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IL BIOPARCO E LA STORIA DA CAMBIARE

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 26.02.09

Come in un rito d’iniziazione, infantile e fantastico, si entra tra volute barocche disegnate da Armando Brasini e leoni inferociti colti dallo scultore Vincenzo Romeo da Taurianova nell’atto di avventarsi sul visitatore.
E dentro si squaderna il delirante esotismo didattico del giardino zoologico romano, tra finte capanne africane, rocce e caverne di cemento, iceberg d’invenzione.
Karl Hagenbeck, baffuto commerciante amburghese di bestie selvatiche, diede vita a questa follia architettonica, all’inizio del secolo scorso, inventando lo zoo senza gabbie, dove gli animali, isolati da fossati, sembravano aggirarsi tra i visitatori. Tempo dopo Raffaele De Vico ne doveva accrescere la fama costruendo, tra l’altro, una sorprendente voliera geodetica che suscitò universale ammirazione.
Erano gli anni ’30 e pochi pensavano al concentrato di crudeltà che quei recinti contenevano, alla mortale malinconia che assale anche una tigre, se strappata all’ombra materna della sua foresta.
Ci pensò la guerra a spazzare via gli animali lasciando costruzioni e giardini in abbandono.
Poi venne il Bioparco, dopo lunghi anni di stanco recupero. Uomini e valori erano cambiati e una nuova, pelosa pietà per gli animali imponeva di dissimulare la loro prigionia come protezione della natura.
Quanto sia desolato il risultato della trasformazione, ce lo  hanno ricordato alcune lettere inviate nei giorni scorsi a questo giornale. Scimmie, tapiri, cammelli si aggirano tristissimi sotto lanci incrociati di noccioline. Tra gabbie deserte, dentro microcosmi circondati da puerili didascalie, ogni tanto un animale, risvegliato dal torpore, sbatte furioso la zampa contro le vetrate, imprecando con un ruggito alla felice stupidità del mondo là fuori. Cosa ci sia di educativo in tutto questo, nel tempo di internet e dei DVD poi, qualcuno dovrebbe pure spiegare.
Forse dovremmo piantarla con le ipocrisie e trasformare questo posto in un grande giardino pubblico dove solo qualche animale che non ha bisogno di gabbie, il pavone, lo scoiattolo, si possa aggirare tra curiose architetture restaurate immerse tra nuove piante, come in una foresta. Un magnifico, umano zoo vegetale.

LETTERE AL CORRIERE

Uno sguardo sulla natura
Nel fondo (26 febbraio) di Giuseppe Strappa, l’attacco al Bioparco è condotto su due piani ormai «tradizionali»: la «malinconia mortale » della tigre «strappata all’ombra materna della sua foresta» e l’inutilità del Bioparco e di strutture analoghe «nell’era di Internet e dei Dvd».
Sulle tigri si scopre l’acqua calda, visto che la loro importazione a scopo commerciale è vietata da innumerevoli leggi che non sono certo gli zoo a trasgredire. Piuttosto gli zoo ospitano animali che rapaci commerci clandestini destinati ai privati ricchi e annoiati ancora strappano ai loro ambienti. Gli animali del Bioparco e i loro genitori sono praticamente tutti nati in cattività e quasi mai potrebbero rientrare nell’ambiente naturale perché hanno perso la capacità necessarie a sopravvivere in esso. Che ne facciamo? O li teniamo in strutture il più possibile idonee o gli somministriamo la dolce morte: e non si vede cosa ci sia di ecologico o educativo in questa soluzione. Quanto poi a Internet e ai Dvd: vedere un essere vivente dal vivo è diverso che in tv o sul web. Certo che la prigionia ne altera il comportamento, ma almeno i bambini non penseranno che si tratti di un essere virtuale. E poi anche la visione di ottimi documentari è pur sempre una lente deformata da chi li riprende. Insomma gli zoo generano «zoofilia», e se sempre più persone in Occidente ama gli animali è anche grazie a quelle strutture e al loro ruolo nell’ educazione al rispetto della natura. Una storia contraddittoria, certo: ma spesso anche da un errore si può trarre anche un qualcosa di utile.
Alberto Hermanin

Il Signor Hermanin, esperto in «relazioni con i mass-media », ha ragione su due punti.
Il primo è che da «un errore si possa trarre anche qualcosa di utile». L’esperienza degli zoo, forse motivata fino a mezzo secolo fa, sta chiudendo il suo ciclo storico ed è inutile, oggi, continuarla con etichette ipocrite. Tenere animali in gabbia, secondo una sensibilità ormai dovunque condivisa, è diseducativo, oltre che crudele. Da questo errore anacronistico bisogna trarre indicazioni utili per nuove forme di rapporto con la natura. Preferisco che mia figlia veda un leone libero su un Dvd, piuttosto che in una gabbia dove muore di noia.
Il secondo è che gli zoo sono comunque destinati a sparire per mancanza dell’oggetto stesso che li motiva, visto che, come scrive il signor Hermanin, “l’importazione di animali selvatici a scopo commerciale è vietata da innumerevoli leggi”. Nella fase di transizione forse si potrebbe pensare a forme meno crudeli di sopravvivenza per gli animali che non possono essere reimmessi nel proprio ambiente, ma non c’è dubbio che bisogna prevedere un futuro per lo straordinario patrimonio architettonico e paesistico dello zoo romano quando, inevitabilmente, sarà privo di animali selvatici.
Forse sto scoprendo l’acqua calda, eppure debbo constatare che il Bioparco continua allegramente a produrre disastri (agli animali ed ai beni culturali) senza che alcun progetto alternativo sia seriamente proposto.
Giuseppe Strappa

Gentile Buccini, in riferimento alla lettera pubblicata nella rubrica del 19 febbraio 2009 («Tra Bioparco e Giardino Zoologico non solo una questione di nomi») a proposito della sua risposta: a nostro avviso ognuno è libero di esprimere le proprie opinioni, ma un giornalista ha delle responsabilità nei confronti dei lettori, e quando si danno informazioni non esatte, si crea disinformazione. Gli animali nati in cattività da generazioni non possono vivere se non in spazi protetti, infatti, se rilasciati in natura andrebbero incontro a morte certa nel giro di pochissimo tempo e con terribili sofferenze per l’incapacità di difendersi e di procurarsi il cibo corretto. Comunque, anche a noi non piacciono i furbetti. Saluti.
Fondazione Bioparco di Roma
Giovanni Arnone, Presidente
Fulvio Fraticelli, Direttore Scientifico

Gentili signori, partiamo dall’unico punto che pare accomunarci: l’avversione per i furbetti. Nella rubrica da voi citata scrivevo che è vecchia «…l’idea di una serie di gabbie al centro della città dove far vivere in spazi angusti animali che nel dna hanno un insopprimibile bisogno di libertà (e così non ci provino i soliti furbi a raccontarci che i soggetti nati in cattività stanno bene dove stanno)». E dove stanno? Appunto in una «serie di gabbie al centro della città», «in spazi angusti» eccetera.
Ho forse scritto che vanno «rilasciati in natura» tout court come voi tentate di farmi dire? Certo che no. Esistono parchi protetti, adatti a una parziale reintroduzione in natura: posti simili a quello dove gli animalisti si batterono per condurre l’elefante Calimero, già vostro ospite. Tra una gabbia e uno «spazio protetto» c’è una bella differenza: lo spazio. Professionisti del vostro livello queste cose le sanno meglio di me: volendo, potete dirle alla gente anziché usare il babau del «rilascio in natura» come espediente dialettico. I giornalisti hanno, come dite, l’obbligo di verità. Ma i non giornalisti non hanno necessariamente l’obbligo contrario…
gbuccini@rcs.it

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«Ogni anno 600 mila visite»
In risposta all’articolo «Il Bioparco e la storia da cambiare» di Giuseppe Strappa del Corriere di giovedì 26 febbraio: affrontare una discussione sulla legittimità o meno dei Giardini zoologici, che va avanti da decenni, porterebbe a considerazioni sterili poiché è un argomento profondamente condizionato da fattori emotivi e dalla sensibilità dei singoli. L’unico dato oggettivo è che gli animali nati in cattività da generazioni non possono vivere se non in spazi protetti. Il Bioparco (territorio, immobili e gli stessi animali) è del Comune, unica istituzione in grado di decidere le sorti della struttura. Forse il Comune stesso potrebbe chiedere ai cittadini la propria opinione con un referendum. In questo caso il Bioparco, che si oppone all’ « unica dimensione », quella televisiva (sono inutili la Natura vera e gli animali in carne ed ossa perché ci sono internet e dvd), dovrebbe far diventare «votanti » i suoi 600 mila visitatori. Basteranno?
La Direzione del Bioparco

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«Un ghetto per animali»
Un bravo a Giuseppe Strappa per il suo coraggioso articolo! Spero che al Comune qualcuno lo ascolti e che si metta un termine a questa inutile cattiveria nei confronti di poveri animali imprigionati a vita chiudendo definitivamente questo orrendo ghetto per animali. Gli addetti al Bioparco possono essere— in caso di chiusura — più utilmente reimpiegati altrove.
Federico Zadra

L’ARA PACIS E IL FUTURO DEL CENTRO STORICO

di Giuseppe Strappa

in “Corriere della Sera” del 5 settembre 2005

Voluto dalla giunta Rutelli con l’unico scopo di immettere l’architettura contemporanea nel centro storico di Roma, il progetto di Meier per l’Ara Pacis non era chiamato a risolvere, al contrario di quanto si dovrebbe chiedere ad ogni buona architettura, alcun problema reale. Ora che l’opera è in costruzione si scopre che, come per un’oscura nemesi, ne crea di nuovi, a catena: troppo ingombrante per essere costretta nell’angusta spina tra il lungotevere e via di Ripetta, la nuova costruzione reclama i suoi spazi vitali. I quali non possono che essere ricavati occupando il lungotevere in Augusta, intubando il traffico in costosi sottopassaggi che genereranno, con i loro squarci, ulteriori problemi.

