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Attualita’ della proposta di M.R.G. Conzen

Attualita’ della proposta di M.R.G. Conzen

Giancarlo Cataldi, Gian Luigi Maffei,  Marco Maretto, Nicola Marzot, Giuseppe Strappa

Presentazione del libro L’analisi della forma urbana (Franco Angeli, Milano, 2012) edizione italiana del libro di M.R.G. Conzen, Alnwick, Nurthumberland. A study in Town Plan Analysis Institute of British Geographers, London 1960

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’edizione italiana dello studio su Alnwyck riveste, a nostro avviso, un significato che va oltre la documentazione dell’analisi esemplare di una piccola città inglese ai confini con la Scozia, per acquistare un senso più generale.

Con la fondazione dell’Isuf (International Seminar on Urban Form), nel 1994, gli studiosi italiani di morfologia urbana hanno scoperto il patrimonio di conoscenze della scuola geografica inglese che fa capo a M.R.G. Conzen, illustre geografo di origine tedesca autore dello studio che qui presentiamo, e dei suoi continuatori, J.W.R.Whitehand, T.R. Slater, P. Larkham, K.Kropf, oltre al figlio Michael Conzen.

Non solo ne veniva riconosciuta l’affinità con molte delle proposte sviluppate dalla scuola italiana, sulla scia dell’insegnamento di Saverio Muratori, ma, soprattutto, se ne costatava la reciproca complementarità ponendo finalmente le basi concrete, dopo tanto parlare di rapporti interdisciplinari, di un lavoro comune attraverso il quale geografi e architetti potessero condividere, all’interno di uno stesso terreno di studi, metodi di ricerca e, ci si consenta il termine, “vocazioni” comuni. Perché, questo è il punto, il lavoro di M.R.G. Conzen dimostra una spiccata propensione a interpretare la città e il territorio come sintesi vitale di un flusso di esperienze storicamente individuate. M.R.G. Conzen ha compreso in modo operante, in altre parole, quello che per noi costituisce la sostanza stessa dell’architettura: che ogni forma (del territorio, della città, degli edifici) è il risultato di un processo, della progressiva associazione organica di parti, e che ha senso scomporla e indagarne le componenti solo se si tiene conto della sua sostanziale unità e indivisibilità. Possedeva, dunque, una nozione di organismo urbano e territoriale che, mai espressa attraverso esplicite definizioni, ha operato come un sostrato profondo nel dare coerenza “architettonica” alla struttura teorica della propria indagine.

Questo dato costituisce uno dei grandi motivi d’interesse dello studio su Alnwick, ma anche, riteniamo, la ragione dell’attualità della proposta di M.R.G. Conzen: lo sforzo di comprendere la forma delle cose non per quello che sono, ma nel loro divenire storico permette, infatti, di leggere anche le condizioni di lacerazione della forma del territorio contemporaneo come stato di transizione, momento provvisorio di una trasformazione continua il cui carattere è, in questo, non troppo diverso da quello città medievale in perenne cambiamento, ed è informe solo per chi non sappia leggerne la latente aspirazione alla composizione e all’unità. E’ proprio questa aspirazione a riunire il molteplice, più che l’unità in se, a dare forma alle cose e senso al progetto.

In questo senso la lettura di Alnwick è l’individuazione di una teoria: la storia perfetta di un piccolo borgo narrata nelle sue fasi formative fino alla condizione contemporanea. Fasi ricondotte a provvisorie unità da un singolare “epos geografico” che individua, rende cioè unici e irripetibili, comportamenti generali che la lettura riconosce come patrimonio comune di molti altri insediamenti e territori dove la forma del suolo e il lavoro dell’uomo stabiliscono una solidarietà riconoscibile come “tipica”.

E’ di natura architettonica, inoltre, una delle principali innovazioni nella lettura del territorio introdotte da M.R.G. Conzen, quella di fringe belt, che ha a che fare direttamente non solo con la documentazione che il cartografo riporta attraverso convenzioni, ma con la lettura critica, che coincide con il progetto delle trasformazioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si tratta di una nozione complessa, cui è impossibile associare un termine italiano, tant’è che nella traduzione abbiamo dovuto impiegare una perifrasi ma capace di fertili traslazioni dall’ambito strettamente geografico a quello progettuale, contribuendo a cogliere, oggi, alcuni caratteri fondanti dell’instabile metropoli contemporanea. In realtà le idee affini di “perimetro” e “confine” sono state da qualche tempo alla base della lettura di qualsiasi forma del costruito, in particolare nel campo degli studi urbani condotti da architetti, mettendo in luce, tra l’altro, la storica contrapposizione tra città e campagna e il suo disgregarsi nel magma dello Spratly urbano. Eppure esse sono capaci di cogliere solo uno degli infiniti stati di transizione, semplificando le letture ma anche riducendone il significato. Propongono, in altre parole, uno sviluppo discreto di un processo in realtà continuo e che procede, nondimeno, per fasi di accelerato sviluppo seguite da altre di rilevante stasi. La nozione di fringe belt coglie invece le trasformazioni intermittenti del perimetro nel loro fluire: non solo come confine, ma come premessa di una nuova struttura dapprima fluttuante e incerta (liquida, si direbbe oggi) che si consolida, viene demarcata e diventa più stabile nel tempo. Compresa a fondo, l’innovazione terminologica e metodologica conzeniana permette di interpretare la frammentazione delle periferie urbane non semplicemente come caotiche, e per questo indecifrabili, lacerazioni, ma nel loro significato autentico di strutture in formazione, delle quali vanno riconosciuti caratteri evidenti e potenziali.

Questa innovazione, rivolta alla realtà dei fenomeni in atto, sembra oggi tanto più attuale, quanto più le analisi urbane si vanno distaccando dallo sviluppo dei fenomeni concreti.

E’ in questo senso che l’edizione italiana dello studio su Alnwick ha il significato, come si diceva, di una proposta alternativa: individua un fronte comune contro la deriva astraente di molte delle riflessioni contemporanee sull’architettura alle diverse scale del territorio, della città, degli edifici. Ci confrontiamo oggi, infatti, con una crisi dai caratteri ignoti nelle grandi fasi di transizione del passato, dove la lettura indiretta e mediatica del mondo costruito va sostituendo la conoscenza diretta della realtà, svincolando la forma progettata dalle relazioni organiche che dovrebbero tenerla unita agli altri aspetti dell’uso del territorio. Smarrendo, in fondo, le basi che permettono di leggerne la reale complessità e di cogliere l’istanza a quel vicendevole rapporto di necessità tra le parti che il grande flusso delle modificazioni del paesaggio costruito, forse più che nel passato, oggi ci pone.  Senza la nozione di organismo urbano, senza la forma data da un confine pur mutevole e strutturante, la lettura di una condizione in rapida trasformazione, gli spazi dei margini irrisolti della città contemporanea acquistano il significato, suggestivo quanto inutilizzabile, di grandi schegge in conflitto tra loro. Lo spazio delle nostre periferie finisce così col ricadere nel grande mare del pittoresco metropolitano, dei territori “ibridi e vaghi”: la città reale come combinazione fortuita, uno dei tanti casi del possibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si vedano, per convincersene, le interpretazioni della città contemporanea (da Virilio a Koolhaas) che hanno conquistato intere generazioni di architetti, dove la metropoli diviene un luogo della mente che racchiude personali rappresentazioni delle trasformazioni in corso, livelli sovrapposti di “architetture eventuali”, layers di realtà possibili e discontinue, secondo una cultura disciplinare che organizza, di fatto, il consenso alla crescita della metropoli contemporanea per addizioni ininterrotte e seriali.  E’ evidente, se solo si alza lo sguardo al di sopra delle contingenze, come la funzione dell’architettura sia ancora quella dell’arte borghese, ancora quella tafuriana di “allontanare l’angoscia introiettandone le cause” che racchiude, anche, l’ambizione di progettare la casualità del molteplice letto nei suoi frammenti separati: l’evocazione della complessità contro la sua soluzione. Scomparsa la pertinenza con la propria fase storica e con la propria area culturale (tolte dal loro tumultuoso contesto economico e antropico) le forme si trasformano in oggetti di evocazione. Una tecnica di seduzione, dove le contraddizioni sembrano di volta in volta, illusoriamente e paradossalmente, sciogliersi nell’eccesso dello spettacolo.

