliga alla comprensione dei caratteri che possiamo conoscere attraverso la sua forma, sapendo che questa forma è l’esito riconoscibile di un processo in atto.
Essendo il territorio costituito da parti collaboranti, è possibile leggerlo attraverso la nozione di organismo, cioè di insieme di elementi, strutture, sistemi legati da un rapporto (variabile nel tempo) di necessità. E come in ogni organismo è possibile riconoscere nel territorio fasi e cicli storici che ne determinano la formazione, la trasformazione, la frammentazione, la rovina.
Quella di organismo territoriale come luogo abitato costituito di parti collaboranti (percorsi, insediamenti, aree produttive) è, dunque, una nozione complessa che sintetizza i processi analizzati a tutte le scale minori: organismo edilizio, organismo aggregativo, organismo urbano.
Il concetto di territorio deriva dal nesso che lega l’idea di suolo naturale a quella delle trasformazioni artificiali operate dall’uomo nel processo di antropizzazione (trasformazione abitativa e produttiva) del suolo stesso. Noi cogliamo questo processo attraverso momentanei stati di equilibrio che  restituiscono un’idea discreta di una sequenza storica che è, invece, flusso continuo di modificazioni e rivolgimenti.
Per questo non è comprensibile il senso storico-processuale di un organismo urbano o di un sistema di percorrenze, se non si colloca la loro formazione all’interno di un rapporto di necessità con l’insieme delle relazioni instaurate nel tempo e nello spazio entro il proprio intorno territoriale. Questa forma del territorio antropizzato non é che l’aspetto visibile di una struttura di relazioni che lega nella nozione di organismo i diversi gradi scalari del costruito e che indicheremo col termine “paesaggio”.
L’organismo territoriale si forma e sviluppa secondo processi differenziati storicamente ed arealmente che possiedono, tuttavia, una loro tipicità, al pari di ogni altro esito del processo antropico. Si può parlare dunque di “tipo territoriale” come insieme dei caratteri fisici processualmente ereditati (patrimonio) comuni ad un intorno storico-geografico, ovvero come insieme delle nozioni e scelte insediative comuni che determinano il complesso delle operazioni di trasformazione del luogo naturale in luogo abitato.
Questa tipicità di comportamento si individua (assume caratteri individuali, unici, irripetibili) nelle trasformazioni reali del suolo determinate nello spazio e nel tempo in funzione di variabili naturali (sistema oro-idrografico, natura geologica del suolo ecc.) e storiche (in relazione, cioè, ad una determinata fase civile). Grazie alla nozione di tipicità è possibile riconoscere il maggiore o minore grado di organicità di un territorio, il quale può essere costituito anche da elementi relativamente autonomi e seriali, che comunque risultano polarizzati da un ordine formativo (dislocativi) più generale, insito nella nozione stessa di organismo.
A somiglianza di quanto avviene nel primo e più elementare dei processi di trasformazione antropica, cioé della materia in materiale, anche l’ultimo e più complesso fenomeno di trasformazione del suolo naturale in suolo abitato é relazionato a scelte operate attraverso un processo di selezione e specializzazione.

–    la selezione (da seligere, scegliere) deriva dalla coscienza della differenza tra le cose e dal riconoscimento della loro idoneità ad essere utilizzate e trasformate. L’operazione di selezione è qui intesa come scelta dell’attitudine di un suolo ad essere percorso, ad essere trasformato per uso abitativo o produttivo; potrebbe essere identificata come momento logico nel rapporto di collaborazione tra uomo e natura, quello attraverso il quale vengono valutate le diverse possibilità degli elementi componenti ad essere utilizzati, eventualmente dopo convenienti trasformazioni;

