Category Archives: saggi e articoli

I NUOVI MUSEI CAPITOLINI


di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 20.12.2005

I molti progetti che Carlo Aymonino ha studiato per l’ampliamento dei Musei Capitolini costituiscono un patrimonio di sperimentazioni sui quali, ritengo, occorre riflettere. Essi dimostrano, per prima cosa, come una naturale vocazione alla trasformazione sia contenuta, per così dire, nello stesso DNA di alcuni edifici. Molti spazi aperti racchiusi al centro di organismi architettonici tendono, in realtà, a “solidificarsi” nel tempo, a formare un nuovo grande vano intorno al quale si annoda e ruota la vita dell’edificio. Una nuova sala centrale, protetta da strutture leggere e trasparenti, diviene così non solo il nodo di flussi di percorsi, ma anche il teatro nel quale si rappresenta l’epifania dell’edificio rinato. Molti tipi edilizi  moderni, i palazzi postali o le borse, ad esempio, derivano dall’”annodamento” di cortili di palazzi, chiostri di antichi conventi. Lo stesso teatro moderno, a partire da quello elisabettiano, nasce in un modo non molto diverso.
La trasformazione dei Musei Capitolini attraverso la copertura dello spazio aperto tra la Galleria degli Horti Lamiani e Palazzo Caffarelli, appare, in questo senso, una scelta di continuità, una sorta di “naturale” aggiornamento del quale era convinto anche Virginio Vespignani, che qui aveva costruito un padiglione ottagonale, poi demolito all’inizio del’900. Una soluzione, in verità, non del tutto felice perché, evitando di continuare processi formativi in atto, dava luogo ad un edificio nuovo e indipendente. Se n’è subito reso conto Aymonino quando ha abbandonato una prima ipotesi di costruzione circolare nel Giardino Romano per disegnare, nel ’93, una lineare, limpidissima copertura, poggiata sugli edifici esistenti che lasciava del tutto libera la preziosa area archeologica sottostante. Sarebbe stata la soluzione ideale: un gesto unitario e sintetico, il cui metodo anticipava di anni la  magnifica struttura con la quale Norman Foster ha “annodato” il labirinto delle sale espositive del British Museum.
Forse era destino che nell’area capitolina, dove la storia ha intrecciato per secoli le molteplici vicende degli edifici e degli uomini, questa rigorosa soluzione dovesse  trasformarsi. Ma è un fatto che, insieme all’innovativa indicazione di leggere e assecondare le trasformazioni tipiche  dell’organismo architettonico, l’opera realizzata, con la sua copertura semiellittica poggiata su sei grandi pilastri circolari,  finisca anche col riproporre, purtroppo nei termini consueti, la vexata quaestio dell’inserimento del nuovo nei contesti antichi.

GRANDI FIRME E ARCHITETTURA DIFFUSA

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 12.06.2007

Che le grandi firme garantiscano la qualità della città futura, è un’idea che comincia a mostrare le prime crepe. Alberoni, tra gli altri, sul “Corriere” di qualche giorno fa, annotava la stanchezza del pubblico per il protagonismo di architetture imposte dalla fama del progettista, nate per essere ammirate ma, spesso, inutili.
La forma bella perché “necessaria” non ha bisogno di griffe: ammiriamo ancora oggi il disegno perfetto della bottiglietta del Campari pur avendo dimenticato che l’autore è il grande Depero.
Si potrebbe osservare, peraltro, che anche il progetto “dal basso” e democratico, vecchio mito della sinistra mai realizzato e forse irrealizzabile, non è una soluzione. E dunque, che fare? Forse, vale la pena di riflettere, con sano realismo, su alcuni esperimenti romani di coinvolgere nel disegno della città almeno alcune delle forze in gioco: tecnici, istituzioni, rappresentanze dei cittadini, imprenditori. Nei concorsi, ad esempio, per il riuso delle aree delle ex rimesse ATAC a piazza Bainsizza e a Porta Maggiore, le università hanno eseguito gli studi preliminari, un buon numero di progettisti proporrà le linee guida dell’intervento, mentre il progetto finale sarà scelto attraverso una competizione alla quale parteciperanno, insieme, architetti ed imprese. Le quali saranno costrette, in qualche modo, ad innalzare la qualità dei loro cantieri, rimasta spesso ferma agli anni ’70. Una strada difficile, fatta di successivi contributi, dove la sintesi artistica non è generata da folgoranti intuizioni, ma è l’esito di un processo, l’incontro del molteplice.
E i primi risultati sembrano dimostrare la validità del metodo. Lo testimonia l’esperimento di maggior respiro fino ad ora tentato in questa direzione: i progetti “partecipati” eseguiti dai dipartimenti della Sapienza per le proprie sedi, che saranno in mostra dal 13 giugno nelle sale del Rettorato.
Il disegno della nuova sede per facoltà umanistiche nel futuro campus di Pietralata, progettata dal Dipartimento di Architettura e Costruzione, ne è un campione significativo. Raccolta intorno ad una grande piazza coperta, dominata dal monolite della biblioteca attorno a cui si avvolge la luce che scende dalla copertura vetrata, l’opera trasmette il messaggio di una comunità scientifica moderna e vitale. Un’immagine immediata che pure deriva dal paziente raccordo tra bisogni e interessi diversi, lunghi incontri con i rappresentanti del V Municipio, confronti tra progettisti di disparate tendenze che non impediscono al disegno di arrivare ad una propria, serena identità espressiva. I valori civili che il progetto trasmette, la vita che s’immagina nell’edificio, per una volta sono più importanti della personalità dell’autore.
Così, mentre a Milano insorgono le proteste per il disastroso progetto di Porta Nuova dove, in 26 ettari di aree centrali, sfileranno i grattacieli griffatissimi delle archistar, Roma sembra riscoprire che, anche in architettura, la vita, quella vera, non è una sfilata di moda.