Non è, dunque, un caso che lo studio su Alnwick, e la proposta di metodo che contiene, siano proposti al lettore italiano proprio oggi, quando la produzione neoromantica dello star system internazionale pone quesiti sul ruolo stesso dell’architetto, sulla sua funzione anestetizzante di mediazione culturale e politica.

Comprendere il testo di M.R.G. Conzen significa scoprire (o confermare) una via d’uscita: leggere il territorio e la città contemporanei non come semplice, apparentemente neutrale constatazione di come essi ci appaiono, ma come processo operante e conflittuale, che permette di interpretare, scegliere, disegnare in continuità col grande flusso di trasformazione del costruito e della sua storia.

 

 

 

SUBSTRATA

SUBSTRATAMorphology of the ancient city, beyond its ruins

by Giuseppe Strappa

in U+D Urbanform+Design n. 9/10 – 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. The issue

As part of the efforts we have been making for years now to renew the research methods used in the field of Urban Morphology, I believe that we shouldn’t limit ourselves to considering new topics; rather, we should take a fresh look at the matters with which the process-based school has always traditionally dealt (STRAPPA 2018). For example, we should review the ancient origins of many modern-day developments: the foundations, the material sediment and deposits of memory upon which we have built and that we use to build.

The morphology of the built environment is not a soulless discipline. We must have imagination, we must take the powerful and mysterious ancient deposit that underlie our architectural work and give them a synthetic form. This ancient layer is not dead: its living nature manifests itself through the changes that it causes, above the archaeological level, in the materials and shapes that are reused in construction or in our consciousness. It is because of this, of its generating power, that we cannot allow ourselves to merely examine it using the tools of mere perception that often lead us to create a myth around the Ancient based on its distant splendour.

Instead, we should reconstruct its developmental process in order to understand its living substance, using reason, because experience – our direct, concrete relationship with things – cannot but be partial and therefore misleading in this case. We need to make renewed efforts to distil the information at our disposal.

Despite the repeated affirmation of the principle of continuity between modern cities and their historic fabric and the definition of the Middle Ages as a time that was not at all a step backwards compared to ancient times, in actual fact the archaeological part of cities is still interpreted as a legacy of traces and foundations imparted to newer buildings in an episodic way, without the use of a general method that can condense multiple aspects into one single unified interpretation. ‘Unified interpretation’ does not mean recognising ancient remains in the appearance of modern cities, a field of study that, as we all know, has produced a quantity of researches, often with significant results. Instead, the term wishes to highlight how some tools used in morphological investigations of the built environment mostly limit themselves to considering the late medieval period, when going over the phases that lead back to its matrices, without systematically tracing them back to what generated the forms of its buildings and cities using the concepts of organism, process and type. Equally, the process through which ancient matter becomes material and turns into parts of new organisms, or the way in which spolia have been recognised as new elements to be reused, have not led to a truly systematic investigation in the field of urban morphology. This is true, at the same, when it comes to development processes considering the primary dwelling types, where, at least in Italy, we have gone no further than the housing type with external profferlo staircase. Where do these types come from? What did the ‘second nature’ of ancient ruins create? How was it used to expose the cryptae that could be inhabited, how did it generate the basic domus terrinea, and as a result the domus solarata, essential steps in growing complexity that led to new forms of dwellings (HUBERT 1990), not to mention the medieval palatium, domus maior and turris as the dawn of a new form of public building that developed in the late14th century (STRAPPA 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. Imperial age fabric in the Trastevere area (MURATORI 1963).
  2. Overlapping of the medieval fabric (V-XII century) to the imperial age substratum in the Trastevere quarter after the phases of urban contraction (V-VII century), evident in the abandonment of the southern part of the pre-existing fabric, up to the late medieval reorganization processes and recasting of the previous structures during the growth phase of the XI-XIII centuries (MURATORI 1963)
  3. Imperial fabric of insulae along the Via Recta, with indication (B) of the area of Palazzo Lancellotti, formed recasting row houses generated by the consumption of insulae (MURATORI 1963)
  4. Formation of block B of the previous plan in the reconstruction of Gianfranco Caniggia. From above. Current state, where the substrate cell of the ancient fabric is recognizable. Block substratum formed by elementary cells arranged around the open court space. First consumption phase of the ancient substratum with the reuse and superelevation of the substrate cells (CANIGGIA 1963)

It is a process in which it is often impossible to detect the intangible aspects imparted by the substratum (forms and their types) and the  physical and tangible aspects (matter and materials). Perhaps the perfect example of this are the objects produced during the long artistic life of the Cosmati family, who not only used marble and stone from ancient monuments from the 12th to the 14th centuries, but also ‘created’ forms and patterns from them for mosaics, ambones and floorings. The same consumption of the ancient city’s form also began with its self-destruction: ‘…in a certain sense we may say that the history of the destruction of Rome begins with the reign of Augustus, who undertook to transform the capital of the Empire from a city of bricks into a city of marble’ says Lanciani (LANCIANI 1901),quoting Suetonius (‘Marmoream se relinquere, quam latericiam accepisse’). Therefore the oldest substratum that has disappeared can only be understood through the form it created: it is a morphological problem and it can be tackled by turning to the notions of organism and process.

Gianfranco Caniggia raised the issue with his seminal study on the city of Como, which he used to build up a method of interpreting the change from a domus to a modern residential organism using type-based phases: ‘tabernisation’, infilling, development from single-family to multiple-family house (CANIGGIA 1963). In the same years that Saverio Muratori listed the criteria to be used when examining the cultural characters that make up the built environment (rational-cultural, economic-technical, ethical-political, aesthetic-historic), identifying four different ages of change, of which no less than two (Royal – Republican and Imperial) concern the development of the ancient city. Muratori was particularly referring to Rome(MURATORI 1963), though it is well known that he believed that the method he proposed was generally valid (and it is in keeping with that spirit that the comments we will make on Rome should be understood, in the wake of his guidelines). Studies concerning existing city layouts outside Europe, for that matter, have shown how an analysis of the historic layers  proves to be an important resource even in areas that are culturally very different (WHITEHAND 2016).

I believe that we should keep these precedents in mind so as to rebuild a scientific understanding of the way in which the layered forms of history have been transmitted to modern cities. Or rather, of the way in which modern cities have interpreted ancient forms: not the city of Alberti, Palladio and the other treatisers who reverentially approached the legacy of the past to create a learned architectural language, rather, the city where a distant basis of matter allowed the concrete reinvention (the rediscovery) of everyday architectural ‘speech’.

I think we should start by attempting to talk less of ruins. The term is as romantic as it is overused, from the picturesque explorations of the Grand Tour to contemporary revisitations, to the point where it has exhausted the possibility of proposing definitions useful to morphological studies. I think the most appropriate term we should assume (STRAPPA 2015) is substratum.

5. The Pompeus Theater in the reconstruction of Rodolfo Lanciani, s.d. (Gatteschi coll.)

6. Fabric formed by the consumption of the Pompeus Theater (surveys by Centro Studi di Storia Urbanistica, 1962)

 

 

 

 

 

 

2. Definitions

Unlike a ruin (from the Latin ruere, to collapse), a substratum (from sub sternere, to spread beneath) is recognised as a beginning, the living basis from which new organisms can spring. It is the part underneath the current built environment that no longer has any purpose but can nevertheless contribute to the life of new fabric, creating up to date building types: the distant and fertile foundation that gives rise to a new organism.  We cannot, anyway, reduce the complexity and richness of our ancient heritage to universal interpretational patterns that classify types and processes in a kind of taxonomy of the Ancient. That is true for any built environment. Instead, the identification of a few common criteria that allow us to interpret these phenomena through an architect’s eyes, tracing the many outcomes back to the general rationales that produce them, can prove useful to morphological studies.

From this point of view, we can define a ‘substratum’ as the combination of elements that once belonged to a building organism which, despite having lost both their the relationship of necessity that bound them together (their purpose and original organicity), and the continuity between the different phases of change and development, still nevertheless tranfer specific characters to the buildings springing from them . The set of these characters, transmitted in a typical and recurring form, can be defined as a ‘substratum type’.