–    la specializzazione, è l’attività di restringere e trasformare i caratteri di una cosa per renderla adatta a particolari finalità. Deriva dall’individuazione del rapporto di complementarità e necessità tra le cose. L’operazione di specializzazione è qui intesa come trasformazione di parti di suolo in funzione dei particolari ruoli che devono svolgere all’interno dell’organismo territoriale. Gerarchizzandosi, ad esempio, i percorsi assumono caratteri e qualità diverse in relazione al rapporto che instaurano con l’insieme del territorio. In questo senso la stessa costruzione che, se vista sotto il solo aspetto tettonico può essere considerata trasformazione finalizzata di materia, può qui essere intesa secondo la diversa ottica di modificazione specializzata di una porzione di territorio. La specializzazione può essere identificata come momento tecnico-economico nel processo di antropizzazione del territorio, quello nel quale interviene la finalizzazione individuale, cui succederà una finalizzazione collettiva e una sintesi organica leggibile.

Queste operazioni possono essere lette attraverso una prima, fondamentale diade di termini opposti e complementari composta da “insediamenti” e “percorsi”, legati al moto ed alla sosta in funzione dei bisogni primordiali dell’uomo di proteggersi e alimentarsi.
Da quanto esposto si riconosce al termine “insediamento” il significato di struttura provvisoria o stabile costituita da un insieme di abitazioni relazionate organicamente ad un’area complementare produttiva. Potremmo pensare i primi insediamenti provvisori, come appartenenti alle civiltà dei cacciatori e raccoglitori, seguiti da insediamenti semistanziali, legati alle prime forme di coltivazione o allevamento, dove la nozione di dimora (etimologicamente derivata da de-morari, indugiare, con il senso di permanenza in un luogo) viene associata più stabilmente a quella di area di pertinenza. Il possesso di un’area é dovuto, in origine, all’appropriazione causata dal lavoro  che vi veniva svolto con maggiore o minore continuità. E’ da ritenere, a questo riguardo, che le prime, embrionali forme stabili di aree di pertinenza possano essere associate alle trasformazioni antropiche dell’età neolitica, con la diffusione delle coltivazioni, soprattutto cerealicole, dovuta all’esigenza di superare l’instabilità della semplice raccolta sporadica.
Ma la definitiva nozione di associazione di un suolo alle strutture costruite dall’uomo per utilizzarlo, e cioé alle modificazioni antropiche stabili, é da ricercare in quelle fasi storiche e in quelle aree dove la necessità di continua manutenzione del suolo comportava una maggiore consuetudine tra lavoro dell’uomo e area produttiva, come nei territori dove le condizioni per la coltivazioni dovettero essere prodotte artificialmente attraverso sistemi di irrigazione permanenti  che comportavano tanto una collaborazione organica tra opere artificiali e suolo naturale quanto una collaborazione organizzativa e specializzazione tra gruppi di lavoro all’interno della comunità agricola.
Questo atto di addomesticamento delle condizioni naturali del suolo, comportando trasformazioni da operare sulla natura semplicemente “incontrata”, implica infatti non solo una scelta insediativa, ma anche la chiara coscienza dell’appartenenza di un suolo alla comunità che lo lavora.
E’ un passaggio culturale che avviene gradualmente attraverso fasi successive di semistanzialità.
Nella conquista della coscienza di identità sociale (il riconoscimento dell’appartenenza al gruppo) collegata alla coscienza di identità territoriale (il riconoscimento di un suolo di pertinenza, più o meno esteso, appartenente al gruppo) consiste l’origine profonda  della natura conflittuale delle trasformazioni territoriali. Natura conflittuale che, evidentemente, non é solo,come potremmo oggi dedurre dalla pura osservazione dei fenomeni di frammentazione in corso, un portato della modernità (della formazione delle grandi periferie urbane, dell’aggressione della speculazione edilizia alla condizione di equilibrio che le nostre generazioni avrebbero ereditato) ma conseguenza dello stesso processo formativo della nozione di “pertinenza”  .