FRANCO PURINI – Natura e artificio in architettura


di Franco Purini

Costruire vuol dire, infatti,
dare ordinamento e norma
alla materia, nei rapporti prestabiliti dello spazio e
secondo gli archetipi universali
delle idee eterne.

Salvatore Vitale

In architettura, ma la stessa cosa si potrebbe dire per la scultura e la pittura, il legame tra materia e materiale è fondamentale. L’architettura non è costruita direttamente dalle materie, ma da queste solo quando, attraverso un complesso lavoro, esse sono state trasformate in materiali. Tale passaggio non è meccanico, né puramente tecnico. Esso si riveste infatti di significati profondi, di contenuti non presenti nelle materie originali, nel momento stesso in cui produce una serie di valori nuovi, metrici e spaziali, che vanno rinterpretati con attenzione e sensibilità. In ogni modo, prima di continuare questa riflessione, è necessario proporre una idea di edificio che contempli, in modo concettualmente congruente, la presenza dei materiali. Nell’ambito di queste note si suggerirà la seguente nozione: un edificio è una società di materiali sui quali è stato fatto un certo lavoro per metterli a contatto stabilmente e durevolmente, al fine di costruire un oggetto architettonico definito, quasi sempre dotato di un interno, un oggetto architettonico che si situa in un punto preciso dello spazio contrapponendosi, per così dire, allo spazio circostante. Data questa definizione occorre argomentarla, seppure brevemente. Essa contiene un concetto importante, quello di società. Un manufatto non è un semplice insieme di parti o un sistema di elementi. Le nozioni di insieme e di sistema, pur essendo corrette, non danno infatti conto fino in fondo della natura nello stesso tempo e solidale e conflittuale dell’edificio, né restituiscono, pur essendo corrette, la grande varietà dei suoi componenti. Solo paragonando un edificio alla società umana è possibile cogliere il nesso che lega le componenti stesse all’unità. La società umana ha una funzionalità, una gerarchia, una finalità, una struttura, un significato che trascende ogni sua singola parte, un codice rappresentativo, una dimensione narrativa. Tutti questi caratteri sono presenti anche in un edificio, nel quale i molti materiali che lo compongono vivono, come peraltro la società umana, una condizione di conflittualità che deve trasformarsi in solidarietà. I suoi materiali costruttivi che sono numerosi, devono adattarsi l’uno all’altro stabilmente e durevolmente per dar luogo a quella specificazione della ratio vitruviana che è la firmitas. Tuttavia questa stabilità è durevole, ma non eterna. Così come le parti di un edificio sono state pensate e predisposte per collaborare, contemporaneamente esse sono soggette a forze che tendono a disgregare la compagine tettonica, separandone gli elementi. Elementi i quali, a loro volta, sono sottoposti a un degrado fisico inevitabile, che porta spesso alla loro sostituzione. Per questo la società di materiali nella quale un edificio si riconosce è destinata, come ha scritto Georg Simmel, a un disfacimento totale, per il quale i materiali guadagnano, alla fine, una condizione di riposo. Probabilmente nella visione del filosofo e sociologo tedesco, una concezione che assegna ai materiali un tempo limitato c’è il ricordo preciso della definizione di architettura che è stata data da Arthur Schopenauer, il quale sosteneva che l’architettura è espressione della dialettica tra carico e sostegno. In altre parole essa va considerata come la forma del contrasto tra forze opposte che cercano un equilibrio stabile ma temporaneo.