When ancient organisms are practically reused with a new function (such as the churches of Santa Maria ad Martires, Santa Maria degli Angeli or the Pantheon),we cannot properly talk of a substratum type. Instead, the domus becomes a substratum type when it breaks up into ‘pseudo-row houses’, single-family single-facade houses aggregated around the space of the atrium that becomes a public area. Similarly, the orrea and portici structures become the substratum type of nodal public buildings when the central courtyard becomes the node, the main inner room (served, supported, central) of the new layout through a ‘knotting’ process.

The analogies with linguistics are evident, a discipline where ‘substratum’ is understood as the layer that precedes and influences the overlapping of a new language, as occurred, for example, with Etruscan and Latin or the Celtic and English. However, we should note how the term, when used in architecture, indicate the basis of an action. It implies the presence of critical consciousness, the ability to interpret and choose and, therefore, an identification of what has already been given, of what ‘lies beneath’: i.e. the sub-stantia, the substance, the essence of a thing.

This term therefore not only contains the notion of rootedness and transmission; it also refers to the means, the tool we can use to reach the essence of form, of its universal being. This universality, a quality that the actual building did not possess due to the very fact that it was constructed, constitutes a fertile abstraction: an identification as well as a design, the way in which we give a new unity to the multiple and scattered forms of the remains we have inherited. It was, furthermore, an idea rediscovered thanks to the medieval revival of the metaphysical Aristotelian concept of substratum. In other words, it is a design action, as demonstrated by the possible allotropic forms derived from the interpretation of a single substratum. Proof of this is the built environment, the way in which the material legacy of an ancient, multifarious and composite city was interpreted in a unified way by the new buildings erected in the late Middle Ages, in accordance with a particular design idea of the Ancient that surmised the existence of an original, primary substratum we can trace. It is a kind of matrix of the forms the past imparts to us, the πρτον of the Stoics you might say, or even the common original substratum of the universe, the primary layer that binds all things, a common idea in the early Middle Ages that Solomon Ibn Gabirol attempted to translate into a theory. It is then that we grasp the new, general meaning that this definition involves: every construction, at any scale, is an invenire, a finding and an invention; all fabric is a reconstruction, every building a rediscovery.

A new city’s formation, therefore, occurs with the recognition of older building organisms, what can be described as pre-formed matter that already possesses a form of its own, placed at the end of an entire life cycle and the beginning of another. I believe we can usefully distinguish two different processes in the tangibly continuous formative phases.

  • The first, the consumption process, consists in the use of buildings that make up the urban organism until the original features (constructive, distributive, spatial) belonging to their type are lost. In this sense, the substratum is an advent that marks a phase of crisis, the start that establishes the initial structure of things; or rather, can establish it, because it is obvious that the concluding phase of consumption introduces a pair of opposite, yet complementary concepts: the essential concepts of cancellation and duration that we cannot go into here. Nevertheless, the consumption of the Ancient is never in itself a dissipation, it is not due to the mere economic necessity of avoiding the importation of materials from outside of the city. The heritage is always considered to be too precious to be squandered, even in periods of great poverty and distress. Just take Abbot Suger’s plan to transport the gigantic columns found lying in the Baths of Diocletian to Paris, considering the economic and technical conditions of the early 12th century, so as to use them in the reconstruction of the Basilica of St. Denis. Apart from that, even as far back as the time of Theoderic, the symbolic importance of Roman antiquities was so great that the enormous effort of moving columns from the Domus Pinciana to Ravenna was considered justifiable (GNOLI 1971).
  • The second, the layering process, involves the diachronic development that lays down consecutive strata, each of which inherits features from the previous one and transmits others to the next. This phase continues until a new building is constructed which, over time, is also destined to contribute to the layering process. In this sense, the architect’s work contain an its own hermeneutic centre, which consists in searching for the general latent design, using the particular traces left behind by the consumption process (STRAPPA 2018). A latent design that is valid even in its contemporary condition.

It is worth stressing, by the way, how it is not easy today to propose a working method that starts from the particular and works towards the general, towards the abstraction. It is no coincidence that this work, which lies at the heart of every architectural theory, has been generally abandoned by Italian faculties of Architecture.

7. Umbertino-age consumption of the Terme di Diocleziano exedra. The new urban pole orients the fabric based on the Via Nazionale restructuring route, which is superimposed on the ancient one oriented by the Vicus Portae Quirinalis

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Principles

it is worth highlighting that we can detect two essential principles at work in both phases.

  • A principle of belonging whereby each substratum has its own predisposition towards a form and every form contains its own substratum. This principle, whereby the new form and substratum belong to each other in a reciprocal relationship, can be applied in general, and to design in particular, as the concept of substratum can also be applied to the combination of intangible contributions (which are intrinsic to a civic community, to a particular historical phase or a cultural area) and are realized (becoming reality) thanks to the concept of type. In the case of cities founded on ancient remains, the substratum physically transmits its layout (its way of providing a single, shared form) to the new buildings. Take, for example, the many redevelopments that took place in Rome after the unification of Italy, such as Piazza della Repubblica, which completed the transformation process of the ancient structures that began with Michelangelo’s conversion of the the basilica hall in the Baths of Diocletian, then redefined at an urban scale by the conversion completed in 1898 by Gaetano Koch, including the remains of the Baths exedra and preceding the axis of Via Nazionale.
  • A principle of organicity, whereby the substratum generates a modular series network that sometimes reflects the original hierarchy, but at times overturns it, as has often happened to grand complexes, particularly those dating from the imperial age (take, for example, the Theatre of Pompeus or the Balbus Crypt), giving rise to new basic buildings (houses), creating typical proportions that elsewhere are linked to the land partition, which here are linked to proportions identified in ancient structures. As far as the urban fabric formed by base buildings is concerned, we can clearly perceive their organic modularity (when we are not dealing with the consumption of public complexes), mostly derived from buildings such as insulae, apartment houses for rent, consisting of groups of rooms, usually square of around 4/6 metres per side, distributed by balconies, sometimes over six storeys high and partially built in wood when it comes to the upper floors. The characters of this type of housing demonstrate the organicity of the transformation process. Indeed, they accounted for most of the ancient fabric and had even greater influence than courtyard houses in forming the medieval fabric. In Constantine’s era, the Curiosum Urbis Romae Regionum XIIII only lists 1,790 domus, which were probably still single-family dwellings, compared to the 44,300 densely inhabited insulae that occupied the large swathes of land set aside for multi-family house for the poorer classes(LUGLI, 1941). The insula, as a physical manifestation of a building type, was to disappear during the Middle Ages in Rome, leaving an urban network that was potentially open to an infinite number of interpretations. Nevertheless, it is worth noting how the almost total desertion of the city did not actually constitute a clear historical break as regards subsequent phases. The skills that were to be rediscovered inherited most of the ancient knowledge, albeit in new terms. For example, some features of the insula were transmitted to subsequent buildings, particularly construction features (such as the vaulted roof of the ground floor ceiling and the wooden ceilings of other storeys) or the connection between houses and shops (taberna), often consisting of a sales area with a mezzanine living space, as in late medieval shops that inherited the size of the elementary cell from the insula. These ancient base buildings were built in modules along routes that were to be inherited by the later medieval city and transmitted to modern one, starting from the urban penetration of territorial roads, such as the Via Flaminia which led to the Via Lata. We can see the same modularity in the buildings appearing along other roads derived by the permanence of planned axes that continue to connect large urban polar areas, such as the Via dei Coronari, which continues to orient the structure of Rome’s urban fabric from Via Recta to the east up until the Pons Neronianus to the west, from the Tiber to the north until the Circus Flaminius and the Porticus Pompeianae to the south, with slight twists and turns, beyond which the fabric is oriented by the roads (particularly the Via Triumphalis) that connected the Forum Holitorium, emerging from the ancient river ford of Tiberina Island to the great porticoed buildings (Minucia, Octavia, Gallatorum) and the Theatrum Marcelli in Pons Neronianus (CATALDI 2016). Or such as the roads of the Trastevere district, which are not only based on the territorial route of Via Portuensis, but also on the axes of the Aurelia Vetus, determined by the Pons Aemilius to the east and the AurelianGate to the west, and by Via Septimiana, which linked the focal point occupied bythe Meta Romuli and the Circus Neronis (which was to create the Vatican complex) to the area where the complex of Santa Maria in Trastevere, a new pole of the city beyond the river, was to develop.