La nuovissima costruzione dell’architetto newyorkese finirà così per divenire il vero monumento di questo delicato nodo urbano, con buona pace del Mausoleo di Augusto, delle chiese di San Rocco e San Girolamo le quali portano, pur sempre, la firma di Valadier e di Martino Longhi. Del resto sembra che, a Roma, gli architetti più noti vengano colti dall’ansia irrefrenabile di lasciare il proprio segno. Interrogati sulle possibili trasformazioni del nostro centro storico, i protagonisti  dello star system internazionale, anche su queste pagine, si sono invariabilmente avventurati in dichiarazioni sull’urgenza degli interventi contemporanei e sulla propria disponibilità a disegnarli.

Poiché, in questo clima, si propone ora un concorso di progettazione per la sistemazione dell’intera area dell’Augusteo, col rischio che gli “esperti” internazionali siano di nuovo scelti tra quelli che si sono guadagnati una solida fama costruendo scintillanti opere a Parigi, Londra o Berlino (e dei quali non è dunque difficile prevedere l’orientamento), forse è il momento di riflettere sulle specificità della situazione romana rispetto alle altre grandi capitale europee.

Valga per tutti il confronto con Londra, il cui rinnovamento è legato al carattere e alla storia di una città dove l’intero patrimonio architettonico (con rare eccezioni) ha meno di tre secoli e dove molti dei monumenti più ammirati dai turisti, come il palazzo di  Westminister, non sono, in fondo, che lontani echi ottocenteschi della perduta città gotica. Londra ha, nel proprio DNA, la vocazione della metropoli che si distrugge e rinnova  vorticosamente, dove, per secoli, schiere di abitazioni in legno sono nate e scomparse senza lasciare tracce e, ancora all’inizio del ’600, l’unico architetto capace di importare la grande architettura, grazie alla sua formazione italiana, era Inigo Jones. Non meraviglia, dunque, che la forza estetica di quest’instabile universo urbano si fondi oggi anche su forme imprevedibili e iperboliche come la macchina disegnata da Rogers per i Lloyd, nel cuore della City, o l’eccentrica torre appena costruita da Foster (“The Gherkin”, il Cetriolo).
Al contrario, il nostro centro storico, formatosi per possenti stratificazioni murarie  ancora tutte presenti nel tessuto della città, ha il privilegio di non essersi trasformato in metropoli contemporanea e può ancora scegliere quel futuro di intensa continuità con la propria storia che ad altri è ormai precluso. E’, questa, una decisione politica che non può trovare alibi nei modelli di trasformazione delle altre capitali europee.
E l’errore dell’Ara Pacis dovrebbe almeno servire a considerare come la Roma storica sia una città che non permette imitazioni: un insieme prodigiosamente organico, nato da un processo di continua collaborazione tra forme architettoniche, anche moderne, non un mercato dove il vestito di ogni edificio può essere scelto secondo la moda del momento o la fama del sarto.

ROMA INTERROTTA

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ROMA RE-INTERROTTA

itinerario, antologia e bibliografia

a cura di Alessandro Camiz


“Roma è una città interrotta perché si è cessato di immaginarla” [1]

Trenta anni dopo La Biennale di Venezia riapre il gioco allargando l’orizzonte dei confini urbani a quelli dell’area metropolitana: l’itinerario creativo ritrova l’immaginazione. Aaron Betsky[2] ha voluto riproporre nella prima sala delle Artiglierie dell’Arsenale, i disegni originali di Roma interrotta, come premessa all’addizione “Uneternal City, a trent’anni da Roma interrotta”. In questa sezione, 12 studi di architettura, di cui 5 italiani, 4 europei e 3 statunitensi, sono stati invitati a immaginare nuovi strumenti per il progetto urbano nell’area metropolitana di Roma, sulla falsariga della mostra allestita da Piero Sartogo ai Mercati Traianei di Roma nel 1978.[3]. Tale esposizione si iscriveva nella serie delle mostre, tese alla costruzione di un dialogo tra architettura e arte contemporanea, ideate da Piero Sartogo in collaborazione con Achille Bonito Oliva e gli Incontri Internazionali d’Arte, tra le quali ricordiamo “Contemporanea” (Roma, 1974), “Amore Mio” (Montepulciano 1970), “Vitalità del Negativo” (Roma, 1970)[4], e costituisce senz’altro un eloquente esempio di progetto moderno[5] in forte continuità con il passato[6]. “Per scoprire scenari nuovi tra i quali sentirci a casa nello sviluppo selvaggio di quella che un tempo era la città e oggi è un territorio urbano confuso, dobbiamo scoprire e ripensare il passato dal quale essa si è, in maniera apparentemente inesorabile, formata”[7]. Il pacchetto “Roma Interrotta- Uneternal City” ripropone dunque con forza “il tema dell’addizione tenendo conto dell’unità spaziale/figurativa del progetto preesistente”, e la “vitalità e la permanenza, forse «la lunga durata»”[8] . “Roma interrotta”, divenuta ormai una vera e propria icona del progetto urbano radicato nel contesto storico[9], era un progetto innovativo ideato da Piero Sartogo nel 1978, promosso dagli Incontri Internazionali d’Arte, al quale parteciparono 12 grandi architetti internazionali invitati a configurare una “Nuova Roma” intervenendo sul nucleo storico della città. Il progetto del ’78 prendeva in esame l’area descritta nella Pianta di Roma di Gianbattista Nolli (1748) ultimo grande disegno urbano della città, ed invitava a riprogettare lo sviluppo di Roma come se non fossero avvenute le incoerenti trasformazioni urbanistiche seguite all’Unità d’Italia, al regime fascista e alla speculazione edilizia post-bellica. Con i progetti dei dodici architetti invitati, Piero Sartogo, Costantino Dardi, Antoine Grumbach, James Stirling, Paolo Portoghesi, Romaldo Giurgola, Robert Venturi, Colin Rowe, Michael Graves, Leon Krier, Aldo Rossi, Robert Krier, fu allestita nel 1978 una mostra ai Mercati Traianei di Roma insieme ad un convegno dal titolo “Roma-Città Futura”. Questa maniera di concepire il progetto urbano, prescindendo dalla città borghese ma in continuità con la città precapitalista[10] e in stretta relazione con l’arte contemporanea, criticata da alcuni operazione accademica, si rivelava già allora come vera operazione di Avanguardia. “Roma interrotta” è diventata, insieme alla Pianta del Nolli, nel tempo una vero emblema di scuola[11], anche in ragione di un suo itinerario espositivo internazionale che ha toccato tra l’altro sedi prestigiose come il Cooper Hewitt Musem di New York, l’Architectural Association di Londra, il Centre Georges Pompidou di Parigi, il Centro de Cultura Contemporanea di Barcellona. L’accostamento tra le due esposizioni, messo in atto all’Arsenale, è un significativo omaggio alla mostra del 1978

Itinerario

“Roma interrotta”: interventi sulla pianta di Roma del Nolli. Costantino Dardi, Romaldo Giurgola, Michael Graves, Antoine Grumbach, leon Krier, Robert Krier, Paolo Portoghesi, Aldo Rossi, Piero Sartogo, James Stirling, Colin Rowe, Robert Venturi, Incontri internazionali d’arte: Roma, Mercati di Traiano, maggio-giugno 1978.

Convegno “Roma – Città Futura” dibattito sulla riprogettazione della città gli architetti/autori e le riviste di architettura, Mercati Traianei, Roma, maggio giugno 1978.

“Perimetri”. Interventi/documenti su Roma di: Maurizio Benveduti, Daniel Buren, Tullio Catalano, Christo, Luciano Fabro, Joan Jonas, Joseph Kosuth, Jannis Kounellis, Eliseo Mattiacci, Fabio Mauri, Robert Morris, Luca Patella, Vettor Pisani, Michelangelo Pistoletto, Jack Smith, Niele Toroni e Achille Bonito Oliva, Incontri Internazionali d’arte, Roma, maggio-giugno 1978.