Affermare che l’edificio è una società di materiali sostituisce anche un’altra sua storica definizione, quella che lo identifica come un organismo. Questa nozione, a lungo centrale, incorpora notoriamente una metafora antropomorfa per la quale l’edificio stesso è l’analogo del corpo umano. Questa corrispondenza, che implica l’assunzione del modello del corpo stesso come rappresentazione del divino nell’umano, non appare più in grado di corrispondere alla realtà dell’architettura. Prima la rivoluzione industriale, che ha irreversibilmente sostituito al modello organico quello meccanico, poi la rivoluzione digitale, che ha imposto l’ossimoro concettuale del corpo immateriale, hanno definitivamente sottratto all’idea di organismo architettonico la sua legittimità. All’unità dell’organismo è succeduta, così, sia una sua articolazione processuale, sia una genetica incompletezza o, se si vuole, una continua apertura. Il corpo architettonico è divenuto così l’esito, sempre in progress, dei processi di formalizzazione, piuttosto che un oggetto definito una volta per tutte.

Sui materiali di cui è composto un edificio è stato fatto, come si diceva nella definizione proposta, un lavoro per metterli a contatto stabilmente. Ciò significa che in architettura non è sufficiente predisporre i materiali nella loro autonomia, che per quanto detto finora non può esistere, ma occorre che essi siano in grado di accogliere gli altri in un gioco di connessioni e di congiunzioni. Nello stesso tempo, come avviene con il mattone, i materiali devono essere il più possibile maneggevoli. Il mattone è, infatti, dimensionato sulla mano, ma tutte le misure sono in realtà dedotte dal corpo umano. Il palmo, il piede, il braccio svelano la diretta discendenza delle misure da quelle del corpo di chi abita e costruisce l’architettura. Si è detto che l’edificio è una società di materiali. Tale società è governata da una sua logica, ma tale logica non è lineare né meccanica. Si tratta di una coerenza che non può essere solo deduttiva, ne può risultare dall’applicazione rigorosa di principi. Nell’architettura esistono procedimenti – si pensi al tempio greco – che sono logici solo nell’ambito di una sfera costruttiva, percettiva, semantica e simbolica. Ciò che si vuole qui di nuovo sottolineare, è che la logica dell’edificio come società è una logica conflittuale che deve mediare tra esigenze diverse, non riconducibili facilmente, o forse mai, all’unità. Per questo motivo un edificio è sempre intermedio tra il suo essere qualcosa che tende all’unitario e al contempo un’entità che non può che configurarsi come composita. Proprio come la società umana. Nel passaggio dalle materie ai materiali alcune qualità delle prime si mantengono. Altre invece si modificano, fin quasi a renderle irriconoscibili. Tra un profilato di acciaio e il ferro in natura, che si presenta come un sasso o come una striatura rossastra in una roccia,  non c’è una relazione diretta. Tra un blocco di travertino e una lastra della stessa materia, lucidata, c’è una differenza notevole. Alcune materie invece, riescono, trasmettere quasi integralmente il proprio senso originario. Il legno ad esempio. Le venature trapassano, per così dire, dal tronco alla tavola levigata. Per contro è possibile, invece, un altro tipo di passaggio diretto tra materie e materiali, quello delle misure. Esiste una relazione profonda e per certi versi misteriosa, tra una materia naturale, e le misure dei materiali che da essa dipendono. Se voglio impiegare in una architettura una lastra di travertino di 220×120 cm devo dare ad essa uno spessore legato alle sue due misure da un rapporto preciso. Se voglio utilizzare un profilato a doppio T alto 2,00 m l’anima e le ali devono avere certe grandezze e determinati spessori. In sintesi ogni materia propone un proprio arco metrico, una declinazione di misure che va intesa nel suo senso più implicito. Costruire un edificio significa comporre una sorta di sinfonia metrica che è fatta di blocchi numerici, inverati in materiali che si accostano e a volte si attraversano l’un l’altro in un movimento virtuale di grandezze e di quantità. Quantità spesso invisibili – si pensi allo spessore di un pannello di rivestimento, che non è leggibile mai dall’esterno – ma che è possibile intuire decifrando le dimensioni delle parti.