When it comes to ancient building types, moreover, their particular characters in themselves allow for a myriad of different outcomes from medieval renovations. Muratori wrote: ‘[Imperial] building types are easy to adapt to a number of functions thanks to the serial layout of porticoes and tabernae and the courtyard layouts arranged on the constant structural lines of later insulae’ (MURATORI1963). A perfect example is the evolution of the Basilica of San Clemente, which reached a stage in morphological maturity during the XII century, in which the geometric importance and proportions of the serial rooms of the buildings dating from the Flavian era were unified within the hierarchy of its aisles. The intermediate Paleochristian church, which was in direct contact with the ancient substratum and upon which today’s church was built, identifies a building type that was to be developed throughout the V century, updating the proportions of the aisles (narrower, longer, higher), whilst maintaining the essential characters of the original basilica (KRAUTHEIMER 1986), proof of the long morphological life of the remains buried under the new buildings. Another good example is the Church of Saints Cosma and Damiano, built using the remains of the southern part of the Basilica of Maxentius as early as the first half of the V century.

Sometimes the ancient matrices are influenced by the changed alignment of the new layout, as in Santa Maria in Cosmedin. Other times, it is the past of previously existing colonnades that almost directly transmits the old modularity to the new organisms above it, as noted in a large number of Roman churches, such as San Nicola in Carcere at the Forum Holitorium, built on top of the peripteral temple of Juno Sospita. We can also surmise that the modularity of the substratum was transmitted to new buildings even in less obvious cases, such as the III century colonnaded organism (perhaps a civic basilica) that imparted its proportions to the church of San Martino ai Monti, which was partly built reusing ancient materials, or as in the remains that were definitely still in existence in the V century on the Mons Superagius in the Esquilino area, left behind by a large courtyard building (perhaps the Macellum Liviae) when Sixtus III built a basilica that reused 42 old columns, imparted to subsequent renovations that later gave rise to Santa Maria Maggiore, completed by Ferdinando Fuga’s facade. It is a modularity that the substratum sometimes imparts in complex forms, such as in the Savelli buildings on the Marcellus Theatre or Palazzo Massimo on the Odeon, or the various buildings of the Insula Mattei that were built on the area of the Balbus Theatre, which were forced to deal with the difficult geometric influence of the radial substratum below them.

8. Basilica of San Clemente. I-III century AD substrate consisting of a special serial building, perhaps belonging to the ancient mint and then to a Christian community center (KRAUTHEIMER 1986), formed by serial rooms organized around an open courtyard.
9. San Clemente. Early Christian IV-XI century basilica, obtained by "knotting" (STRAPPA 2015) the serial structures by re-using the substrate rooms around the court space

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

The  phases

The process that leads to the construction of new organisms built on a previously existing substratum, varying in the different historical phases, has very different features from that which originate from the transformation of nature: here, matter is, in some way, pre-formed, it already has a shape, placed as it is at the end of an entire life cycle and at the beginning of another. The recognition of this form, linked to the historical and civic environment that created it, is the origin of a new design and constitutes its critical substance. That is why the phases we can identify in this transformation are dialectic: they should be interpreted as far as the interaction between the intentions of the ‘subject’ and the potential of the ‘object’ : they are not strictly chronological.

We can suppose an initial phase of invention, of the invenio involving the random, unplanned relationship with the object being renovated or rediscovered. This occurs when the last phase of a substratum organism’s consumption has ended, sometimes in the distant past, becoming the matter whose characters and attitude to receiving a new form are recognised by the new architect/builder. This first, logical phase therefore concerns the transformation of ‘encountered’ matter. Even before this matter is actually used, it has, at least in part, to do with the builder’s awareness in recognising the substance of which the old spoil is made and therefore to being transformed from matter into material (STRAPPA 1995).  Therefore the medieval builder who constructed on ancient ruins and from ancient ruins viewed it as materia signata: the substance of which the substratum city is built and that, despite having lost its significance, is transformed into meaningful heritage. This action is not only a cancellation, but a continuation too, an acknowledgement marked by an identification, followed or not by the passage from the simple use of “found” materials to their transformation. While the term ‘material’ still indicates matter’s suitability to be used in a new building, either in its original form or in a new form, this definition also fits the work of the calcarari (lime kilns workers) that recognised the suitability for construction in the second nature of imperial deposits, cancelling a significant part of our built heritage for centuries. In keeping with the masonry-plastic characters of Roman and Romanised cultural areas, the elements that were produced, apart from linear ones of Greek origin, typically featured two dimensions that prevailed over a third (flat or curved elements) and easily remained continuous, omogeneus and organic with the other elements of a structure.  As well as, on the fabric scale, the serial persistence of the base fabric and the singularity of the special organisms continues in other forms. The acknowledgment of the characters and of the building susceptibility of what the ancients have physically left to the new city, therefore, takes place at all scales. It is a metabolization process through which the city consumes the Ancient, regenerating itself, proof of the resilience of the plastic city of which Rome was the greatest expression.

The second phase involves the selection/specialisation, the decision of what role the substrate material (no longer merely matter) will play in a new structure. The selection phase, mainly based on economic and technical considerations, therefore coincides with a acknowledgment of the element ‘encountered’ in the ancient fabric, as an ‘eloquent legacy’, used with a new meaning in a new context. It is a phase that already had significant precedents in Roman times. From a constructive point of view, the choice of elements that could be obtained at different levels mainly involved:

  • the size (from the large blocks taken from the remnants of special public buildings to the decorative features reused with a new tectonic purpose);
  • the mechanical qualities, particularly their hardness: soft rock like sandstone, chalk, volcanic tuff, or hard rock like marble and granite; next their duration, their ability to stand over time, a feature that gained new symbolic importance in Christian Rome;
  • the workability, a feature often opposite but complementary to that of hardness and duration.

However, it also concerns the new typological effort spent in reusing ancient substrate layouts, with the widespread dequantification of special structures and their return to base types functions.Take, as example, the return to base fabric of the Pompeus Theatre (in this issue we are presenting the important study that one of our PhD students, Cristian Sammarco, is conducting on this subject, with the reconstruction of the base building organism originated by the ancient layout’s consumption, through the drawing of the cadastral maps mosaic).

The third, ethical phase, election/designation, concerns the action, the behaviour (θος) contributed by a critical consciousness of the act of reassembilg with which the builder completely considers the problem of the construction element’s meaning within developing urban and architectural structures. As well as through re-employment, the recognition of the ancient structures of elements is evident through the recovery of typical building systems.

There is no doubt that the reassembly of fragments of spolia involves an element of organicity (features such as proportion and congruence) borrowed through the custom with pre-existences. This consideration is even more obvious at the scale of the aggregative organism, of fabric where the continued existence of ancient buildings and urban structures indicates organic and typical proportions (take insulae for example). As mentioned earlier, this way of transforming existing urban lanscape has significant precedents as far back as Ancient Roman times. The reconstruction of the Porticus Octaviae commissioned by Emperor Severus Alexander in 203 A.D. involved the reuse of elements from the earlier Augustan construction. When chosen and rearranged within a new structures, however, they established a new relationship of necessity between elements.  This is an early, real ‘nomination’ and ‘designation’ operation, as was to occur extensively after the fall of the Roman Empire. This act of renaming things– which was widely practiced during the fifth century by Theoderic as a political act of reconciliation with the Roman civilitas and saw its first conclusion during the early XIII century– imbued each element with a role in new organisms that was equally structural, symbolic and political. Proof of this is, for example, Pope Honorius’s reconstruction of the Basilica of San Lorenzo Fuori le Mura, where architraves and columns taken from ancient buildings were rearranged in a new structure where, specifically and tellingly, the winged victories of two typical capitals dating from the Antonine era, used to celebrate the victory of Christian martyrs over their persecutors (DE LACHENAL 1995).