“Roma interrotta”; Istituto italiano di Cultura, Città del Messico, ottobre -novembre 1978, presentazione di Bruno Zevi,

“Roma interrotta”, Architectural Association, Londra, UK, 14-30 marzo 1979.

“Roma interrotta”, Cooper-Hewitt Museum, New York, USA, 12 giugno-12 agosto 1979.

“Roma interrotta”, Exed Mirvish Gallery.York University, Toronto, Canada, 4-14 ottobre 1979.

“Roma interrotta:ambiente 79”, Collegio Official de Arcuitectos Vasco-Navarro, Bilbao, Spagna, 2-8 aprile 1979

“Roma interrotta”, Centro de Cultura Contemporanea di Barcellona

“Roma interrotta”, Centre Georges Pompidou, Parigi


“Roma interrotta”, Institut für Geschichte und Theorie der Architektur, Zürich

“Roma interrotta”, Bienal, São Paulo do Brazil

“Roma interrotta-Uneternal City”, 11. Biennale di Architettura.Out there: Architecture Beyond Building”, Venezia, Artiglierie dell’Arsenale, 10 settembre- 23 novembre 2008.

Antologia critica

Mario Manieri Elia, Giochiamo a fare Roma, Paese Sera, 21/5/1978.

Uno scritto splendido e trascinante di Argan sul catalogo e l’illustre involucro dei Mercati Traianei presentano la mostra «Roma interrotta». A1 moralismo elitario di questo titolo che s richiama a una Roma antecedente alla speculazione borghese: una Roma incorrotta in cui dà spazio all’architettura attuale evitando di prendere atto degli sviluppi moderni se non come cattivo progetto o informe esito della speculazione, sarebbe ingenuo contrapporre un moralismo di segno opposto, con il richiamo al turpe stato involutivo della Roma barocca (1a più crudele, forse, che il popolo abbia subito) e alla responsabilità verso quella che Argan chiama «polenta scodellata», in cui i romani di fatto, seguitano a vivere male. In ogni caso, il moralîsmo disturba anche perché ci richiama all’altra mostra, tenutasi nel medesimo luogo, di «Roma sbagliata»; e non mi soffermerò (avendolo già fatto a suo tempo su questa pagina) a sottolineare il vizio culturale intrinseco in simili espressioni. intollerabilmente cieche di fronte ai processi reali. Detto ciò, credo che per parlare di questa occasione, indubbiamente eccezionale, di dibattito sulla architettura, bisogna «stare al gioco ». E rinunciare a porsi domande sulla opportunità attuale di dare alle ricerche metodologiche e linguistiche di alcuni importanti designers sbocchi pubblici così difficilmente socializzabili se non come evasione nella loro oggettiva (e coinvolgente) ambiguità. Perché di gioco si tratta: ma, come sempre i1 gioco non è gratuito. E’ facile cogliere, ad esempio, la molla psicologica: la città rifiuta il lavoro intellettuale e, soprattutto il rifiuto viene proprio dalla parte di essa più «qualificata formalmente», il «centro storico»; ebbene si prende la pianta del No11i e la si squarta in dodici pezzi, che vengono offerti alla voracità creativa di altrettanti aspiranti alla Forma. Il gioco è anche rito: è il rito della introiezione del totem, ancora una volta, perpetua: il tabù. Non va dimenticato, perché, che il rito è scavalcamento della storia, proprio perché si pone come uscita metaforica da problemi collettivi, la cui soluzione non è attuale. Cosa dovrebbe fare, d’altronde, l’intellettuale architetto se non riproporre i1 proprio lavoro; dal momento, oltretutto, che il suo apporto di idee gli è richiesto per un progetto politico culturale di rinnovamento?

Le risposte. ovviamente sono state diverse. C’è chi ha rifiutato di partecipare, anzitutto. C’è chi, pur partecipando, si è limitato a riproporre se stesso, rimandando senza mediazioni a un proprio discorso ben noto come hanno fatto per vie assai diverse, Bob Venturi, e Aldo Rossi. C’è chi ha cercato di cogliere nelle spoglie romane valenze riconducibili a un discorso colto, di recupero dei pionieri del Movimento Moderno, come Antoine Grumbach; chi si è confrontato sul piano dell’architettura monumentale, come i Krier; chi ha battuto la strada della provocazione (Portoghesi, Sartogo e anche Stirling); chi, invece, con umiltà apparente, si mosso dalla forza iconica della planimetria (C. Rowe); magari contaminando i1 Nolli con i1 Piranesi (M. Graves); e chi, infine, ha tentato un discorso in positivo, come Giurgola e Dardi, rinunciando all’autobiografia in cerca di una «tecnica», capace di porsi come «significante disponibile». Per lo più, si parla di rose: più che di «esercizi ginnastici » (Argan), parallele di un balletto, in cui ogni mimo fa i1 suo numero avendo però concordato rigorosamente lo spazio scenico dei propri gesti. La lottizzazione in dodici, a ben vedere, come concorde e rigida scelta, apparentemente anodina è forse il punto di arrivo culturale destinato a restare. E’ un modo per negare l’unità organica della città, insieme a ogni residua ipocrisia da P.R.G. E’ poco come risultato? Dodici intellettuali architetti possono anche impegnare un po’ del loro tempo, ahimè libero, su questo « gioco » obbligato. Ma cosa fanno le decine di migliaia .di colleghi? E che sarà dei 60 mila studenti che, in molti casi, stanno imparando solo a giocare? Con strana insistenza, nel dibattito che ha seguito la mostra, si sono fatti riferimenti evangelici (ai dodici apostoli), cercando il Cristo che, evidentemente, è l’Architettura nel suo senso ancora umanistico. Se vale la metafora, i1 critico può ben fare i1 Pilato: lavarsene le mani; giacché sarà i1 popolo a condannare. I1 tumulo destinato a rimanere vuoto. c’è già: 1’ha progettato Aldo Rossi.

Giorgio Muratore, Dodici architetti ai mercati traianei.Giocando con Roma, La Repubblica, domenica 21- lunedì 22 maggio 1978, p. 13.

Roma interrotta è il titolo della mostra recentemente allestita negli splendidi spazi dei mercati traianei ove sono raccolte le fantasiose proposte di dodici architetti che da tutto il mondo hanno risposto all’invito degli «Incontri internazionali d’arte». L’occasione, o per meglio il ludico pretesto per questa carrellata talvolta un po’ stucchevole di accademiche fantasie “urbatettoniche”, come qualcuno potrebbe definirle, si fonda sulla ipotesi di un complessivo “ridisegno” della celebre pianta di Roma pubblicata nel 1748 da Gianbattista Nolli. Pretesto questo per un confronto diretto tra architetture antiche ed architetture moderne nell’ipotesi decisamente snob e tipicamente radical di un cortocircuito culturale che annullati più di duecento anni di storia, dessero vita ad una conflagrazione di linguaggi, di materiale e di tecniche, capace di simulare una virtuale alternativa ai drammatici fatti reali della vicenda edilizia contemporanea e romana in particolare. Ma purtroppo, grondando cultura da ogni tratto di penna, queste visioni di una Roma impossibile pur nelle loro reciproche e non irrilevanti differenze rischiano nel loro complesso di accreditare ulteriormente un’immagine feticistica e necrologica del concetto stesso dell’architettura.

Si assiste così ad una specie di serpeggiante ballo in maschera ove ciascuno recita la sua parte con tragica determinazione e si salva dal ridicolo solo chi, senza ambiguità, ha compreso che si tratta realmente e soltanto di un complesso, gigantesco divertissement architettonico. Ed infatti sono proprio i progettisti che con maggior intelligenza hanno intuito i rischi e le trappole dello scherzo, quelli che emergono dalla palude delle proposte ottuse e prive di ironia. Così James Stirling che ripropone una specie di Roma autobiografica costruita come un gigantesco puzzle con i frammenti delle sue architetture, o Leon Krier che gareggia con una sapienza grafica eccezionale con i preziosismi delle incisioni settecentesche, o Antoine Grumbach che restituisce l’immagine di una Roma moderna fatta rudere ove l’architettura si riduce al progetto di nuove morfologie vegetali.

Nel complesso però una mostra da vedere e da apprezzare, se non altro per verificare la distanza che separa la fantasia da realtà, il gioco colto e le alchimie raffinate dallo squallore e dall’imbarbarimento di una città reale che ha ormai da tempo superato i limiti della decenza e della vivibilità. Un’esperienza che si colloca bene nel filone di alcune proposte recenti che vedono l’architettura coinvolta di nuovo con taluni livelli delle avanguardie artistiche (non a caso in parallelo a questa e per iniziativa degli stessi organizzatori è stata contemporaneamente allestita la mostra Perimetri che antologizza le esperienze di artisti che negli ultimi anni hanno operato sul tema di Roma), e che, pur scavalcando inspiegabilmente alcuni giovani da tempo validamente impegnati su temi analoghi, per privilegiare alcuni grandi nomi che alla verifica dei fatti si sono dimostrati assai al di sotto delle loro presumibili potenzialità, contribuisce ad alimentare un interesse che via via sembrava assottigliarsi nei confronti dell’architettura e delle sue tecniche. Pertanto, per dirla con Argan (che ha presentato con il crisma dell’ufficialità capitolina il catalogo edito da officina), «nessuna proposta urbanistica, ma una serie di esercizi ginnastici dell’Immaginazione alle parallele della Memoria.. nessun progetto.. ma un rovesciamento della Memoria dal passato al futuro al passato… L’Utopia è il contrario ateo della Provvidenza; l’Immaginazione è la provvidenza dei laici e Roma, speriamo ormai, sarà finalmente laica o non sarà più»

Bruno Zevi, Roma, se la facessimo oggi, “L’Espresso”, n.21 anno XXIV, 28 maggio 1978, pp. 110-111

La mostra “Roma interrotta”, promossa dagli incontri internazionali d’arte e allestita ai Mercati Traianei, pone tre interrogativi: l’idea è valida, o almeno sensata? gli architetti chiamati a realizzarla sono sufficientemente rappresentativi? il risultato serve in termini culturali? Le risposte: sì, no, ni.