E’possibile a questo punto introdurre una breve riflessione sui valori visivo-tattili dei materiali. Per valori visivo-tattili si intendono quelle impressioni visive che derivano dall’aver avuto un esperienza tattile dei materiali. Tali valori sono la scabrezza, la levigatezza, la sensazione del caldo e del freddo, la granulosità o il carattere liscio, astratto o venato delle superfici. Tra questi valori visivo-tattili, uno molto importante, è quello della profondità virtuale. Quando guardiamo una serie di materiali alcuni ci appaiono visivamente penetrabili, come certi marmi che sembrano stratificati, altri, invece, non consentono allo sguardo di attraversarli, neanche per uno spessore minimo. Una lamiera verniciata è impenetrabile; una lastra di Onice d’Egitto – come quella che Ludwig Mies van der Rohe ha collocato nel soggiorno della Casa Tugendhat a Brno – guida invece la vista dentro le sue venature, così come fa il legno, che è come composto di più livelli. Se disponessimo lungo una parete tanti pannelli dello stesso spessore, fatti di materiali diversi, potremmo virtualmente disegnare una sezione in cui ciascun pannello ha una sua profondità corrispondente a quanto si può entrare virtualmente dentro di esso. Tra i valori visivo tattili c’e’ anche da ricordare la strutturazione delle superfici, ovvero il disegno di pavimenti, pareti, involucri, soffitti, rivestimenti. Un mosaico è bello non solo per lo splendore della sua configurazione generale e per il nitido cromatismo delle sue singole tessere, ma anche per la fitta tessitura della sua superficie. Allo stesso modo un pavimento si apprezza non solo per le qualità del suo materiale ma anche per quella del disegno con il quale le sue parti sono messe assieme. Griglie e tessiture la cui origine si deve al fatto che in una costruzione, a parte l’involucro, i movimenti che le coinvolgono obbligano a dividere in sezioni i materiali che si utilizzano. Pavimenti, soffitti e pareti si configurano, così, come cretti assumendo la mobilità dell’elemento più piccolo, che può quindi assecondare il respiro del manufatto senza che esso subisca fratturazioni.

Costruire un edificio è quindi come è stato già detto, comporre una sorta di sinfonia metrica ma anche combinare una serie di profondità ottiche, nonché di sensazioni legate alla consistenza fisica dei materiali. Si pensi ad esempio all’architettura di Carlo Scarpa, che sapeva alternare la scabrezza del cemento armato a faccia vista alla levigatezza del marmo, alla chiarezza geometrica di un profilato di acciaio, a una cerniera in ottone, alla proprietà riflettente di un mosaico al dispiegarsi morbido delle superfici lignee, imbevute di luce. L’architetto veneziano ha saputo coniugare i vari aspetti dei materiali di cui si è parlato, in composizioni estremamente sapienti, in cui ciascun passaggio materico riverbera in modo poetico le sue potenzialità. Tra i valori visivo tattili occorre inoltre ricordare la luminosità e il peso. La luminosità è quell’attitudine del materiale a trattenere e a rinviare la luce che riceve. L’acciaio, se non è inossidabile, ma verniciato, è un materiale opaco, mentre una lastra di marmo lucidato puo’ divenire splendente. Un caso a parte è il vetro, che può essere trattato sia in modo da raccogliere la luce sia da farsene attraversare. Anche il peso è un elemento che entra nell’ambito dei contenuti architettonici espressi dai materiali. Lo sguardo è in grado di stabilire la densità dei materiali, immaginando spessori che sono invisibili, mediante il solo prendere atto della dimensioni dei singoli elementi.