The fourth phase involves the symbolic and spatial reorganisation/repositioning of ancient objects, done with a total awareness of the phenomena of building and urban transformation. This corresponds to those great moments of aesthetic distillation, where the substratum also becomes a depository of memory generated by the familiarity with its reuse, clearly demonstrated not only by Baroque revisitations but also by the more pragmatic urban reconstructions of Rome during Umbertino  time and even more recently. An obvious example is the construction of Via Nazionale, which took its cue from the city square designed around the great exedra of the Roman baths. But, in general, it is testified by the whole approach to the renovation of the historic city even in restructuring routes that, by their very nature traumatic, were traced with a sensitivity towards substratum constructions that, except for Viale Trastevere, is unequalled in Europe. Take, for example, the case of Corso Rinascimento and the entire renovation programme carried out on the Stadium of Domitian.  These interventions, carried out in a climate of widespread fascist rhetoric,  would today be considered unacceptable, but nevertheless often capable of reinterpreting types and layouts in a modern way and, at the same time, in keeping with (‘in concordanza di fase’ as Muratori would say) the weight of their history.

10. Ghetto fabric overlapping the remains of the Octavia Portico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In conclusion, I believe that we can surmise a morphological, process-based method of interpreting the substratum that gave rise to modern cities based on cyclical phases of change, analysed, using the tools that architects possess, as meaningful heritage. The effort made to synthetically grasp the processes by turning to morphological methods, which we are by no means suggesting should substitute the essential work of archaeologists and historians, could have a fundamental value for the architectural design by indicating the ways in which not only history has generated new forms, but also how the present, so to speak, flows in the past. This powerful legacy of guidelines – absolutely not oriented towards imitating the past–could support, if we are able to recognise them, the work of contemporary architects: a substratum of multiple, shared meanings, in contrast to the individualistic trend of architectural design. A legacy stratified over time, to be deciphered and interpreted with new eyes identifying within it a new and fertile organicity, as in every phase of the great civil crisis.

BIBLIOGRAPHY

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LA CASA A CORTE / COURTYARD HOUSES

prof. Giuseppe Strappa

GENERALITA’

Il gesto elementare dell’appropriazione dello spazio attraverso il tracciamento di un recinto protettivo genera il tipo abitativo a corte che è stato alla base della formazione dei tessuti della città antica dell’Europa meridionale, dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente.
La casa a corte sembra anzi esprimere, concretamente e simbolicamente, le stesse radici comuni delle civiltà che si sono affacciate sulle rive del Mediterraneo, attraverso cellule murarie che si avvolgono intorno ad una corte centrale, essenza della casa delle origini che darà vita a molta architettura basata sulla nozione di recinto.
Se la sua forma chiusa indica, come ha rilevato Gottfried Semper, l’atto di difendere lo spazio contenuto, la struttura interna della casa a corte comunica accoglienza e ospitalità, sia che si tratti della corte ombreggiata di una casa islamica o dell’ atrium di un’abitazione italica.
Si può considerare la casa a corte elementare, tipo matrice dedotto quale somma dei minimi caratteri comuni contenuti nei tanti tipi e varianti di abitazioni basate sulla nozione di recinto, come costituita da quattro pareti formanti una perimetrazione rettangolare su un lato della quale si addossa il costruito, edificato a partire dalle dimensioni della cellula elementare. Da questa si sviluppano i tanti tipi di case a corte derivati soprattutto attraverso l’occupazione successiva dello spazio libero all’interno del recinto e le successive trasformazioni.
L’aggregazione di case a corte costituisce organismi aggregativi a scala maggiore organizzati dai percorsi nei quali sono riconoscibili unità aggregative intermedie allo stesso modo che per le case a schiera è riconoscibile la formazione dell’isolato. Il ruolo di queste unità aggregative nella formazione del tessuto, il loro rapporto col tipo base vigente,  varia in funzione della maggiore o minore pianificazione dell’aggregato edilizio, dell’orografia del terreno, della presenza polarizzante di edilizia specialistica. Si confrontino ad esempio i diversi casi di tessuti di case a corte ad Olyntos, dove l’isorientamento dei vani elementari originali è molto chiaro, come è chiara la formazione di varianti sincroniche dovute alla posizione dell’accesso rispetto al costruito.
Tale forma aggregativa assume  caratteri specifici, pur nella molteplicità degli esiti costruiti, nei nuclei urbani formatisi nel bacino del Mediterraneo (sono facilmente individuabili, nell’antichità, caratteri comuni al tipo greco, al tipo  italico, al tipo romano) condizionandone lo sviluppo, come tipo sostrato,  anche quando altri tipi edilizi (case a schiera, case in linea, palazzi) hanno preso il posto, nel tessuto, del tipo originale.
Uno dei criteri che hanno maggiormente condizionato lo sviluppo delle città basate su questo tipo (ad esempio i tessuti di domus delle città romane) è l’orientamento comune del costruito all’interno del recinto, o isorientamento, necessario in quanto le migliori possibilità di aeroilluminazione delle cellule elementari si danno su un solo lato del recinto che deve essere esposto, per questo, nelle condizioni migliori, costituite prevalentemente dall’ orientamento a sud. Ne deriva una forma di occupazione dell’area interna disponibile in funzione:
– dell’orientamento del  percorso viario : se è orientato in senso nord-sud il costruito occuperà di preferenza il lato parallelo alla direzione d’ingresso; se è orientato in direzione est-ovest occuperà il lato ortogonale alla direzione d’ingresso esposto a sud;
– del tipo di edificazione: in serie aperta o chiusa a seconda che ogni serie di domus sia divisa da quella adiacente da un percorso o che sia invece ad essa unita o separata da un semplice ambitus.

 

 

LA  DOMUS

Un tipo particolarmente importante di case a corte è costituito dalla domus, diffusa nell’antichità nel modo romano e romanizzato. L’impianto delle città di fondazione romana organizzate attraverso aggregazioni di domus permane a lungo anche in fase medievale, dove l’abitazione si trasforma moltiplicando i vani in orizzontale e in verticale: la parte inferiore spesso ad uso specialistico e quella superiore ad uso abitativo.

Nonostante l’affinità etimologica con altri termini di origine indoeuropea corrispondenti alla nozione di abitazione (avestico Demana, sanscrito Damah, lituano Dimstis (proprietà) antico slavo Domu, da cui il russo Dom)  la domus romana ha suoi caratteri specifici fortemente tipizzati.
La differenza tra la domus matura e altri tipi di case a corte diffusi nel bacino del Mediterraneo consiste soprattutto nella organica gerarchizzazione dei vani, strutturati intorno all’asse accentrante che dall’ingresso conduce al vano principale costituito dal tablinum.
Il processo di trasformazione e consumo della domus avviene attraverso tre fenomeni che si sviluppano sincronicamente o diacronicamente in rapporto alle diverse aree culturali a partire da un tipo matrice di mezzo actus di spessore,  ovvero 60 piedi (con una dimensione teorica prevalente, quindi, di 17,70m, che però si può differenziare, in realtà, con dimensioni comprese tra i 12 ed i 18m) e profondità variabile (in genere contenuta tra i 20 ed i 40m),   con fenomeni accelerati nelle aree più densamente popolate, dove si è arrivati rapidamente al tipo maturo ad atrio e peristilio.
Per comprenderne lo sviluppo si può ipotizzare, come è avvenuto per la casa a corte elementare, una matrice originaria, una “domus elementare” dedotta per comparazione tra le tante varianti diacroniche che si sono sviluppate con caratteri specifici nel corso del tempo a partire da uno stesso insieme di caratteri comuni, il quale doveva precedere l’individuazione romana e mostrare caratteristiche proprie, ad esempio, della casa a corte latina e della casa etrusca, così come è possibile riconoscerla nelle tombe di Tarquinia e Cervetri.
Il costruito monocellulare è costituito da vani di 4/6 metri che si affacciano sullo spazio interno scoperto della cohors, termine derivato dal greco χόρτος (recinto) che nel latino medievale diverrà curtis, parola che permane in molti toponimi contemporanei a dimostrazione della continuità del sostrato antico.
Nelle condizioni ideali, non condizionate dall’andamento del terreno e dalla posizione del percorso, i vani monocellulari si disporranno sul lato corto del recinto rivolto verso sud: avendo una sola possibilità di affaccio, in considerazione del fatto che i vani sono aperti solo verso l’interno del recinto, verrà preferito l’orientamento migliore. L’accesso sarà posto nel lato corto opposto, in corrispondenza del percorso.
Quando il percorso ha direzione nord-sud, l’orientamento migliore corrisponderà invece ad una disposizione dei vani sul lato lungo rivolto a sud dando origine ad una variante sincronica del tipo portante.
Anche nelle aggregazioni di domus si avranno varianti sincroniche dovute alla posizione dei percorsi, come negli schemi riportati.