Vediamo anzi tutto in che consiste questa singolare iniziativa. Nel 1748 l’incisore Giovanni Battista Nolli produsse una splendida pianta di Roma che offre l’ultimo documento di un “disegno” urbano coerente. Si è pensato di affidarne i dodici riquadri a professionisti contemporanei di varia nazionalità, dicendo: cancellate tutto quanto è accaduto in 250 anni di inerzia e speculazione fondiaria e riconfigurate Roma a vostro piacere partendo dal Nolli. Operazione balzana ma indubbiamente stimolante per una città che dall’ottocento ha perso la coscienza di uno sviluppo orientato. Bisognava però selezionare una rosa di nomi brillanti ed eretici, di opposte tendenze, mentre nella lista formata da Costantino Dardi, Romaldo Giurgola, Michael Graves, Antoine Grumbach, Leon e Robert Krier, Paolo Portoghesi, Aldo Rossi, Colin Rowe, Piero Sartogo, James Stirling e Robert Venturi, si riscontra una netta prevalenza di “storicisti” classicheggianti, baroccheggianti e neoislamicheggianti che esasperano l’italico morbo’ della retorica; sicché il pubblico si compiace della circostanza che, tra innumeri guai, siano stati risparmiati a Roma questi e simili misfatti.

Possiamo individuare nei dodici progetti sette atteggiamenti immaginativi: 1) evocazioni pseudo-piranesiane, prodotte da quella che Stirling etichetta «l’insigne compagnia dei Maf (Megalomani Architetti Frustrati) ». A tale congrega appartengono i due Krier, Rowe e Grumbach. I primi inseriscono nei nodi stradali e negli slarghi, persino a piazza Navona, giganteschi e orrendi castelli che neppure Armando Brasini e Marcello Piacentini sono riusciti ad escogitare nei loro incubi più dementi. Graves, aggredendo il quartiere di San Giovanni e Porta Maggiore, parte da modelli complessi, ma poi sfocia in una raggiera in cui non si discerne il sofisticato graffio analitico dei “five architects” newyorkesi. Le dotte, paradossali e frizzanti disquisizioni di Rowe sulla zona del Palatino, Celio, Colosseo, Circo Massimo approdano ad uno scolasticismo privo d’ogni sarcasmo. Grumbach, col metodo di una “archeologia inversa” botanica e combinatoria, postula un sistema di parchi Beaux-Arts lungo le mura aureliane, via Nomentana e via Salaria. Quasi la metà degli interventi fallisce col tentativo di mimare una “scala romana” parodia della magnificenza di Piranesi e Boullée. Il buffo è che, a confronto dei sogni orgiastici degli “sventratori” nostrani, sembrano timidi e astratti. 2) rigurgiti dechirichiani. Pitture scontate, anacronistiche e reazionarie,anche nelle venature metafisiche. Interpretate come “costruzioni virtuali” divengono raccapriccianti. Del resto, A1do Rossi confessa: «Questo progetto non si riferisce a qualche ipotetica alternativa alla crescita della città ed è indifferente ai rapporti con la città, in particolare con la città di Roma e di Roma interrotta». Usa terme e acquedotti quali mera “scorciatoia compositiva”, si ispira al rapporto fra “Eros e educazione ginnica”, a Edmondo De Amicis, alle Alpi svizzere, a Cecil De Mille a Hollywood. Siamo nell’ambito della corrente che Ugo La Pietra ha denominato “razional-fascismo” recupero intellettualizzato dei patrii tumorii, di un’enfasi per giunta estenuata. 5) il mito del “genius loci”. Con fiuto sicuro, Portoghesi lo sente nelle forre, negli anfratti, nei dirupi tufacei, negli spacchi e negli smottamenti del paesaggio. E ne riscopre la presenza dietro le facciate imperiali, sotto le scenografie edilizie. nelle muraglie erose, nelle convessità e concavità borrominiane. L’intuizione è impeccabile e si rimpiange che non l’abbia avuta prima di inventare la moschea di Monte Antenne. Ma quale linguaggio può suggerire la memoria del torrenti ipogeici e della vegetazione selvaggia nell’area tra il Quirinale e l’Esquilino, quella dell’attuale via Nazionale? Solo conati medievaleggianti e superficiali ridondanze barocche. Le arcane forze ctonie, dopo l’ibernazione geometrica, forniscono minestre riscaldate, non l’impeto primitivo della natura. Ci vorrebbe una generosità espressionista, irruente e blasfema, per competere con quel nascosto “genius 1oci”, e non è attingibile attraverso avare mediazioni e compromessi stilistici. 4) il rifugio nel mestiere. Simpatico l’approccio di Giurgola, che rigetta ogni storicismo d’accatto. Prende la sfida sul serio, offrendo alla Roma del 1748 «case efficienti, pianificate con semplice logica», al modo sperimentato nei lavori di Filadelfia: habitat sano quanto anonimo, ai confini del quale le antiche strutture soffrono e gioiscono della loro marginalità. Le esercitazioni di Dardi su piazza del Popolo, Prati e villa Ludovisi hanno lo stesso timbro di impegno pragmatico, Le arricchisce una vena illuminista, stemperata però da riferimenti incerti: Le pavide soluzioni di Valadier e l’isolamento del Mausoleo di Augusto cui nessuna morsa può togliere il sinistro aspetto da dente cariato. 5) la maschera pop, svogliatamente riproposta da Robert Venturi. La “strip” americana è l’unico valore e va trasferito qui, “fuori le Mura”. Kitsch per Kitsch, quello della “main street” è più autentico. Inutile quindi attardarsi a reperire la specificità del Kitsch romano; meglio infangarlo nella melma di Las Vegas e rispedire il pasticciaccio al mittente. Peccato. La pop-urbanistica meritava un esponente meno pigro e trascurato, capace di esplorare i risvolti positivi e vitali della periferia e delle borgate. Giungiamo così ai due interventi più brillanti ed arditi, gli unici che colgano il vettore provocatorio del tema e 1’affrontino senza distorsioni cerebrali e senza agnosticismo. 6) il “collage” magistrale di Stirling. L’architettura è la sua, incarnata nei “pezzi” che lo hanno reso famoso: i dormitori di St. Andrew, la facoltà di Cambridge, la spezzata di Oxford, la maglia di Runcorn. Con questo materiale si gioca, distribuendolo con astuzia nel tracciato del Nolli. Autostrada dall’oratorio dei Filippini a via Aurelia, sottopassando il Gianicolo; sentiero che collega villa Lante a una sventagliata comunità studentesca; undici ministeri lungo il Tevere; campus universitario su via della Lungara, con ingresso da palazzo Corsini; piattaforma «nello spirito di una Place de la Concorde» per saldare le sponde del fiume; infine, sostituzione del monumento a Garibaldi con una torta apprestata per il compleanno dell’autore. Nessun ibrido, avvilente commercio tra passato è presente; la dissonanza esalta il panorama delle preesistenze invece di mummificarlo. Purtroppo va constatato che, tra gli etimi, sono privilegiati i “quadrati” di Runcorn, mentre agiscono in sordina le abitazioni di Ham Common e Preston, nonché il blocco di Leicester. Se Stirling, rimeditando Roma, avesse ripensato anche il proprio itinerario creativo, l’esito sarebbe stato, oltre che eccellente, fascinoso. 7) la coraggiosa via del laicismo impersonata da Sartogo, specie perché applicata al nucleo del borgo vaticano, è estremamente efficace. Prospetta l’unica svolta concretamente plausibile alla crescita di Roma, puntando sui contenuti. Nel 1748 il Papa decide di emigrare in Sudamerica e lascia alla futura “falange” tutte le proprietà ecclesiastiche. Si può dunque realizzare «l’armonia fourieriana nel settore nord-ovest, nell’area compresa tra il mausoleo di Adriano, la valle dell’inferno e le fornaci». Il dialogo tra nuovo ordito e contesto viene risolto razionalmente, cioè per «sottrazione dalla città solida» spalancando strade-gallerie, «connettori di mobilità» che penetrano persino in San Pietro. Inoltre, gli Armoniani moltiplicano i seristeri, «luoghi di riunione delle serie passionali », e li fanno convergere nel Centro delle Relazioni Amorose. L’organismo urbano finalmente si vertebra, supera il contrasto tra poesie e prosa, monumenti e edilizia comune, spazi statici, chiusi, e percorsi. Domina la cultura laica, indispensabile per un rovesciamento autentico del carattere di Roma.