L’appropriazione dell’area avviene progressivamente col consolidarsi della stabilità della dimora e del rapporto di uso produttivo col suolo: dall’ allevamento brado al pascolo, dall’area di caccia alla riserva, dall’area di raccolta al suolo pubblico (in età storica l’ager publicus  romano o il legnatico  medievale). A partire da questi processi si svilupperà una partizione delle proprietà pubbliche e private progressivamente associate al costruito quanto più l’area mostrerà sucettibilità insediativa, dando origine al concetto giuridico di proprietà del suolo fondamentale nella dialettica formativa dell’assetto del territorio.
Processi che lasciano, ovviamente, un loro segno visibile sul territorio il  qulae, per questa ragione, può essere considerato nel suo aspetto fondamentale di “documento”.
Con il passaggio dall’allevamento brado al pascolo si consolida, infatti, la nozione di recinto  associata a quella di area di pertinenza nella doppia funzione di protezione e contenimento: le palizzate del neolitico avevano tanto lo scopo di proteggere quanto di impedire la fuga.
La coltivazione, inizialmente costituita soprattutto da cereali, rappresenta una rivoluzione antropica anche per la necessità di specializzazione dell’abitazione che comporta, dovendosi assicurare, associato allo spazio per la vita domestica, le strutture per la conservazione del raccolto, spesso, nelle aree eurasiatica e nordafricana, nella forma specializzata di silos circolari . Ma il processo di progressiva organicità del territorio matura solo con l’integrazione tra le diverse concause che originano la strutturazione antropica: integrazione non progrediente in modo continuo, anzi, ciclicamente conquistata e riperduta. Delle relazioni  tra queste componenti che tendono a stabilire un rapporto organico tra loro,  alcune hanno valore fondamentale e la relativa cartografia acquista particolare valore per il progettista:
– quelle connesse alla produzione, e cioé tra insediamenti, attività agricola ed allevamento. Solo quando l’integrazione tra fertilizzazione del suolo e produzione di foraggio per l’allevamento si sviluppa in modo continuo, si può parlare di organismo produttivo associato al territorio. Associazione che diviene complessa, ma ancora processualmente leggibile, con la rivoluzione industriale. La contemporanea cartografia dell’ uso del suolo semplifica e riduce i poli e le aree di attività produttiva. Si veda come esempio la cartografia dell’Istituto Geografico Militare al 50.000 (alla fine del XIX secolo scorso) e al 25.000 (nel XX secolo).
– quelle connesse alla proprietà, e cioé tra suoli pubblici e privati. Solo quando viene stabilito e regolamentato l’uso dei suoli a disposizione della comunità integrati ai fondi privati, si può parlare di organismo fondiario (v. più oltre l’esempio del sistema a centuriatio). La cartografia catastale contemporanea semplifica la rappresentazione del territorio indicando i soli confini di proprietà alle scale 2.000 o 1.000.
Riguardato come organismo il territorio risulta composto, per la definizione generale data,  da insiemi di strutture riconoscibili come concorrenti al medesimo fine, ma non autonome: segnatamente, per comprendere il processo formativo dell’organismo territoriale, occorre prendere in esame il  sistema viario o sistema delle percorrenze, e quello strettamente correlato degli insediamenti , o sistema insediativo e, in seguito, una volta esaminato l’impianto generale, anche il sistema della partizione delle proprietà del suolo, o sistema fondiario, e il sistema, strettamente correlato, della utilizzazione delle risorse naturali (aree agricole e manifatturiere) o sistema produttivo, che si formano in una fase storicamente più matura del processo di antropizzazione del territorio.
Questi sistemi non svolgono compiti astrattamente di collegamento, di abitazione e produzione, ma sono inscindibilmente collegati, oltre che tra loro, al relativo sistema oro-idrografico da relazioni organiche: un promontorio naturale, separato da due displuvi, costituisce un primo intorno nel quale l’uomo riconosce caratteri specifici, trova un’identità tra gruppo e suolo naturale, così come, in una fase successiva, un bacino idrografico, isolato da confini orografici difficilmente superabili, costituisce la sede di sviluppo di un’area culturale relativamente omogenea per la facilità degli scambi interni che consente. Questi quattro sistemi, benché strettamente integrati, sono inoltre polarizzati per diadi: non solo storicamente, ma anche logicamente percorrenze e insediamenti costituiscono a loro volta sottosistemi di un sistema di maggiore complessità all’interno dell’organismo, così come fondi e strutture produttive possono essere riguardati come formanti un unico sistema unitario.

