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FREGENE E LA DISTRUZIONE DEL PAESAGGIO

Il disastro normalizzato di Fregene

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 08.11.09

Qualche giorno fa gli agenti della Polizia ambientale e forestale, su provvedimento del tribunale di Civitavecchia, hanno posto i sigilli su quaranta abitazioni costruite tra il lungomare di Fregene e viale Viareggio per “lottizzazione abusiva in aree a tutela paesaggistica”.
Il balletto dei ricorsi è solo iniziato, tra accertamenti di responsabilità e verifiche di sub deleghe, ma fin d’ora colpiscono due aspetti della vicenda.
Il primo è l’esiguità dei provvedimenti rispetto alla vastità delle distruzioni in atto, perché l’intera località sembra colta, da tempo, da un’inarrestabile attività costruttiva.
Certo, quegli ultimi resti di un paesaggio selvatico calpestati dalle volgari villette sequestrate, colpiscono l’occhio ed il cuore. Ma anche le più composte costruzioni che spuntano come funghi nelle aree verdi finiscono per dare un poderoso contributo alla rovina del paesaggio. E qualora fosse provato che tutte hanno rispettato le procedure, i piani, le norme, la contraddizione emergerebbe in tutta la sua allarmante evidenza: l’obbiettiva, progressiva, inaccettabile distruzione di uno straordinario patrimonio naturale sarebbe stata compiuta nel pieno rispetto delle leggi.
Il secondo aspetto che preoccupa di questa vicenda è l’assenza di proteste, la “normalizzazione” del disastro.
L’assalto alle coste ha, da noi, una tradizione antica. Ma decenni di battaglie civili hanno dimostrato, almeno, come fosse chiaro il confine tra profitto privato e diritti dei cittadini. Da allora qualche cosa sembra cambiato nel profondo delle coscienze. Anni di condoni e di incertezza del diritto hanno minato quelle verità. Lo stesso termine “speculazione edilizia” è divenuto un relitto linguistico. Perché, del resto, non posso costruire una villetta in un’area protetta? Quando lo Stato finirà per darmi ragione o, almeno, per perdonarmi con una strizzatina d’occhio?
C’è voluto un esposto di Italia Nostra e quasi due anni d’indagini del pubblico ministero Pantaleo Polifemo per fermare, per ora, lo scempio. Ma, nel sonno delle coscienze, vedremo come andrà a finire.

IL DEMONE DI LUIGI MORETTI

CONVEGNO

LUIGI MORETTI

ARCHITETTO DEL NOVECENTO

24,25,26 SETTEMBRE – AULA MAGNA DELLA FACOLTA’ DI ARCHITETTURA “VALLE GIULIA”

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In “Corriere della sera” del 23.10.2009
di Giuseppe Strappa

Architetto del Foro italico nel ’36 e del Watergate nel ’61, progettista della GIL di Trastevere e della “Califfa” a Santa Marinella, Luigi Moretti è stato uno dei personaggi più contraddittori e, insieme, geniali dell’architettura romana.
Se non c’è dubbio che la sua “Casa delle Armi” è uno dei capolavori assoluti del moderno europeo, una travagliata vicenda umana lo ha relegato a lungo in uno strano limbo. La critica del dopoguerra non gli ha mai perdonato, in realtà, il solido legame con la destra economica delle immobiliari e degli speculatori e solo nel ’75 Renato Bonelli ruppe il silenzio con un’isolata monografia che rimane, ancora, un esempio d’onestà intellettuale.
A questo imbarazzante demone della cultura romana, che si vantava di lavorare solo per principi e petrolieri, è dedicato un grande convegno presso quella Scuola di Valle Giulia dove Moretti, allievo di Giovannoni, si era formato.
Un’ occasione per riflettere non solo sulla sua opera, ma anche sulle contraddizioni che percorrono interi strati, sotterranei e ben nascosti, dell’architettura moderna. Perché vorremmo che il bello coincidesse con il bene, con il giusto, con l’utile, e invece l’architettura, come la vita, è contraddittoria e non si lascia spiegare con una formula. Vista con gli occhi ingenui che legano forma, etica, politica, La “Casa del Girasole” in viale Bruno Buozzi, ad esempio, è una versione di lusso delle tante palazzine della speculazione romana. Ma è, invece, anche un’opera straordinaria. Moretti vi dispone con cura una parete luminosa di tessere vetrate per poi squarciarla con un violento taglio verticale nel quale rifluiscono le ombre scure dell’atrio e del basamento in pietra grezza. Un pizzico di follia sulla solidità muraria romana. Una macchina barocca che non ha nulla, tuttavia, delle forme del passato.
Forse proprio questa comprensione profonda della continuità del moderno e del senso dell’innovazione, è uno degli antidoti più efficaci che ci ha lasciato Moretti contro la deriva arbitraria e narcisista di molta architettura contemporanea. Perchè “quando tutto è ammissibile – scriveva già nel ’69 – niente è ammissibile”.