Due su dodici è meglio che niente. Ma ci si domanda quale fortuna avrebbe ottenuto questa iniziativa se gli Incontri internazionali d’arte avessero invitato più architetti indipendenti; per esempio John Johansen, Yona Friedman, Roberto Gabetti, Moshe Saldie, Maurizio Sacripanti e, ancora, il gruppo Site di New York, gli Archigram o quanto meno Peter Cook, i nostri Cavart. Qui non manca l’ironia, ma è sempre di tono accademico, allusivo, prudente e ambiguo; grida che Roma poteva essere diversa, ma poi sussurra all’orecchio che va benissimo com’è. Non a caso Stirling sottolinea un passo di Hugh Brogan: «Gli architetti avevano bisogno di re .e dittatori per scatenare la propria megalomania, ma oggi san farlo da sé… Quel che sorprende è che Hitler era un pittore mancato, e Stalin un poeta mancato. Fossero stati architetti mancati, avrebbero versato non fiumi di sangue, ma oceani». Già anche ai Mercati Traianei la bandiera della restaurazione è brandita da figure che passano per progressisti, talora delle frange estreme.

Quale succo si può trarre da questa mostra, prescindendo dagli equivoci suscitati da due terzi dei progetti? Lo dice Stirling: «Almeno nel Regno Unito va certamente presa in considerazione la possibilità di smobilitare la professione degli urbanisti». I piani regolatori partoriti dai Muf (Megalomani Urbanisti Frustrati) peccano troppo spesso di rovinoso velleitarismo. Le città sono plasmate dagli architetti e i più fantasiosi, tipo Michelangiolo e Borromini, le rieditano senza neppure disegnarne la trama globale. «Roma è una. città interrotta perché si è cessato di immaginarla», scrive Argan. Sicché le “utopie” apparenti di Dardi, Giurgola, Sartogo e Stirling, scavandone il significato, istigano a bocciare definitivamente ipotesi empie e stravaganti, tuttora sul tappeto, come la seconda università a Tor Vergata. Studiando la pianta del Nolli, si intravede che Roma può essere ristrutturata manipolandone organicamente l’interno. Otto su dodici proposte sono evasive, d’accordo; ma quattro, e due soprattutto, le più paradossali ovviamente, no. Una postilla sull’allestimento curato da Franco Raggi e Daniela Puppa. Inno all’effimero, salutare fra tanta sciroccosa eternità. Un telone azzurro viene gonfiato. da una vistosa “macchina del vento” di color argenteo. Dietro, un cubo con la pianta del Nolli a fronte della sua metamorfosi 1978. Gradini e pavimento in marmo verde stampato su un ammiccante cartone di plastica; brindisi all’artificio.

Maurizio Calvesi, Attenti arriva il Land-Artista, L’Espresso, n. 21 anno XXIV, 28 maggio 1978, p. 111

Si è parlato fin troppo di città e territorio quali nuovi orizzonti di una storia dell’arte (antica) che non sia più idealisticamente chiusa in se stessa e nei recinti del capolavoro, e non sempre si è avvertito il nesso non casuale con quello che andavano facendo, dagli anni Sessanta, gli artisti contemporanei o i cosiddetti “operatori estetici” che sgretolando meno seriosamente ma più insidiosamente il mito aulico dell’arte hanno cercato di “intervenire” appunto, nella città e nel territorio. C’è tutta una puntuale documentazione in questo senso, relativa ad operazioni micro o macroscopiche nel centro storico di Roma, nella sezione “perimetri” della mostra “Roma interrotta”. La differenza tuttavia non è da poco: l’arte antica era davvero solidale, nel nesso della pittura (e scultura e arti minori) con la contemporanea architettura e progettazione urbanistico-industriale, mentre l’operatività dei land-artisti o degli autori di performances o dei latori di estetismi diffusi, la loro non-pittura e non-scultura, si è dissociata profondamente dall’architettura e dalla progettazione, rimaste bene o male tali e senza il “non” davanti.

Non hanno insomma cercato questi operatori, il dialogo con l’architettura- urbanistica (ma quale?) contemporanea, bensì con la città quale ambiente già dato, spazialità già definita e storicizzata, da provocare, sollecitare, “dissacrare” o cui ammiccare, e chi ne ha, ne aggiunga. Forse è giusto che sia così, perché mentre l’architettura continua ad avere la propria committenza e il proprio statuto, non ne hanno più da tempo la pittura e la scultura, che quindi non possono confrontarsi con il puro eterogeneo (quale è per loro l’architettura di oggi), ma cercano il dialogo, spesso stizzoso o ermetizzante, o fine, o spiritoso, con quell’omogeneo-eterogeneo che è l’arte e l’architettura del passato.

Come alcuni prendono a spunto un quadro di Lorenzo Lotto o di Poussin per esercitarvi variazioni o chiose concettuali o fotografiche, altri prendono a spunto un ambiente o un monumento: per incartarlo (come Christo con le mura aureliane) o per deporvi qualcosa (come Fabro nella fontana delle Api) o per segnarlo (come le strisce di Buren a palazzo Taverna) o per interferire (come la piccola conchiglia di Patella contro la Fontana di Trevi) o per segnare una prospettiva (come la stella rossa di Pisani a oriente del Campidoglio) o per occupare itinerari (come Mauri), o per stendere tendoni e ombrelloni (come Mattiacci al Circo Massimo). Ma che prendano a spunto, al chiuso, un piccolo quadro, o invece all’aperto un monumento e un grande spazio, il segno della separatezza rimane per lo più lo stesso: su cui meditare non come su una colpa, ma come su una condizione.

Francesco Dal Co, La mostra “Roma interrotta”: un’occasione per progettare la città, Rinascita, n. 27, 7/7/1978, p. 40.

Dodici architetti sono stati invitati a «riprogettare» gli altrettanti riquadri che formano la bella pianta di Roma incisa da Giovanni Battista Nolli nel 1748. Ne è risultata la mostra «Roma interrotta». Un titolo ambiguo, soprattutto in tempi di grandi sdegni morali per i destini di Roma moderna. Ma un titolo vale 1’a1tro: tanto più in questo caso perché il «confronto» è del tutto «accademico» e i progetti sono stati evidentemente concepiti al solo scopo di venire esposti. Visti i risultati e considerate le premesse, ci pare che 1’«interruzione» non attraversi tanto l’«oggetto» (Roma) quanto l’attività progettante (l’architettura). Roma, la città con la sua storia e i suoi problemi, è solo un’occasione:.altre «piante» ne avrebbero fornite di altrettanto valide. In che senso, allora «architettura interrotta»? L’architettura partecipa storicamente a progetti di dominio sul reale che si esprimono in tassonomie dello spazio determinate indipendentemente dal linguaggio architettonico: quanto più è forte il condizionamento del reale, quanto più ferreo appare il programma di potere, o, al contrario, quanto più è astratto tale rapporto tanto maggiori divengono le potenzialità dell’indipendenza del linguaggio. Per il massimo di «costrizione» come nell’assoluto sradicamento, per questi due poli opposti, passa qualsiasi fase «innovativa» del lavoro architettonico. Parafrasando una memorabile pagina di Lacan, potremmo dire che la ricerca contemporanea, o almeno determinate componenti di essa congrue a quelle presenti nella mostra romana, ci ricordano che l’architettura «anche all’estremo della sua usura, mantiene il valore di tessera. Anche se non comunica nulla, il discorso rappresenta l’esistenza della comunicazione; anche se nega l’evidenza, afferma che la parola costituisce la verità; anche se destinato ad ingannare, specula sulla fede nella testimonianza». Tale realtà rende possibile 1a regressione, «che non è altro che l’attualizzazione nel discorso delle relazioni fantasmatiche restituite da un ego ad ogni tappa della decomposizione della sua struttura». I1 porsi dell’architettura all’interno della frattura tra organismo e realtà «genera 1’indistinguibile quadratura degli inventari dell’io», il suo mostrarsi come corpo in frammenti, «nella forma di membra disgiunte e degli organi raffigurati in esocopia, che metton ali e s’armano per le persecuzioni intestine » (Lacan). Tale frattura è resa più evidente nel confronto con la storia, quando l’oggetto storico viene assunto come pienamente disponibile: la pianta del Nolli assicura l’aleatorietà del confronto, e garantisce uno stato di autonomia per la progettazione libera di riflettersi in uno specchio che ne restituisce fedelmente la decomposizione. In tal senso l’architettura si trova in una condizione favorevole per condurre il suo gioco sino in fondo, per mostrarsi come linguaggio senza ideologia, per provare la propria abilità in «una serie di esercizi ginnici dell’immaginazione alle parallele della Memoria» come ha scritto Argan presentando il catalogo della mostra romana. Ma si tratta di esercizi particolari. Non tutte le evoluzioni tentate arrecano tangibili benefici al corpo dell’acrobata. I risultati hanno pesi specifici troppo diversi, troppo discordanti le reazioni di fronte all’assoluta trasparenza del cristallo sul quale il progetto deve rispecchiarsi. Lo spirito del gioco è stato penetrato da pochi; solo alcuni progetti hanno accettato di costruirsi come archeologia o «inventari» del proprio linguaggio. Le «passeggiate» di Grumbach, la città ctonia di Portoghesi, il ripetersi pop di Venturi: sono modi diversi di affrontare il confronto con la storia, eppure tutti sono animati dalla speranza di ritrovare nello specchio una conferma di relazioni possibili tra il mondo passato, trascorso, e quello vissuto della narrazione di se stessi, una garanzia che tale racconto costituisca un tramite di continuità atto a esorcizzare la destrutturata natura dell’architettura. Ovviamente gli strumenti e le parole usate sono molto diversi, più o meno ingenui, più o meno seri; in alcuni casi i progetti fingono realismo e operatività (Giurgola, ma anche Dardi, ad esempio), ma non sfuggono alla necessità di mimetizzarsi apparendo criptografici e oscuri (Dardi, appunto), o velatamente onirici (i deludenti disegni di Robert Krier), oppure battono strade di uno storicismo un po’ troppo superficiale come nel caso di Graves. Molti lavori contribuiscono a rafforzare il sospetto che le molteplici suggestioni romane abbiano finito per svolgere una funzione paralizzante sugli architetti, quasi che il «riprogettare» la pianta del Nolli imponesse di indossare i panni dei grandi viaggiatori del secolo scorso -non per nulla nel catalogo troviamo riferimenti a Goethe o ai nazareni. Ma i risultati progettuali non reggono il paragone: vedendo gli «appunti» di Grumbach, che nostalgia per gli schizzi e le visioni dei «diari classici» e di fronte a certe ricostruzioni, che rimpianto per i raffinati acquarelli e gli accurati rilievi dei pensionati di Villa Medici! Né la scrittura completa il disegno di questi «diari» mancati, anche nei casi dove l’intreccio si rivela imprescindibile come nel progetto Sartogo-Fourier.