2. LETTURA E RAPPRESENTAZIONE DEL SISTEMA DELLE PERCORRENZE, DEGLI INSEDIAMENTI, DELLE AREE PRODUTTIVE

La cartografia è una rappresentazione simbolica di una porzione di territorio: come tale essa costituisce il risultato di una riduzione critica delle nozioni dedotte dall’osservazione del territorio stesso, comunicate attraverso forme simboliche.
Il simbolo (dall’indoeuropeo symballein, unire, mettere insieme), a sua volta, esprime in modo sintetico diverse nozioni considerate fondamentali: esso è dunque frutto di una scelta e di una selezione. Per questa ragione lo strumento cartografico (i simboli e la struttura che lega i simboli tra loro) è in diretta relazione con l’idea che l’autore ha espresso, all’interno di un’area culturale e di una determinata fase storica, del territorio che ha rappresentato.
Come è possibile tracciare le linee di un processo di trasformazione del territorio, così è possibile tracciare le linee di un processo di trasformazione degli strumenti cartografici. Il quale testimonia non solo (e non tanto) le mutazioni dei caratteri del territorio stesso, ma, soprattutto, la conoscenza e coscienza che, nelle diverse fasi storiche e nei diversi intorni civili, l’uomo ha avuto dell’ambiente costruito contemporaneo o del passato.
La Tabula Peutingeriana riporta soprattutto una struttura di percorsi; nell’atlante dell’Italia di Giovanni Magini (1620) non compaiono quasi i percorsi di terra; in una moderna carta automobilistica la rete stradale prende il sopravvento sulla rappresentazione degli altri dati osservabili sul territorio; la pianta di una metropolitana, infine, è soprattutto il disegno simbolico ed astratto di una rete, senza rapporto diretto con le dimensioni fisiche delle distanze tra i poli collegati.
Per il progettista, al quale occorre leggere il territorio in modo attivo, avendo come fine l’intervento, è dunque fondamentale estrarre con coerenza le informazioni dalle cartografie disponibili.
Questa coerenza costituisce il legame tra soggetto e oggetto della lettura territoriale: tra quello che il progettista cerca attraverso la rappresentazione cartografica (legata alla propria nozione di territorio ed allo scopo della lettura) e quanto le diverse cartografie possono offrire (legato alla nozione di territorio dell’autore e allo scopo della rappresentazione).
Nel seguito si riporta un criterio di lettura, legato alla nozione di territorio inteso come organismo, attraverso l’esposizione sintetica della nozione di organismo territoriale, della rappresentazione delle sue strutture (fondamentali all’interno della nozione di organismo esposta), degli strumenti operativi che permettono di estrarre dai diversi tipi di cartografia le nozioni ritenute utili.