RIDOLFI, IL VILLINO ASTALDI E IL POVERO FOSCHINI

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di Giuseppe Strappa

Il valore di un simbolo, in «Corriere della Sera» del 04.03.2006

Il villino Astaldi, celebrato per la memoria che lo lega alla figura di Ridolfi e mai a quella di Foschini è, oggi, un’opera d’architettura tra le più complesse. E’ il simbolo del passato che ha cessato di fluire nel presente e un viaggio nell’inquietudine della nostra coscienza moderna: non solo una stratificazione che, come un deposito geologico, mostra i traumi delle diverse epoche di formazione, ma anche la rappresentazione, esibita, di una demolizione, di un giudizio su un’intera stagione dell’architettura romana e di una rottura della quale, ancora, portiamo i segni.
Una storia che ha inizio ai primi del’900 con la lottizzazione delle aree comprese tra Villa Torlonia e Villa Borghese dove l’ing. Adolfo Sebastiani decide di costruire due magnifiche ville per le proprie figlie. L’architetto è quell’Arnaldo Foschini (coadiuvato da Attilio Spaccarelli) destinato a svolgere un ruolo decisivo nelle vicende edilizie romane, dalla trasformazione di corso Rinascimento alla presidenza dell’INA Casa negli anni della Ricostruzione. Nei due edifici costruiti tra via Mercadante e via Porpora, Foschini si pone sul solco tracciato dai maestri, dai Koch, dai Calderini. Ma il tradizionale riferimento al rigore dell’architettura civile del’500 diviene meno severo, si stempera nei primi, tolleranti sentori del“barocchetto” che incresperà lo storicismo romano di un gusto pittoresco e lieve, brulicante di sottili estrosità.
Il villino destinato a Valeria Sebastiani, rilevato e completato nel 1923 dalla famiglia Astaldi, viene sottoposto a radicale trasformazione nel 1954. Questa volta l’architetto è Mario Ridolfi, uno dei migliori del panorama romano. Il quale demolisce i volumi dell’attico che concludono l’edificio per costruire un grande piano in calcestruzzo armato, aggettante dal filo dell’edificio. Una nuova costruzione nasce così liberamente, come poggiata, si direbbe, su una sorta di suolo artificiale, su moderne rovine: “completamente staccata – per usare le parole di Ridolfi – e disimpegnata dal resto”, è priva del legame organico che, a Roma, ha sempre annodato alle preesistenze la nuova costruzione.
Per questa sua storia di lacerazioni, il villino Astaldi sembra sintetizzare, in modo esemplare, valori e contraddizioni della vicenda romana moderna, dove la qualità dell’architettura si confronta con la labilità delle regole e sembra divenire incerto, perfino nella coscienza dei migliori, il senso e il carattere della realtà costruita.



UNA NUOVA SCUOLA PER GLI ARCHITETTI

di Giuseppe Strappa


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in «Corriere della Sera» del 11.04.08

Una grande città come Roma ha bisogno, è ovvio, di buoni architetti. Ma non bastano le iniezioni di architettura, le grandi opere disegnate da star internazionali che possono servire, al più, a promuoverne l’ immagine. Occorre che a Roma si formino nuove generazioni di bravi architetti: la vera modernità, quella che trasforma i luoghi dove pulsa la vita, le periferie, i quartieri sovraffollati, le borgate, sarà progettata dalle centinaia di architetti che, ogni anno, sfornano le nostre facoltà. Ma è vero, come è stato scritto su queste pagine, che oggi questa formazione è un po’ provinciale. Il vero ritardo del nostro intero mondo dell’ architettura è, in realtà, e da anni, dovuto al terrore stesso di essere provinciali.  Sull’onda delle mode, delle nuove specializzazioni, delle contaminazioni tra  discipline, l’insegnamento si è frammentato in mille rivoli. Corsi di laurea triennali di ogni tipo dovrebbero ampliare l’ ’”offerta didattica”, secondo un’espressione da grande magazzino ormai in voga. Come se, per affrontare la complessità di un mondo in convulsa trasformazione, bastasse disperdersi nei suoi infiniti meandri. Inseguendo tendenze e specialismi, si è dimenticato, così, che il centro dell’attività dell’architetto è il progetto, la sintesi che unifica in un solo gesto costruttivo strutture, spazi, materiali, impianti.
Forse siamo allo stadio terminale di una schizofrenia genetica delle facoltà di architettura italiane, nate dall’unione di insegnamenti di ingegneria con quelli delle accademie di belle arti: due anime che non hanno mai trovato una vera fusione. Eppure la Scuola di Architettura romana delle origini ha rappresentato, unificando ogni disciplina nel progetto,  un modello diverso nel quadro italiano che ha prodotto non solo grandi architetti, ma figure importanti in molti campi della cultura: grandi storici, restauratori, archeologi, costruttori, scenografi, critici la cui originalità consisteva proprio nel vedere il mondo con gli occhi del progettista.
Per non essere provinciali forse basta guardare alle nostre spalle, pensare (come si sta, peraltro, sperimentando altrove) non ad facoltà universitaria, ma ad una moderna scuola dove ogni disciplina non si chiude nel proprio statuto, ma è concentrata su un solo scopo: l’educazione al progetto. Sarebbe una scelta contro quella perdita di centro che ha comportato la deriva superficiale dell’architettura italiana testimoniata dalle goffe e datate polemiche in corso. Ultima quella sui nuovi progetti milanesi che vede Mike Bongiorno e Fuksas parlare, con gli stessi argomenti, ancora del grattacielo come energia futura della città. Specchio di questa condizione è l’involontaria autoironia con la quale Milano si accinge a costruire i propri simboli contemporanei come scintillanti oggetti di design: una torre  strizzata e ritorta, un grattacielo puntellato, un altro ripiegato su sé stesso, curvo e molle, come afflosciato dopo uno slancio vitale.