Tra tante peregrinazioni prive di mete credibili, un unico progetto ha tentato di giocare la partita sino in fondo, dandosi regole precise. Colin Rowe si è posto di fronte alla pianta del Nolli rifiutando ogni sdoppiamento tra il presente del progetto e il passato dell’oggetto da trasformare, accettando pienamente di apparire ineffettuale. Egli ha assunto un atteggiamento conseguentemente archeologico; il «tema» non gli suggerisce nulla di attuale, e quindi lo preserva da nostalgie contemporanee. Ciò che il Nolli rappresentò è assunto come un reperto: intorno ad esso viene organizzata una campagna di scavi. Ma quale lo spirito di questa. archeologia? Le accuratissime tavole Rowe rivelano un’inclinazione positivista: l’archeologia è ricostruzione, completamento, rifiuto di ogni romantico cedimento al fascino delle rovine, che appare invece spesso nella grana di altri progetti. Rowe si muove tra i resti classici con la medesima angoscia di fronte all’impenetrabilità del reperto e alla sua incompiutezza che attanagliava i grandi archeologhi anglosassoni del XIX secolo. Il suo atteggiamento è simile sia a quello dei «restauratori » del Palazzo di Cnosso e dello Stoà di Attalo che è quello dei Prix de Rome. Il rudere viene riprogettato come città classica, ricomposto in una continuità astorica illustrata da tavole elegantissime, di un rigore grafico di cui si era smarrita la memoria. Se Rowe si adatta completamente a questo gioco astratto abbandonandosi ad un rimpianto che non consente speranze, Leon Krier, con notevole sensibilità per il superfluo, pare puntare prevalentemente sulla carta dell’ironia. Un’ironia certo diversa da quella ormai un pò usurata di Venturi, però altrettanto egocentrica nel prestare attenzione agli effetti spettacolari, ma molto più sadicamente impegnata a esporre, nel levitare del disegno, i limiti di un linguaggio che rispecchia se stesso. Le enormi, scarnificate strutture immaginate da Leon Krier, mirano a produrre effetti traumatici nella trama naturale dei monumenti romani ai quali riservano tutte le proprie attenzioni. La sua poetica antigraziosa gioca ambiguamente sull’uso del particolare grafico raffinato e gratuito e si avvale insistentemente del fuori scala, denunciando però trasversalmente le proprie ineffettualità nel proporre la trasformazione di Piazza San Pietro in un’enorme piscina, in un inatteso cedimento neofuturista. Alcuni tratti salienti che caratterizzano l’approccio intellettuale di Rowe e di Leon Krier si trovano fusi nel progetto di Aldo Rossi. Egli afferma la propria estraneità alla città reale ma, concretamente, anche alle suggestioni che il Nolli gli offre. La sua è un’architettura che interferisce con la storia solo tramite cenni della memoria, ma che vuole soprattutto esporsi facendo de1 disegno lo strumento della narrazione del formarsi di un linguaggio, scandendo il percorso dell’apparire della forma. La sua proposta privilegia un tema archeologico, un complesso termale, punteggiato da immagini ripetute. ricorrenti qui come in altri progetti, ennesime conferme di quella ostinazione che caratterizza la ricerca rossiana, come Vittorio Savi ha ben dimostrato. L’esercizio di Rossi potrebbe essere pienamente illustrato dalla parola di Lacan che abbiamo ricordato, ove ogni forma che si definisce e che una volta fissata, permane ostinatamente uguale segna l’affiorare delle relazioni fantasmatiche che costituiscono 1’«inventario dell’io». Nel decomporsi della struttura del progetto in individualità autonome domina la ripetizione (una memoria introspettiva), dalla quale sbocciano, isolatamente, con fatica, nuove forme destinate a entrare definitivamente nel repertorio linguistîco rossiano: nel caso di quest’ultimo progetto si delinea, nuovo elemento onirico, il delizioso disegno per la «casa del té». Meno raffinata l’autonarrazione di Stirling, un escamotage non originale che già avevamo incontrato alla Triennale milanese del 1973, un montaggio di tutti i progetti fatti dall’architetto che comprende alcune delle pree-sistenze tracciate dal Nolli. Stirling costruisce un’antologia di se stesso ma, ma non riesce a estrapolare da essa l’immagine di un cammino organicamente delineato: ciò che egli «disegna» è la propria molteplicità -in essa si specchia e si ammira. La sua è un gioco parallelo a quello proposto dalla mostra: è una duplice decontestualizzazione, quella operata rispetto alla pianta del Nolli e quella condotta sulle sue opere, che rende evidente la disponibilità indifferente del l’architettura. Rossi e Stirling accettano il gioco per trasgredirlo; ma il gioco trasgredito si rovescia in una sadica messa a nudo dello sradicamento, delle diversità, dei limiti dei progetti. Ma la loro costruzione, i1 loro disegno, il loro mostrare il farsi delle forme tendono a fare del progetto un feticcio – e «il feticcio – scrive Giorgio Agamben – che si tratti di una parte del corpo o di un oggetto inorganico, è, quindi, nello stesso tempo 1a presenza di quel nulla che è il pene materno e il segno della sua assenza; simbolo di qualcosa e, insieme, della sua negazione, esso può mantenersi solo a patto di una lacerazione esistenziale, nella quale le due reazioni contrarie costituiscono il nucleo dî una vera e propria frattura dell’lo «Ichspaltung», del corpo in-frammenti dell’architettura.

M. Fagiolo, I cavalieri dell’utopia eccellente contro i cavalieri della restaurazione, Modo, n. 13 ottobre 1978, pp. 43-45.