La rappresentazione della struttura del territorio, individuata attraverso le fasi del suo uso antropico, non può che iniziare dalla lettura dei percorsi: dal modo nel quale essi si formano, si consolidano, si articolano, specializzano e gerarchizzano tra loro in modo collaborante, in rapporto di reciproca necessità secondo relazioni di congruenza e proporzione con gli insediamenti cui fanno capo. Il moto dell’uomo sul suolo, i segni lasciati dagli spostamenti, attraversamenti, migrazioni, precedono, infatti,  qualunque altra traccia: qualsiasi struttura legata ad attività lavorativa e stanziamento viene associata ai percorsi, più o meno stabili, che ne permettono l’esistenza.
I percorsi, come ogni dato della realtà costruita, hanno una loro tipicità, sono cioé  riconoscibili, nel loro formarsi ed evolversi, caratteri comuni che ne individuano storicamente la fase di appartenenza e, arealmente, la pertinenza ai caratteri naturali  del suolo cui sono associati.
Una prima, orientativa distinzione tra percorsi tipici può essere attuata attraverso la gerarchia del compito che svolgono, e quindi attraverso le polarizzazioni che distinguono i tracciati definendone le scale:
percorsi territoriali generati in origine dalle migrazioni ed, in seguito, dai collegamenti tra aree culturali di grande polarizzazione (ne sono esempio contemporaneo i percorsi autostradali) ;
percorsi locali, interni a ciascuna area o tra aree di confine, polarizzati dagli insediamenti e dai nuclei urbani;
percorsi fondiari, collegamenti alla scala delle aree produttive;
percorsi urbani, collegamenti interni alle aree urbane.
Questi percorsi si strutturano, a loro volta, secondo gerarchie che stabiliscono rapporti organici nell’uso del territorio (abbiamo già visto, ad esempio, come nei percorsi urbani é riconoscibile un ruolo processualmente diverso dei percorsi matrice, di impianto edilizio, di collegamento, di ristrutturazione ).
Una seconda distinzione può riguardare la stabilità dei percorsi, la quale é comunque legata alla loro gerarchia e alle fasi formative.
Le più elementari e spontanee vie di comunicazione sono costituite dai cammini  originati dal semplice atto del percorrere, e dai sentieri, tracciati in modo sommario dal passaggio frequente di persone e animali, come le mulattiere. E’ interessante notare come i due termini moderni non derivino da etimi impiegati nell’uso del territorio consolidato presso i romani,  ma  da neologismi del latino tardo, quando le strutture di percorsi consolidate erano in via di disfacimento: da un termine di origine gallica (camminum) il primo, e da mitarium, aggettivo sostantivato del termine classico semita, il secondo.

La pista (da pesta e, quindi, pestare, quindi “traccia”, “orma”), é il corrispondente termine che indica, alla scala del territorio, una via segnata dal solo passaggio frequente di persone e animali. Anche se alcune piste rimangono persistenti per secoli  esse rappresentano, per loro natura, una forma precaria e instabile di percorso, non consolidata da strutture insediative, le quali si pongono invece come sole polarizzazioni. Si pensi alle carovaniere, il cui scopo era la percorrenza di un territorio al fine di collegare direttamente due insediamenti urbani , a volte con strutture specialistiche di supporto quali, nel mondo islamico, i caravanserragli disposti ad intervalli di un giorno di marcia. La struttura della carovaniera obbedisce dunque ad un principio formativo diverso da quello della strada, che svolge anche un ruolo strutturante nei confronti degli insediamenti produttivi. Una chiara testimonianza di questa diversità é data, ad esempio, dalla quasi completa sostituzione da parte dei conquistatori turchi, del sistema viario anatolico romano-bizantino con carovaniere che non riutilizzavano le vecchie strade militari e commerciali, pur in condizioni ancora accettabili, con carovaniere che univano direttamente le città principali.
Un esempio di permanenza moderna di tracciati di questo genere é costituita dai tratturi (da trarre, e quindi dal latino trahere, nel senso di portare, condurre da un luogo all’altro) appenninici,  sentieri naturali tracciati dalla transumanza delle greggi. In alcune regioni i tratturi costituivano fino all’inizio del secolo importanti percorsi di attraversamento a scala territoriale, collegando i pascoli, dove le greggi svernavano, ai pascoli estivi ed ai luoghi di mercato.
Al contrario dei tipi di percorsi fin qui esaminati, il termine strada contiene il concetto di stabilità, derivando da strata (sottinteso via), nel senso di via lastricata, e quindi stabilizzata in modo permanente, che richiede lo stesso procedimento critico di qualsiasi altra costruzione, così come l’etimologia di termini recenti quali carraia, rotabile, autostrada, testimonia il loro senso di percorso specializzato.