QUARTIERI ROMANI DEGLI ANNI ‘60

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 05.03.2007

Viste dall’aereo le case dell’ IACP al Casilino sembrano formare un’allegra, disordinata raggiera, come bastoncini dello shangaigettati casualmente al suolo. Da terra, invece, appaiono come casermoni che convergono verso il nulla, governati da direzioni astratte. I progettisti ne spiegarono le ragioni con argomenti bizzarri: l’analogia con la forma del Colosseo, l’affinità con i tessuti urbani antichi. Spiegazioni che oggi, percorrendo questi spazi che sembrano vivere in una dimensione irreale, fanno sorridere.

In realtà, per comprenderne il senso, occorre collocare il Casilino (e molti quartieri IACP contemporanei) all’interno della crisi profonda che percorre l’architettura degli anni ’60. Un decennio in cui tutto sembra precipitare, che si apre con le Olimpiadi di Roma e si chiude con la strage di piazza Fontana. E in mezzo i primi simboli della società dei consumi (gli elettrodomestici, le utilitarie), la corsa allo spazio, la rapina del territorio, la ribellione studentesca, il Vietnam. E’ il periodo in cui appaiono, con drammatica evidenza, le prime crepe dell’ideologia del moderno mentre gli strumenti dell’architetto, i suoi linguaggi, il suo stesso ruolo, mostrano tutta la propria inadeguatezza di fronte ad un mondo in vorticosa trasformazione. Scompaiono, intanto, i maestri: Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe.

Un libro di Marcello Pazzaglini (Architettura italiana degli anni ’60 e seconda avanguardia, Mancosu editore) presentato nei giorni scorsi alla Casa dell’Architettura, fornisce l’occasione per riflettere su questo intricato, e poco indagato nodo di questioni.

Dalle architetture disegnate come ordigni meccanici di Sacripanti alle labirintiche strutture del gruppo GRAU, viene descritta l’ansia di cambiamento che si manifestava, in quegli anni, attraverso intuizioni improvvise e spesso utopiche che sembravano tradurre la ricerca dell’arte informale in tormentate geometrie e inquieti spazi architettonici. Una lacerante rottura tra forma e contenuto che non fu certo solo italiana e che, consolidatasi nel tempo, ha prodotto opere di grande successo come il museo Guggenheim costruito da Gehry a Bilbao, edificio-scultura estremo dove la pelle è indipendente dallo spazio interno.

Forse l’abbaglio di quegli anni è stato tentare di estendere criteri estetici impiegati per teatri, padiglioni, monumenti al tema dell’edilizia pubblica.

Pazzaglini, va detto, non è uno storico ma un architetto militante che ha partecipato in modo appassionato alle vicende di quegli anni. E’ giusto, dunque, che veda il mondo dal proprio punto di vista.

E, tuttavia, alcuni esempi indicati quale positiva ricaduta di quel clima culturale, (la raggiera del Casilino, le “vele” di Secondigliano) ci fanno domandare se non sia arrivato il momento di guardare a molti interventi d’edilizia pubblica con occhi nuovi, se la loro fortuna critica non rispecchi un equivoco di fondo che rischia di creare nuove catastrofi.

Perché le stesse ragioni che hanno prodotto il disegno del Casilino hanno generato, anche nei decenni successivi, una danza sfrenata di linee spezzate, sinusoidali, circolari come a Vigne Nuove, Spinacelo, Tor de’ Cenci, Serpentara, Tiburtino Sud. Figure astratte, d’inverificabile coerenza, calate sul territorio come meteore che mostrano, a viverci dentro, tutti i limiti degli intensivi più banali. E che fanno rimpiangere la familiarità corale dell’edilizia popolare degli anni ’50, come le case INA al Tuscolano.

Questi fallimenti andrebbero riconosciuti senza il pregiudizio delle firme illustri che li nobilitano. E dovrebbero far riflettere su quale significato profondo possieda il modo in cui gli abitanti immaginano la forma del loro spazio domestico, sull’arroganza con cui sono stati costretti a vivere entro forme gratuite, che sembrano annunciare novità inesistenti, dove ogni individuo è straniero. In nome di un’originalità di facciata che andrebbe, invece, cercata pazientemente nell’origine delle cose: partendo di nuovo, come agli albori dell’architettura moderna, dai problemi concreti dell’abitare, mettendo l’uomo e i suoi bisogni al centro del progetto.