1 – Incremento del costruito . Nel tempo, come è avvenuto per la casa a corte, la domus si trasforma dando vita a numerose varianti diacroniche dovute al progressivo consumo del tipo portante e delle varianti sincroniche originali. Questa trasformazione è dovuta, in un primo tempo, alla necessità di incrementare il costruito all’interno del recinto occupando il perimetro della corte aperta. Il bisogno di conservare, comunque, l’accesso alle cellule originali laterali spiega la formazione delle alae, spazi liberi antistanti l’ingresso ai vani, mentre il vano centrale, gerarchizzato dalla posizione assiale rispetto all’ingresso, si specializza in tablinum e costituisce, anche, il passaggio verso l’espansione della domus, tipologicamente meno stabile, costituita dall’originario hortus retrostante che nel tempo diverrà giardino associato ad un porticato (peristylium)
L’abitazione contenuta all’interno del recinto  appartiene ancora ad un unico proprietario (abitazione monofamiliare)

2 – Tabernizzazione, Soprattutto nelle
aree urbane a maggiore densità, la trasformazione della domus avviene attraverso l’occupazione del fronte su percorso con formazione delle tabernae, vani specializzati per uso commerciale che tendono a divenire autonomi, e delle faucies d’ingresso. L’abitazione contenuta all’interno del recinto diverrà, nel tempo, indipendente dalle tabernae e la domus  non apparterrà più ad un unico proprietario. Inizia la  plurifamiliarizzazione  del tipo che si sviluppa in un primo tempo con la trasformazione autonoma delle tabernae in case a schiera e, successivamente, con la dequantificazione del costruito abitativo.


3 – Insulizzazione, Si completa plurifamiliarizzazione del costruito entro il recinto con l’utilizzazione monofamiliare delle cellule che si dispongono a completare il perimetro intorno alla cohors e si incrementano in altezza. Ogni cellula tende a divenire autonoma ed a svilupparsi come un tipo particolare di casa a
schiera  monocellulare affacciata su un solo lato all’interno della corte.

In età antica le cellule ai piani superiori vengono a volte distribuite da ballatoi dando origine al tipo plurifamiliare delle insulae, come nei casi, molto noti, di Ostia L’insulizzazione conclude il processo di trasformazione della casa a corte dove la domus ha perso i propri caratteri e diviene tipo sostrato, dando origine ad un nuovo tipo edilizio.
Questi tre diversi fenomeni di trasformazione, elencati schematicamente come separati e diacronici, possono in realtà sovrapporsi, con la formazione di vani commerciali al piano terreno successivi al fenomeno di insulizzazione.

 

 

LA CASA A CORTE MODERNA E CONTEMPORANEA (1)