3. IL PROCESSO FORMATIVO DEI PERCORSI

Determinante é la tipologia di percorsi in rapporto alle caratteristiche idro-orografiche di un territorio, ed alle fasi che rappresentano il processo formativo del relativo sistema insediativo: si possono così distinguere  i seguenti percorsi, che rappresentano, anche, una sequenza storica, da rintracciare nei documenti, per la lettura del territorio (cioé per la sua individuazione e interpretazione):

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Percorso di crinale nel Volterrano. Gallicano. Nucleo urbano alla testata di un crinale secondario

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Gallicano. Formazione delle corti elementari isorientate su percorso di crinale

I percorsi di crinale, seguono l’andamento naturale della linea di spartiacque che divide due bacini idrici. Questa linea é spesso già sede di una pista territoriale naturale che collega aree diverse tra loro perché  isolate dalla conformazione orografica del suolo  (bacini idrici).
La ragione della formazione della più antica struttura di percorrenze di un territorio a partire dal crinale delle aree montuose è da ricercare proprio nella scala di questi collegamenti, ma anche nella possibilità di orientamento garantita dal seguire l’inviluppo dei punti geograficamente più elevati di un territorio, oltre al vantaggio di evitare i problemi di attraversamento delle basse pianure, spesso ancora paludose nelle prime fasi di strutturazione del territorio, e comunque di più problematico attraversamento per la necessità di superare, se non si rimane all’interno di un singolo bacino idrico, i guadi e i valichi che comporta. Nella primitiva formazione dei percorsi di crinale è da ricercare la ragione per la quale, come afferma anche Fernand Braudel , la civiltà si evolve dalla montagna verso il mare, contrariamente a quanto la nostra “civiltà di pianura” indurrebbe a credere. Va anche notato, fattore non secondario delle scelte nella prima fase di antropizzazione, che il percorso di crinale non richiede rilevanti opere di adeguamento del suolo essendo la sua sezione pressoché orizzontale.
A seconda dell’importanza del sistema montuoso cui sono associati i percorsi di crinale sono gerarchizzati in:

percorsi di crinale principale, seguono le catene principali e costituiscono la sede naturale per le penetrazioni territoriali attraverso la discesa ai diversi bacini idrici. Vengono strutturati di preferenza dove é possibile utilizzare lo spartiacque più continuo.
Nell’ Italia centro-meridionale i percorsi di crinale principale, di pura percorrenza perché utilizzati per i soli spostamenti territoriali nord-sud, si sono formati già nell’età del rame e del bronzo, e sono costituito dagli spartiaque della catena degli Appennini, sede naturale delle percorrenze migratorie delle popolazioni italiche. Si distingue un crinale italico più alto, verso la costa adriatica, ed un crinale etrusco, meno continuo e rilevato, verso la costa tirrenica.

–    percorsi di crinale secondario, potenziali crinali insediativi che seguono le linee spartiacque che si dipartono dal crinale principale, costituendo l’accesso ad altrettanti promontori che si affacciano  su valli, direttamente o attraverso promontori secondari. Nell’ Italia centro-meridionale sono evidenti le serie di crinali secondari che, partendo dal crinale italico, si dirigono verso la costa adriatica in successione serrata, seriale, e dal crinale etrusco verso la costa tirrenica in successione  più distanziata.

–    percorsi di controcrinale locale, che si formano come percorsi su isoipse ad alta quota e servono quindi ad unire punti nodali dei percorsi di crinale secondario. Vengono generati dall’esigenza di scambio e presuppongono non solo una struttura elementare di insediamenti stabili, ma anche una prima forma di specializzazione produttiva che renda necessario lo scambio stesso. In pratica sostituiscono, per alcuni tratti, il percorso di crinale principale e si pongono su una giacitura alternativa ad esso. I percosi di controcrinale presuppongono il raggiungimento di una elevata capacità tecnica di modificare la forma del suolo richiedendo di superare almeno un compluvio e, a differenza dei percorsi di crinale, di adattare la sezione inclinata del suolo, con scavi e riporti, alla sezione necessariamente orizzontale del percorso.

–    percorsi di controcrinale continuo, che si formano come percorsi su isoipse a bassa quota e tendono a sostituire integralmente i percorsi di crinale principale.Sono percorsi di scambio a vasto raggio tra insediamenti generati da esigenze commerciali.