«Roma interrotta» ovvero la pianta dei modi e modelli di comportamento di una generazione legata alla storia e alla memoria. Tutte le ricerche portano a Roma? La carta del Nolli si dissolve in un atlante di contraddizioni, in un eden o serraglio di poche concretezze e di molte idee impraticabili, anche se non tutti i Maf (megalomani architetti frustrati) accettano di scendere in campo apertamente e senza inibizioni. In questa partita sulla scacchiera 3 x 4 le regole del gioco non sembrano in realtà sempre chiare: qualcuno sa di barare, altri rimescolano le carte (come riconoscere il soggettivo dall’oggettivo, la propria dall’altrui storia?). L’Operazione-Roma sembra evocata dal più antistorico pensiero di Benevolo: distruggere una fetta spazio-temporale di città (ma qui la negazione si spinge più indietro del 1870, senza precise motivazioni), facendo camminare a ritroso l’orologio della storia. Roma nata da Roma? La Roma medievale era cresciuta sulla sua storia, sui ruderi, ogni nuova operazione architettonica comportava trasfusioni di sangue storico. Ma qui il dopo-Roma si alterna al prima di Roma e al senza-Roma o al contro-Roma nelle nozze mistiche di passato, presente futuro. Alla roulette del tempo molti puntano sul rosso (socialismo utopico), qualcuno punta sullo zero, o sulla ibernazione sotto-zero. E si tratterà di un «azzeramento-profezia » o di un « deserto del possibile » ? Argan avanza un’immagine da pianeta-delle-scimmie: «Le maree delle epoche sono passate e si sono ritirate lasciando sulla rena i relitti di lontani naufragi, come tutti i relitti, hanno attorno uno spazio prossimo e scontato, il mare e la spiaggia ». Il time-out imposto allo sviluppo (ovvero un black-out lungo 230 anni) può equivalere, nelle magnifiche sorti e progressive di Roma, all’incendio del Maf Nerone. Roma. brucia? Ma forse è soltanto il filo rosso di fumo dell’evasione onirica. Col mito di Romolo e di Enea ancora poi l’immagine dell’incendio di Troia: e Troia fin dai tempi di Diogene-Schliemann non è altro che la parafrasi di una storia sedimentata e continuamente sepolta sotto se stessa. E dopo Graves («la città come una serie di strati»): ecco Grumbach, con la sua «archeologia inversa», affermare la dimensione stratigrafica: la città sulla città, e la città sotto la città. Le Terme di Tito affondano le radici sulla Domus aurea, mentre un nuovo Palatium si attesta sul Palatino, rudere sopra rudere nella fantasia di Rowe. Stratigrafia storica ma anche stratigrafia naturale, con un sopra e un sotto rispetto al livello zero dell’età zero: la forra o l’ipogeo accanto al colle e alla montagna sacra (rimandiamo alla suggestiva geografia simbolica delineata da Norberg-Schulz). E poi assistiamo al dialogo dei massimi sistemi: lo splendore della luce (Palazzo di cristallo) e le oscurità del profondo. Prevarrà forse la luce? O prevarrà invece l’enigma della profondità, della stratigrafia dell’anima? E l’interno (Psiche) coinciderà con l’esterno (movimenti d’Amore)? I dodici cavalieri della tavola quadrata hanno trovato sulla loro strada tre eroi: Michelangelo, ovvero lo scavo nel linguaggio o viceversa il silenzio, Bernini, ovvero la retorica dell’intervento a tutti i costi, Piranesi, ovvero la ricostruzione e il progetto assurdo dopo l’incubo. Dietro le quinte sorridono due maestri: il Taut dell’architettura alpina e il Le Corbusier del Plan Voisin e di Chandigarh. Le due protagoniste restano però storia e natura nelle due vicende di vita e morte, i due massimi comuni metodi? La citazione e la contestazione. La citazione può presentarsi come «collage» (ricordate Collage City di Rowe?), o come «ripetizione differente», ovvero «aggiunta, sostituzione, combinazione, inglobamento» (Grumbach). La contestazione assume di volta in volta le vesti dell’ironia, del sarcasmo, della predica ex cathedra. Le ipotesi negative più dirompenti sono legate alla sovrapposizione: alla cancellazione, alla distruzione, alla rimozione, alla destrutturazione. Nondimeno la storia può celebrare qua e là il suo trionfo, in «vedute ideate» che possono ricordare i Capricci di Canaletto. Potrà essere una storia come idea e grande madre (Argan parla di «avventurose, fantastiche ricerche nel grembo urbanistico di Roma per saggiare se sia ancora profondo»). O forse una fanta-storia. Nella parabola di Grumbach agiscono Le-queu, Ledoux, Taut, L-C, Sauvage, Oud, Terragni, mentre Rowe tiene i fili di una serie di marionette: uno pseudo-valadier, un falso Quarenghi, un Napoleone immaginario (Santa Alleanza o armata Brancaleone?). La storia come avrebbe potuto essere, il futuro come immaginazione del passato.

O bisognerà parlare di un trionfo della preistoria? Il mito della tenda e della tettoia (la casa di Adamo in paradiso o la «Loggia» di Laugier?) coincide col mito della caverna. Il buon selvaggio può anche chiamarsi Graves o Krier. Sulla storia può trionfare il tempo. Ne1la più grande delle piazze di Leon Krier quando scende la notte si spegne l’architettura e si accende una costellazione di orologi «i grandi dischi vitrei assumerebbero l’aspetto di lune nella semioscurità ». Gli allucinanti orologi lunari surrogano gli orologi solari dell’antico Campo Marzio testimoniando, come in Dalì, la persistenza della memoria. La città di pietra potrà anche tendere alla condizione del rudere come istantanea di una situazione che conduce indefinitivamente al trionfo della morte (Roma. cadavere eccellente). E forse qualcosa ancora si dovrà leggere dietro alla filosofia della «ruderità artificiale» di Grumbach e Rowe.

La storia può venire «naturalizzata» e in definitiva neutralizzata per giungere al trionfo della natura. Nel conteggio alla rovescia di Portoghesi vengono progressivamente eliminati tutti gli strati che suonano come offesa al grado zero della natura. Sentite, nelle viscere della terra, quel fiume sotterraneo che scava una voragine sotto i nostri piedi? Sono le radici naturali che fanno esplodere l’humus inquinato della storia. La recherche della verginità perduta è anche l’aspirazione al ritorno alla fecondità del caos, l’età della Genesi che contiene in sé tutti i germi della nascita e dello sviluppo. Peccato però che il demiurgo senta poi la necessità di ricostruire nel deserto del possibile, fino a compromettere la «natura ritrovata». Al «regno delle forre» di Portoghesi fa eco la restituzione della «valle dell’Aggere serviano» proposta da Giurgola: come non pensare alla Vallée des Loisirs di Chandigarh? Contro il «regno animale» scendono congiuntamente in campo il «regno minerale» e il «regno vegetale». Nel labirinto della «città selvaggia» Grumbach ritrova un filo d’Arianna vegetale, scoprendo che da sempre la natura è parassita della storia. Dietro il progetto di Dardi per una «città-serra » riaffiora la canalizzazione agricola di Metaponto, nel nodo indissolubile di cultura e coltura: e nel «poème-symphonie de l’angle droit» le impronte archetipiche dell’aratro (fondazione di Romolo e Remo) fanno da contrappunto alle linee del pentagramma. Saranno anche queste le «parallele della memoria» indicate da Argan? Il gioco sapiente di L-C diventa incerto come la partita a scacchi di Duchamp. Sugli archetipi della «natura pura» -il deserto, la valle, la montagna- possono poi trionfare gli archetipi della «natura umanizzata»: la montagna sacra e il lago artificiale. Proprio quest’ultimo sembra uno dei Leitmotive più ricorrenti: vedi il lago di Dardi a piazza del Popolo, o il lago «all’inglese» di Stirling fuori le Mura, o il lago realizzato da Graves in piazza S. Pietro (colonnato come porto?), o l’allagamento delle Terme di Diocleziano operato da Giurgola, o la modesta proposta sadica di Aldo Rossi nelle Terme di Caracalla (una piscina che minaccia di affogare vecchi e invalidi nell’acqua troppo profonda, proponendo «una continua tensione non priva di elementi spettacolari»). Vengono indubbiamente a galla il prototipo aulico dell’antica «Naumachia» e il modello di comportamento popolare del «lago di piazza Navona »; mentre è da sottolineare il ritorno alle Terme promosso non soltanto da Rossi (amore e ginnastica) e da Giurgola (gite in barca fra i ruderi) ma anche da Graves con la trasformazione di S. Pietro in impianto termale (la basilica è cosi ricondotta anche funzionalmente alle matrici della spazialità imperiale). E aldilà della forma l’inconscio suggerisce l’idea delle acque materne e il mito di Narciso: specchiarsi in Roma e leggervi la propria storia se non il proprio destino.