La casa a corte è stata riproposta in tempi recenti dando vita ad uno dei rari esempi di tipo edilizio moderno la cui vitalità arriva fino ai nostri giorni.
L’idea di spazio racchiuso ed introverso ha corrisposto, almeno dagli anni ’20 del secolo scorso, alla rinnovata attenzione per lo spazio domestico. E’ indubbio che il bisogno di isolamento individuale fornisce la chiave di interpretazione di questo tipo di abitazione, come l’atto del recingere è ancora il principio generatore della sua architettura.
La corte può infatti essere considerata come una porzione di territorio confinata cui la casa si rivolge, presentando verso l’interno il prospetto principale mentre le murature esterne assumono il ruolo di facciate secondarie. Se la città è per definizione il luogo dello scambio, la casa a corte costituisce l’altra faccia dell’abitazione moderna, riproponendo certamente istanze antiurbane.
E tuttavia l’evoluzione della casa a corte, ed il suo interesse come tipo edilizio, è dovuto a questa contraddizione: proporre un modello di vita semirurale ed adattarlo alla costruzione della città. E’ rilevante il fatto che questo carattere centripeto, dove l’esterno è un semplice muro, spesso derivato dall’idea di difesa, risulta particolarmente evidente in aree a forte concentrazione urbana, dove si cerca di evitare, per quanto possibile, il rapporto con l’esterno. Particolarmente significativi sono a questo riguardo gli esempi costruiti in un ambiente urbano densamente popolato e in gran parte compromesso come quello giapponese: di fronte all’imprevedibile sviluppo della città moderna, ai cambiamenti improvvisi che trasformano in pochi anni aree a giardini in periferie ad alta densità edilizia, molte delle case unifamiliari giapponesi recenti presentano un vero e proprio recinto difensivo, con scarse bucature di ridotte dimensioni, e uno spazio interno particolarmente accogliente attorno al quale si svolge la vita familiare. Si vedano, tra i molti possibili, gli esempi della casa costruita da Susumu Takasuga a Mobara alla fine degli anni ‘70, in cui le aperture sulla parete di cemento perimetrale alludono alle feritoie dei bunker, o della casa costruita da Tadao Ando ad Osaka nel 1984 dove, anche verso l’interno, le alte mura che racchiudono la corte suggeriscono l’immagine della fortificazione. Più che da un tipo edilizio costante si direbbe che l’architettura di queste case sia dettata dalla necessità di sopravvivere all’aggressività della metropoli moderna.
Il riferimento alla domus come origine del tipo moderno di casa a corte è frequente in letteratura. Tuttavia non si può propriamente parlare di continuità con il processo formativo della casa mediterranea: sebbene non esistano quasi nei paesi nordici esempi che risalgano ad epoche anteriori l’inizio del XIX secolo, la diffusione di questo tipo di abitazione è concentrata, a partire dagli anni ‘20, essenzialmente nelle regioni dell’Europa settentrionale di cultura anglosassone e scandinava, mentre le proposte italiane degli anni ’20 e ’30, ispirate dalle contemporanee ricerche archeologiche, non hanno avuto che limitati sviluppi. I primi esperimenti di casa a corte moderna avvengono verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, in corrispondenza della spinta innovativa provocata dalla rivoluzione industriale. Si tratta di esperimenti isolati, difficilmente inquadrabili in una tendenza generalizzata che riconosca nel tipo a corte una risposta ai problemi della città contemporanea.
Nel clima di ricerca del movimento Arts and Craft, Edwin Lutyens compie un esperimento di casa a corte nel 1899 con la Orchard House a Godalming, nel Surrey. L’idea regressiva dell’architettura che è alla base delle composizioni di Lutyens, evidente in Orchard House, induce a riferire questo esempio più a derivazioni dal filone « Regina Anna» di N. Shaw (e in particolare all’imitatissimo castello di Leyswood) che a una proposta rivolta ai problemi dell’abitazione moderna. Tra il 1901 ed il 1904 Tony Garnier progetta per la sua Cité Industrielle un tipo di casa a corte da ripetere in serie, sul tracciato regolatore ortogonale proposto per i quartieri di abitazione, evidentemente ispirata al modello romano.
In realtà questa casa interpreta la corte in modo riduttivo rispetto alle elaborazioni che, due decenni dopo, verranno effettuate dal Razionalismo tedesco: come per le case urbane pompeiane la corte non è uno spazio del tutto aperto ma piuttosto un ambiente di rappresentanza sulla cui copertura viene praticata una vasta apertura che permette l’areazione e l’illuminazione.
La casa proposta da Garnier è disposta intorno ad una corte aperta verso sud. Le funzioni sono nettamente separate: accanto all’ingresso, isolato, lo studio; lungo il lato opposto all’ingresso ci sono gli spazi per il giorno, tutti a livello terreno, a destra dell’ingresso sono raggruppate le camere da letto, su due piani, con un’enfasi particolare per la stanza del capofamiglia dotata di bow-window.
L’esperienza di queste case a corte rimane isolata nella produzione di Garnier e solo molto più tardi, in una villa progettata nel 1923 a Lione si ritrova il tipo a corte parzialmente aperta.
All’inizio del secolo si assiste anche negli Stati Uniti ad una diffusione del tipo di abitazione a patio.
Soprattutto la riscoperta della tradizione della « placita» (piccola piazza centrale) delle costruzioni del Nuovo Messico, parallelamente alla moda dello Spanish Colonial Revival e del Pueblo Style contribuirono all’elaborazione di piante distribuite intorno ad uno spazio centrale chiuso o, più spesso, aperto. Utilizzato per abitazioni di grandi dimensioni per le nuove classi imprenditoriali, questo tipo ebbe particolare successo nei climi temperati della California.
Uno dei primi esempi, la casa per Arturo Bandini a Pasadena, costruita nel 1903 da Charles ed Henry Greene, fu progettata per espresso desiderio del cliente secondo il modello mediterraneo, con una corte chiusa su tre lati e schermata sul quarto da un pergolato.
Questa costruzione fu il prototipo di numerose abitazioni a corte che i fratelli Greene realizzarono in California, imitati da architetti locali (I. Gill, W. Templeton Johnson, R. Schindler etc.).
Gli esperimenti americani ebbero tuttavia scarso peso sugli sviluppi del tipo cdilizio che doveva essere applicato in Europa. Questo infatti nasce in Germania, in modo pressoché autonomo, alla fine degli anni ‘20 soprattutto grazie alle sperimentazioni di Hugo Häring,
Ludwig Hilberseimer ed Hannes Meyer.  Nel 1928 Häring progetta un tipo di abitazione a pianta rettangolare in cui le aperture sono concentrate su uno solo dei lati lunghi rivolto verso uno spazio aperto, mentre l’altro lato lungo è cieco e delimita lo spazio aperto della casa adiacente. In embrione compaiono gli elementi compositivi degli schemi a corte ad L che troveranno vasta applicazione nei paesi nordeuropei (e scandinavi in particolare) fino ai nostri giorni. Particolarmente imitata sarà la soluzione degli spazi di distribuzione concentrati lungo la parete cieca, utilizzata per alloggiare gli armadi. Esempi di case a corte recenti che hanno dato buoni risultati dal punto di vista della vivibilità (valga per tutti l’esempio di Het-Hool in Olanda) seguono molto da vicino questo schema.
Sempre nel 1928 anche Mayer progetta una casa per gli insegnanti della scuola sindacale di Bernau con uno schema a corte. Nell’impianto distributivo ad L compare la divisione (riproposta poi come costante negli sviluppi successivi) dei due corpi di fabbrica in zona giorno e zona notte intorno ad uno spazio aperto. Questo progetto, che prevede un’abitazione a due livelli, rende evidente il fatto che le dimensioni dello spazio aperto di questo tipo edilizio vanno rapportate all’altezza dell’edificio: su un’altezza di due piani la piccola corte disegnata da Mayer rimane profondamente incassata tra l’abitazione ed il muro cieco della casa adiacente con problemi notevoli di soleggiamento.
Nel 1929 Hilberseimer progetta un tipo di casa a schiera con corte di piccole dimensioni ad un solo piano, col soggiorno collocato al centro dello schema distributivo in funzione di disimpegno e le due stanze da letto in posizione periferica. La relazione reciproca tra gli ambienti è condizionata dal presupposto che le stanze da letto debbono essere orientate a sud ed il soggiorno ad ovest, mentre il contatto con l’abitazione adiacente deve avvenire attraverso una parete cieca nella zona dei servizi. Nel 1931 Hilberseimer rielabora alcune varianti del tipo di casa con impianto ad L che costituiscono anch’esse esempi molto imitati nello sviluppo della casa a corte. La casa ampliabile che egli propone come “Tipo E” è la sintesi delle esperienze che si vanno compiendo in questi anni e rappresenta un punto di arrivo dell’evoluzione razionalista del tipo a corte: dalle case di Haring riprende la chiarezza planimetrica, con il corridoio addossato alla parete cieca mentre dalle ricerche di Mayer deriva la suddivisione netta tra zona giorno e notte. In questa casa è prevista come costante la costruzione del corpo di fabbrica contenente i servizi ed il soggiorno, mentre la zona letto (fino ad un massimo di tre stanze doppie) può essere costruito in fasi successive.
C’è da notare che l’impianto ad L è molto diffuso nelle ricerche tedesche degli anni ‘20 e non costituisce necessariamente una variante del tipo a corte. Uno dei presupposti indispensabili del tipo a corte è infatti l’utilizzazione dello spazio aperto come estensione dell’abitazione e la disposizione delle aperture intorno alla corte in modo che ne risulti una configurazione introversa dell’alloggio. Una dimostrazione evidente di questo fatto è data dalle abitazioni costruite nel 1928 nella siedlung Tòrten Dessau su progetto di W. Gropius: nonostante la disposizione ad L della pianta, le abitazioni risultano bloccate entro le pareti murarie e lo spazio risultante tra le diverse case unifamiliari aggregate è uno spazio pubblico che nulla ha a che vedere con la corte.
Nel 1931 anche Mies van der Rohe progetta un tipo di casa unifamiliare associata a corte. L’interpretazione del tema è radicale: chiusura totale verso l’esterno perimetrando totalmente il lotto di proprietà con un muro cieco; inserimento della costruzione rettangolare accostata su due o tre lati alle murature cieche; formazione di uno o più corti tra il corpo di fabbrica ed il muro perimetrale. L’abitazione non è progettata in modo rigido. Si tratta piuttosto di una lastra di copertura sostenuta da pilastri in acciaio e chiusa a vetro sul perimetro (un contenitore vuoto) all’interno del quale è possibile disporre liberamente la distribuzione della casa, fatta eccezione per i servizi.
Conseguenza della ricerca indivuale di Mies van der Rohe, questa proposta rimane teorica ed isolata nella linea di sviluppo della casa razionalista, nonostante le notevoli indicazioni di metodo che contiene e nonostante gli scambi che, come direttore della Bauhaus, l’architetto intrattiene con Hilberseimer. La casa costruita a Berlino nel 1932 da Mies van der Rohe può infatti considerarsi solo lontanamente affine al tipo a corte, nonostante l’impianto ad L.

In Italia i primi sondaggi teorici furono compiuti da Diotallevi, Marescotti e Pagano nel 1940 con una serie di varianti sul tipo dell’abitazione ad L a corte, che, conservando una medesima parte centrale comune (cucina, servizi ed una stanza da letto) prevedevano diverse dimensioni del soggiorno e un numero variabile di camere da letto. La proposta ricorda da vicino gli studi di Hilberseimer per una casa ampliabile, ma l’aspetto innovativo riguarda il nuovo ruolo urbano che viene prefigurato per la casa a corte unifamiliare associata. Considerato che la densità media delle città europee è di circa 250 abitanti per ettaro, essi propongono un modello urbano con densità simile, dimostrano come sia possibile realizzare parti di città con un tipo edilizio considerato fino ad allora semirurale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per Diotallevi, Marescotti e Pagano l’associazione delle case a corte «… può avvenire unicamente in base ad una estensione dei concetti che hanno determinato la casa stessa, e cioè mantenimento degli assi e corrispondenza delle traversate di ventilazione, ripetizione dei tipi ed uguaglianza degli accessi. La rete di traffico è indipendente e così i servizi collettivi, sempre centralizzati rispetto a un’unità definita in un certo nucleo di abitazioni. L’associazione elementare di più case unità dello stesso tipo avviene nel senso nord-sud con la ripetizione identica e contigua degli elementi, e nel senso est-ovest con la ripetizione simmetrica, in modo che a due a due i giardini interni si accoppiano lungo i muretti di divisione. Questa disposizione riduce le ombre portate dei corpi costruiti sui giardini stessi”’ (IRENIO  DIOTALLEVI, FRANCO MARESCOTTI, GIUSEPPE PAGANO, La città orizzontale, in «Casabella Costruzioni»,, aprile 1940. ).
La proposta è tutta teorica e formulata ammettendo che il quartiere debba soddisfare in prevalenza il bisogno di famiglie numerose ma costituisce una premessa importante agli sviluppi del dopoguerra.
Nel 1952 infa
tti A. Libera costruisce per l’INA CASA un insediamento di abitazioni a corte al quartiere Tuscolano a Roma. E il primo esperimento su vasta scala di questo tipo che venga portato a termine in Europa. I presupposti dichiarati del progetto fanno riferimento al mondo mediterraneo ed alle esperienze individuali dell’architetto (il progetto segue di poco un viaggio di Libera a Marrakesh). Tuttavia, è evidente la derivazione dalla linea di ricerca del razionalismo europeo sia per le affinità tipologiche, sia per il contesto teorico mutuato dall’idea di “unità di abitazione autosufficiente” secondo la tradizione (che si va consolidando) del  Movimento moderno.
La trama delle abitazioni a corte viene considerata come un tessuto connettivo continuo, che fa riferimento adun suo centro di servizi collettivi. Il considerare tuttavia l’insediamento come mediazione tra casa individuale e quartiere riporta questo intervento al clima «neorealista» dell’architettura italiana di quegli anni, con conseguenze evidenti anche sul piano del progetto dell’alloggio. La densità prevista è quella individuata dalle ricerche di Diotallevi, Marescotti e Pagano come tradizionale dei
quartieri cittadini, ma l’esperimento non avrà seguito in Italia, dove si cow tinuerà a costruire, anche per l’edilizia economica case plurifamiliari isolate o contigue.
A partire dagli anni ‘60 si assiste invece ad una progressiva diffusione del tipo unifamiliare a corte nell’Europa settentrionale con interventi su vasta scala di edilizia a basso costo.
Raramente si introducono innovazioni tipologiche radicali rispetto ai risultati degli anni ‘20 e ‘30. La ricerca investe piuttosto le possibilità di utilizzazione del tipo a formare aggregati urbani, secondo le linee evolutive indicate da Hilberseimer e Diotallevi-Marescotti.
Di particolare rilievo è l’esperienza danese di Albertslund, nel 1963, che sancisce in modo definitivo la capacità della casa a corte di costruire parti di città. Viene infatti edificato, a 15 km da Copenaghen, un nuovo quartiere nel quale si decide di sperimentare tipologie inusuali in vista della programmata formazione di una new town. Particolare attenzione viene dedicata allo studio di un tipo edilizio a corte aggregato con pianta ad L che utilizza superfici variabili da 40 a 100 m2.