–    percorsi di controcrinale sintetico, che sono prodotti da due crinali con guado interposto, o posti a scorciatoia di un crinale principale. Il superamento del guado ha il significato di connessione tra due aree culturali, di estensione delle connessioni e degli scambi, inducendo alla formazione di un mercato prima e, spesso, di un nucleo urbano poi.

percorsi di fondovalle, che si svolgono, invece, seguendo le linee di compluvio del sistema orografico, risultando così opposti e complementari ai percorsi di crinale. Vengono formati alla fine del processo di impianto della struttura territoriale e sono i meno stabili, come meno stabile é l’occupazione delle pianure, che richiede continuità nel lavoro agricolo e nelle sistemazioni idrografiche relative. Si distinguono:

–    percorsi di fondovalle principale, i quali non seguono in realtà la linea di compluvio: come i percorsi di crinale  non seguono esattamente la linea di displuvio, per le difficoltà naturali che essa può presentare (picchi, pareti ecc.) ma si adattano ad essa attraverso raccordi di quota, così il percorso di fondovalle può non occupare la sede immediatamente adiacente ai corsi d’acqua, ma porsi, più spesso, a ridosso di essa, adattandosi ai sistemi di piccoli rilievi del terreno o seguendo le linee di margine della pianura (percorsi pedemontani).

–    percorsi di fondovalle secondario, che si dipartono spesso dalle pedemontane, per seguire i compluvi delle valli comprese tra due promontori, risultando complementari ai percorsi di crinale secondario.Questi percorsi svolgono un ruolo importante di collegamento tra bacini idrici, raggiungendo i valichi a cavallo tra di essi.

Gli insediamenti si costituiscono, in forma storicamente tipica soprattutto nell’Italia centrale  , a partire dai  rilievi montuosi ed a scendere verso la costa, dove si saldano in una struttura organica con gli insediamenti complementari che si formano intorno ai guadi ed agli approdi.
E’ evidente come, contemporaneamente alla discesa a valle ed alla progressiva specializzazione della produzione, nasca la necessità dello scambio e dei relativi percorsi: insediamenti e percorsi sono dunque legati  da uno stesso processo formativo.
Primi a formarsi sono gli insediamenti di crinale, che si formano sui crinali secondari dalla discesa dal crinale principale impiegato per i grandi attraversamenti. Processualmente, quindi, si formano prima gli insediamenti in quota, che rappresentano la prima forma stabile di occupazione del suolo, spesso al livello delle sorgive, e successivamente gli insediamenti che tendono ad occupare l’intero promontorio fino alla testata sulla valle.
L’insediamento di testata di crinale (o di basso promontorio) costituisce dapprima una polarità territoriale, seppure a scala ridotta, costituendo la terminazione (e quindi polarizzazione) di un percorso, e successivamente, un nucleo protourbano , un nodo di scambio (attraverso la formazione di nodalità di percorsi) con la valle, nel momento in cui ha origine la fase di occupazione e strutturazione  delle pianure, spesso paludose, nei quali si stabiliscono gli insediamenti di fondovalle, soprattutto alla confluenza di percorsi in corrispondenza di guadi, e quindi prima della biforcazione dei fiumi, dai quali si sviluppano nuclei protourbani (per il ruolo di mercato che la nodalità territoriale assume) e quindi, nei casi di forte polarità, nuclei urbani.
Caso particolare dell’insediamento di basso promontorio è l’insediamento acrocorico, collocato su un rilievo orografico elevato rispetto all’intero territorio circostante e quindi difeso dalle caratteristiche del suolo non solo su tre lati ma sull’intero perimetro. E’ comunque evidente che, quando l’insediamento non avvenga in uno stadio avanzato della formazione del territorio per il solo controllo delle grandi vie di transito, il comportamento dell’insediamento acrocorico risponderà al principio di essere derivato dal processo formativo del crinale secondario cui è orograficamente e storicamente legato e dal quale derivano i percorsi originari che lo hanno formato.
Nel IV sec. a. C., quando inizia la colonizzazione romana e la strutturazione o il consolidamento dei fondovalle, il territorio della penisola é strutturato ancora in nuclei protourbani. Nelle aree interne appenniniche centro-meridionali gli insediamenti a carattere tribale (pagi) consistono in nuclei arroccati su promontori. In questa fase, soprattutto nell’Etruria e nella fascia costiera dell’Italia centro-meridionale, è già strutturato un sistema di poleis, città stato che risentono, spesso in modo indiretto,  l’influenza della colonizzazione greca.