Ordine o disordine? Restauro o rivoluzione? Le risposte sono ovviamente diverse, contraddittorie. Il restauro delle preesistenze è visto da Rossi come «scorciatoia compositiva»; e la sua forma simbolica è lo spiritoso S. Spirito della restaurazione immaginato da Rowe con relativo contorno di cavalieri della restaurazione. Le Corbusier aveva visto nell’antica Roma il trionfo dell’ordine, con particolare riferimento alle cupole, ai ponti e agli acquedotti (« Roma: la geometria, l’ordine che detta legge, guerra, organizzazione, civiltà»). Ed ecco puntualmente apparire una serie di cupole cosmiche, mediate da Olbrich e Taut. ecco i ponti di Rob Krier e Portoghesi, ecco gli acquedotti ripristinati da Giurgola e Rossi e il finto acquedotto di Grumbach. Ma poi l’illusione dell’ordine è scossa dalla pars destruens del caos, fino al trionfo della révolution surréaliste. Saranno allora i particolari a mettere in crisi il sistema e a proporsi come metodo: si pensi all’avventura kafkiana della chiave di volta di Porta Maggiore sostituita da Graves a una informe raggiera di strade e proposta come chiave di volta dell’immaginazione creatrice. L’object trouvé diventa parabola del microcosmo alla conquista del macrocosmo, mentre il frammento si rivela come condizione ideale e persino ideologica del poter essere, della progettualità, delle valenze libere nel salto di scala e nel salto di spazio e di tempo. Ma il frammento è anche porziuncola di storia e di verità, come i lacerti marmorei della forma urbis che restituiscono la realtà catastale della Roma imperiale. Ma come trasformare la città dei re, degli imperatori e dei papi in cittadella per l’uomo nuovo? Graves, contraddicendo Platone introduce a piazza Navona una repubblica di artisti. Giurgola propone con molta serietà un circuito utopico chiuso e autosufficiente in cui il recinto sacro delle mura (in Rob Krier « mura inquietanti ») diventa cordone ombelicale fra vecchio e nuovo mondo. Ma l’arma più penetrante resta l’ironia. Con Sartogo e Leon Krier il cuneo rosso di Lissitzky si insinua due volte nella cittadella bianca della religione e della retorica, mettendo in forse l’abbraccio ecumenico berniniano. La vecchia talpa (Fourier prima di Marx) non è soltanto uno spettro sotterraneo ma un bulldozer che agisce alla luce del sole mandando a pezzi la vecchia storia: le forbici di Sartogo lacerano la tigre di carta del Vaticano? esorcizzando con l’ironia politica il ricordo del piccone risanatore. Nel gran teatro della Roma rinascimental-barocca la danza macabra approda infine nell’idillio sociale, e l’invaso di S. Pietro diventa Teatro dell’opera e luogo di balletto. L’analisi storica rivela le pieghe più recondite dell’anatomia di Roma. Ma si tratterà di vivisezione, o di autopsia? «L’utopia », scrive Argan, « è il contrario ateo della provvidenza», l’immaginazione è la provvidenza dei laici e Roma, speriamo, sarà finalmente laica o non sarà più ». Ma riuscirà la nostra immaginazione ad arrivare al potere superando gli scogli di Weimar? O la città dovrà accontentarsi di un trionfo di carta? Per il momento c’è ancora inevitabilmente troppa ideologia sia nella consacrazione della storia (orgia di museo, ovvero museo silenzioso) sia nel suo epitaffio. L ombra del Plan Voisin non può che condurre al progetto come cimitero della storia e delle sue forme.

Bibliografia

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[1] G. C. Argan, Le mappe del desiderio: proposte di architettura per una Roma diversa, “Modo”, n. 13 (ottobre 1978) pp. 39-42.

[2] A. Betsky, Interrogazioni sull’architettura: meditazioni sullo spettacolo lì fuori, in 11. Mostra Internazionale di Architettura, “Out there: Architecture Beyond Building”, Installazioni, Volume I, Venezia 2008 pp. 14-21

[3] M. Costanzo, Addizioni, “(H)ortus” (settembre 2008).

[4] M. Costanzo, Museo fuori dal museo. Nuovi luoghi e nuovi spazi per l’arte contemporanea, Milano 2007, pp. 33-36.

[5] G. Strappa, Unità dell’organismo architettonico, Bari 1995.

[6] G. Strappa, Inaugurazione della Consulta dei Beni Culturali dell’Ordine Architetti P.P.C. di Roma e provincia, Roma 2 aprile 2008.

[7] A. Betsky, Roma re-interrotta: verso un’archeologia critica, “Roma interrotta”, La Biennale di Venezia “Out there: Architecture Beyond Building”, Venezia 2008.

[8]A. Saggio, “Roma Ininterrotta”. La permanenza dell’immagine e della spazialità della Roma del XVIII secolo nelle ricerche architettoniche contemporanee, in Giambattista Nolli, Imago Urbis, and Rome, Studium Urbis, Rome 2003.

[9] A. Camiz, The Nolli plan as a palimpsest for creative urban design, in Giambattista Nolli, Imago Urbis, and Rome, Studium Urbis, Rome 2003.

[10] A. Camiz, Periferie significanti Vs. sradicamento, disidentità relazionale ed invisibilità degli spazi collettivi nella città capitalista, in Periferie? Paesaggi urbani in trasformazione, “ArchitetturaCittà”, n. 2, Milano 2007, pp. 15-17.

[11] A. Ceen, Roma ripercorsa. Redefining lost urban connections, Studium Urbis, Rome 2005.

REM KOOLHAAS EREDE DI CEDERNA

di Giuseppe Strappa

in “Antonio Cederna. Scritti per Roma” ,a cura di M.Antonelli Carandini  e  V.Mannucci, Roma 2008

Gli articoli, lucidissimi e appassionati, di Antonio Cederna sul “Mondo”, sul “Corriere della Sera”, su “La Repubblica”, ci ricordano come quella per la difesa dei centri storici sia stata una grande battaglia della sinistra italiana e, soprattutto, come la nascita di una cultura della tutela dei tessuti storici, dopo le distruzioni operate dal fascismo, sia un fenomeno assolutamente moderno.

E’ importante rileggere questi articoli oggi, quando sembra che, con le condizioni al contorno, siano cambiati anche i valori che di quella cultura erano (e sono) gli indispensabili presupposti e mentre, nella confusione delle idee, molti ritengono che i veri progressisti siano quanti premono perché i nostri centri storici si adeguino alle indiscriminate, radicali trasformazioni in atto in altri paesi.

Ma quali sarebbero le posizioni di Cederna nelle condizioni attuali, quando si costruisce a Pechino un progetto appena terminato a Parigi e al posto di un isolato demolitoa Londra nasce, improvviso, un grattacielo newyorkese? Quando tutto sembra accadere, nella metropoli contemporanea, dovunque e simultaneamente?

Se devo pensare ad un intellettuale capace di interpretare oggi, nel mondo globalizzato, il suo pensiero limpido e intollerante, mi vengono in mente le parole di Rem Koolhaas, vale a dire proprio dell’interprete estremo dell’universo in convulso fermento della metropoli contemporanea e della sua estetica di distruzioni e rigenerazioni, anche perché da noi stuoli di giovani epigoni trascinati dal fascino delle sue architetture dure e inospitali, continuano a visitarne le intuizioni critiche, fulminanti e visionarie.

Pochi si aspettavano che al quesito, postogli in un recente incontro all’Auditorium di Roma, di come la Capitale possa oggi competere con le architetture delle altre città mondiali, Koolhaas avrebbe risposto con parole che avrebbe potuto usare Cederna: “Roma non ha bisogno di alcuna competizione; ha già tutto quello che una città può desiderare. E’ perfetta così.”

Doveva essere questo corrucciato profeta della congestione e della densità iperbolica a darci la sintesi più lucida di quello che molti romani, di sinistra o di destra, conoscono attraverso il sentimento: la necessità, autenticamente contemporanea, di considerare il nostro centro storico come una sola opera d’arte organicamente definita, dove ogni addizione o sostituzione non necessaria (non necessaria!) può provocare catastrofi.

Ieri la questione era quella del “restauro selvaggio”, come lo definiva Cederna negli anni ‘70, che svuotava gli edifici del centro storico romano lasciando solo le facciate. Oggi, a questo problema ancora vivissimo, si aggiunge il contesto minaccioso di una cultura dell’immagine che sembra ignorare ogni valore che non si esprima nell’eccezionalità mediatica dell’oggetto architettonico considerato nella propria perfetta autonomia. Se s’imposta con chiarezza il problema e se ne traggono con rigore le conseguenze, se si riconosce che nei nostri centri storici, caratterizzati da straordinaria organicità, tutto è necessario e nulla è autonomo, le indicazioni per il futuro appaiono in tutta la loro lineare limpidezza.

Tra qualche anno ogni grande metropoli possiederà un cospicuo numero di architetture firmate. I turisti andranno a Shanghai per ammirare le ultime meraviglie dello star system architettonico. Poi, esauriti i fuochi pirotecnici, invecchiate rapidamente le forme, lo spettacolo si sposterà in qualche altro grande e vorace centro del pianeta.

Perché dovremmo entrare in questo vortice? Competere con Pechino o Shanghai dove le opere più sbalorditive si costruiscono ogni anno a decine? Al prezzo di importare nel nostro centro storico le frammentazioni delle periferie quando occorrerebbe fare il contrario.

Koolhaas è rimasto stupito, ha dichiarato, dal rapporto di consuetudine dei cittadini romani con l’antico, dal passato abitato senza feticismo. Noi che questo vero, straordinario, fragile patrimonio possediamo, sembriamo rassegnati al rischio che venga spazzato via dall’ansia di introdurre a forza nuove architetture. Le quali, a parole destinate a rinnovarlo e proteggerlo, in realtà rendono il passato distante, banale: omologato, anch’esso, a quell’irrefrenabile bisogno di spettacolarizzazione che, tracimando dai media, sembra ormai il vero motore di ogni trasformazione.

Che oggi, nel generale clima di possibilismo culturale, di mediazione, di diffusa tolleranza verso danni irreversibili al nostro patrimonio storico, si debba cercare una voce perentoria e disinteressata proprio tra i cantori della dissoluzione della città contemporanea, la dice lunga sul vuoto lasciato dalla figura di Antonio Cederna: vuoto morale, intellettuale, politico.