Sebbene lo schema distributivo sia fortemente condizionato dalla necessità di utilizzare la prefabbricazione integrale, questa realizzazione costituisce ancora un esempio molto dibattuto (ed imitato) nell’area scandinava, soprattutto per la capacità di costituire, per aggregazione, un tessuto continuo. Nelle realizzazioni precedenti (e spesso anche in quelle successive) la casa a corte aggregata costituisce un intervento isolato che tende a ricostituire uno spazio privato all’interno dell’abitazione attraverso l’isolamento del nucleo edilizio. Anche l’intervento di Libera al Tuscolano,
sebbene immesso nella città, era stato concepito come intervento in qualche modo concluso, tanto da essere definito  “unità di abitazione orizzontale”.
Ad Albertslund invece viene ideata una struttura gerarchica in cui all’asse centrale, costituito dall’arteria principale di scorrimento associata a case a blocco di tradizione ottocentesca, fa capo un sistema di assi ortogonali che a sua volta ordina la geometria dei percorsi delle case a corte. Il risultato è quello di una dimensione ridotta nella scala delle abitazioni semiestensive a corte, con un rispetto completo dell’intimità domestica che non viene tuttavia scontata con l’esclusione dal rapporto con la città.
Al successo di queste operazioni agli inizi degli anni ‘60 segue la proliferazione di quartieri basati su tipi simili, nell’Europa settentrionale, sebbene non sia sempre agevole distinguere quali possano a ragione essere classificati come composti da case a corte associate. E evidente infatti la difficoltà di fornire una definizione semplice e generale di questo tipo edilizio. Le caratteristiche che lo distinguono dalle altre case unifamiliari associate sono molte ma spesso legate a fattori non solo qualitativi, ma anche quantitativi. Ad esempio una corte troppo piccola corrisponde ad una chiostrina, mentre una corte troppo grande è di fatto un giardino ed il limite inferiore è superiore alla dimensione dello spazio esterno è un dato tratto dall’esperienza cui, evidentemente, non può essere assegnato il valore di definizione univoca.
E però
possibile dare una definizione di questo tipo edilizio strumentale rispetto all’uso che la pratica ha consolidato.
La casa a corte associata può essere definita come abitazione distribuita intorno ad uno spazio aperto che abbia alcune caratteristiche fondamentali. In primo luogo esso è sempre perimetrata da murature che non consentono l’affaccio esterno, con l’eccezione dell’ingresso e delle aperture strettamente funzionali. La struttura distributiva è quindi introversa con aerazione ed illuminazione che provengono principalmente dallo spazio centrale che diviene così il centro di orientamento degli elementi compositivi della casa.
Naturalmente esistono varianti più o meno rilevanti a questa affermazione. Tuttavia un’abitazione che sia ugualmente rivolta tanto verso l’interno quanto verso l’esterno, o addirittura prevalentemente verso l’esterno, non può essere definita casa a corte ma casa con giardino.
Altra caratteristica della casa a corte è che tutta la superficie a disposizione dell’unità unifamiliare è occupata dall’insieme casa-corte. Non esistono cioè spazi privati di risulta e l’area perimetrata confina direttamente con la proprietà pubblica.
Le dimensioni della corte debbono essere tali da non risultare eccessive (e cioè far perdere la percezione della corte come spazio interno) né troppo ridotte (nel qual caso si perderebbe la percezione della corte come spazio aperto).
Va a questo proposito considerato il rapporto tra la misura dello spazio aperto e l’altezza delle murature che lo circondano (edificio e recinzione): quella che per un edificio a due livelli può essere considerata una giusta misura per la corte, per un edificio ad un solo livello può essere uno spazio completamente aperto che fa perdere un requisito fondamentale della casa a corte: la protezione dallo spazio esterno.
Dall’esperienza degli esempi realizzati si può affermare che le dimensioni di una corte quadrata non debbono essere inferiori a m 5×5 (approssimativamente il lato minimo della corte utilizzata da Libera al Tuscolano per abitazioni ad un piano) né superiori a m 15x 15 (quindici metri è l’ampiezza massima delle certi rettangolari delle case di Het-Hool progettate da Bakema e Van den Broek, con prospetti dell’edificio sulla corte di m 7,5).
Negli edifici antichi con impianto a corte spesso lo spazio centrale era racchiuso dagli elementi della casa, era cioè completamente interno e non aveva lati separati dallo spazio pubblico da sole murature divisorie.
Questo schema è difficilmente utilizzabile per le moderne case associate. Si preferiscono invece schemi aperti su un alto o su due lati o (più raramente) con due corpi di fabbrica contrapposti.
A volte vengono considerate a corte case ad un solo corpo di fabbrica e spazio aperto perimetrato da murature di recinzione e dai muri ciechi degli altri corpi di fabbrica. In questo caso la distinzione dalla casa con giardino non è sempre agevole (e spesso inutile). Al di là delle difficoltà di classificazione è infatti innegabile che esempi di proposte di questo tipo, come le case di Hugo Häring del 1928 o di Mies van der Rohe del 1931 (di cui si è parlato) sono indubbiamente da considerarsi a corte.
La chiusura pressoché totale verso l’esterno è una delle caratteristiche che rende le case a corte particolarmente adatte ad essere associate tra loro. Esclusa la parte di perimetro utilizzata per l’ingresso le unità si possono accostare tra loro su qualsiasi lato. Poiché le aperture che danno verso l’esterno sono di natura esclusivamente funzionale, possono essere ottenute sulla parte alta delle murature comuni, nel caso in cui non siano collocabili diversamente.
Lo schema ad L è facilmente associabile in linea retta semplicemente giustapponendo un lato della corte di un’unità alla parete cieca dell’altra.
E questo il tipo di aggregazione più diffuso per la semplicità compositiva (schema 1) con varianti costituite dallo sfalsamento di un’unità rispetto all’altra (come nell’intervento a Terrasenne, schema 3). Non mancano tuttavia associazioni più complesse dello schema ad L che prevedono anche tre lati di contatto con le unità vicine, formando a volte delle corti chiuse (East Lothian, schema 4) o giustapponendo specularmente due unità con le corti a contatto (Het-Hool, Bishop Field, schemi 2 e 5).

1. da G.Strappa, La casa di abitazione, in P.Carbonara, Architettura pratica, primo volume di aggiornamento, Torino 1989.

Luigi Piccinato, Casa coloniale a corte, 1933

Enrico Del Debbio, Casa Brizzi Simen, 1939-41