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Il sistema dei percorsi in relazione all’ipotesi della formazione pianificata della città di Trani (da G.Strappa, M.Ieva, M. Dimatteo, La città come organismo. Lettura di Trani alle diverse scale, Bari 2003)

Gli insediamenti costieri di approdo sono centri specialistici per il commercio e lo scambio (in questo simili ai nodi di mercato che si formano, spesso, in corrispondenza dei guadi) dai quali si originano sulla costa nuclei urbani in corrispondenza, spesso, con insediamenti di basso promontorio più interni, alla testata di crinali secondari, con i quali viene instaurato lo scambio (non nascerebbe un approdo se non esistesse un’area produttiva da raggiungere).
Il sistema dei percorsi e degli insediamenti si forma secondo estesi periodi temporali che corrispondono, schematicamente, ai grandi cicli della storia del territorio:

ciclo d’impianto, databile dal Paleolitico al IV sec. a.C, attraverso il quale si struttura l’intero territorio, da monte verso valle, attraverso percorsi, insediamenti, nuclei protorbani e primi nuclei urbani propriamente detti in corrispondenza dei controcrinali sintetici;

ciclo di consolidamento, databile dall’espansione romana del IV sec. a. C. al declino del IV-V sec. d. C., attraverso il quale si stabilizza la struttura già impiantata, integrata dall’organico strutturarsi dei percorsi di fondovalle e dei relativi nuclei urbani. In realtà processi analoghi e diacronici di grandi strutturazioni dei fondovalle avvengono nei maggiori bacini idrici dell’antichità, come nelle valli del Tigri-Eufrate, del Nilo, del Gange;

ciclo di recupero, individuabile nel periodo medievale tra la fine del IV-V sec. d.C. e la fine del XII sec., durante il quale si perdono le strutture di fondovalle organizzate in periodo romano e si riutilizzano e trasformano le strutture precedenti di promontorio

ciclo di ristrutturazione, corrispondente al periodo dal XIII secolo all’età contemporanea, durante il quale si riorganizzano le strutture di fondovalle parzialmente abbandonate nel ciclo di recupero, con estese opere di bonifiche.

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Fasi formative della struttura territoriale dell’Italia centrale (da AA.VV., Cortona, Struttura e territorio, Cortona 1987).

 

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Formazione del sistema delle percorrenze radiali e controradiali in relazione ai fossi della Marranella, di Gottifredi, di Centocelle a Roma sulla base della carta IGM del 1872 ( da G.Strappa, a cura di, Studi sulla periferia est di Roma, Francoangeli, Milano 2012)

4. BIBLIOGRAFIA

Testi di carattere generale:

G.Strappa (a cura di), Studi sulla periferia est di Roma, Francoangeli, Milano 2012

G.Strappa, M.Ieva, M. Dimatteo, La città come organismo. Lettura di Trani alle diverse scale, Adda, Bari 2003

G.Strappa, Unità dell’organismo architettonico, Dedalo, Bari 1995 (on line su questo sito)

F. Farinelli, I segni del mondo, Firenze 1992.

F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino 1986

G.Caniggia,G.L.Maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia. 1. Lettura dell’edilizia di base, pp. 203-249,  Venezia 1979.

G. Cataldi, Per una scienza del territorio. Studi e note, Firenze, 1977

Come esempi significativi di lettura di  organismi urbani particolari si possono utilmente consultare:

G.L.Maffei (a cura di),  La casa rurale in Lunigiana, Venezia 1990.

AA.VV., Cortona. Struttura e storia, Cortona 1987

G.Conti, D.Corbara, Per una lettura operante della città. L’esempio di Cesena, Firenze