Può essere utile a questo punto riepilogare quanto esposto finora. E’ stata proposta all’inizio la definizione di edificio come società di materiali. Successivamente è stato messo in evidenza come questa società sia governata da una logica non lineare né meccanica, ma intrinsecamente conflittuale. Subito dopo sono state affrontate alcune operazioni riguardanti il passaggio dalle materie ai materiali, introducendo infine i valori visivo-tattili. C’è infine un ulteriore argomento. In architettura esistono edifici fatti di un solo materiale, o quasi esclusivamente, e manufatti realizzati con più materiali. Le piramidi egizie, i templi greci, i templi cinesi, coreani e giapponesi, le case di legno americane, le isbe russe, le iurte delle steppe mongole sono costruzioni monomateriche. Il Partenone è una sorta di idealizzazione della materia unica come sogno di una totalità di concezione e di esecuzione sintetizzata in un principio al contempo costruttivo, plastico e spaziale. La stessa cosa si può dire per le piramidi, che anzi, con l’essenzialità delle loro forma, esaltano la volontà di far corrispondere idea e sostanza. Questa volontà sovrintende e ispira anche le architetture stereometriche. In queste non solo l’architettura è di pietra ma il disegno di ciascun elemento incorpora la legge costitutiva del tutto. Non esiste più una gerarchia tra le varie parti della compagine tettonica, ma ognuna di esse è carica dei significati dell’intero manufatto.  Nella mostra “Città di Pietra”, curata da Claudio D’Amato nell’ambito della XI Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia 2006, Claudio D’Amato ha dimostrato come il principio stereometrico, insito nel materiale lapideo, possa infondere la propria determinazione formale nell’intero edificio, plasmandone anche il più piccolo elemento. Entrando anche nello spessore del muro la legge stereometrica fa sì che l’ordine prospettico non si limiti a modellare l’edificio nei suoi esterni e nelle sue cavità interne, ma sia capace di penetrare anche nelle mosse murarie, disgregandone le singole componenti. A differenza di quelli in pietra, negli edifici costruiti con più materiali – pietra, legno, ferro, plastica, vetro – ciò che si fa contenuto architettonico primario è invece il modo attraverso il quale la molteplicità ritrova una coerenza nel complesso tettonico-architettonico. Nel primo caso la metafora dell’edificio come società si da in una forma assoluta, come un teorema perfetto, nel secondo caso l’edificio assume un tono più narrativo, proponendosi come l’intreccio di temi costruttivi, spaziali, decorativi.

Oltre a essere considerato come una società di materiali, un edificio si presta ad essere interpretato come un rapporto tra fibre. In effetti un manufatto non è altro che un certo numero di tessuti messi in reciproca relazione. Travi e pilastri sono un tessuto che al loro interno contiene un ulteriore tessuto fatto di tondini di ferro; un solaio anche è un tessuto; lo è anche un muro di tamponamento, un rivestimento o una copertura metallica. Ognuno di questi tessuti è composto di materiali uguali o diversi. In questa essenza c’è forse la radice dell’idea semperiana di architettura, un’idea che influenzerà anche Robert Venturi che ne darà un’interpretazione fortemente personale. Gli edifici possono essere classificati, dal punto di vista tettonico, come continui o puntiformi. Si ha un edificio continuo nel caso delle strutture murarie, che si risolvono in mosse compatte, dal carattere sostanzialmente plastico; si ha invece un edificio puntiforme quando la struttura si concentra in una serie di pilastri collegati da travi e dei solai. Le costruzioni in cemento armato appartengono al secondo tipo. Saverio Muratori sosteneva che il modo puntiforme apparteneva alla cultura costruttiva nord europea, laddove quello continuo sarebbe stato l’espressione del mondo mediterraneo.

A proposito del rapporto tra arte, tecnica e natura San Tommaso ha scritto che, se è vero che una nave è fatta di legno, non è detto che il legno generi in sé la nave. Occorre un salto creativo che sappia misurare la distanza tra materia, materiale e intenzione. C’è bisogno di  risalire dall’edificio alla natura per cogliere quell’essenza intransitiva che è contenuta nella natura stessa e che l’architettura utilizza, ma senza riuscire, comunque, a renderla strumentale fino in fondo. Per contro Carlo Marx, nel celebre apologo su l’ape e l’architetto, ricorda che la sapienza dell’ape, che sa costruire celle in cera con una geometria perfetta, non è confrontabile con quella dell’architetto. Nella mente dell’ape non c’è un progetto, solo un istinto biologico, in quella dell’architetto c’è l’idea di ciò che egli vuole realizzare. E’ proprio la presenza di questa intenzione che rivela quanto di creativo, e conseguentemente di indicibile, c’è nel passaggio dalla natura all’artificio, un passaggio reso possibile da una fondamentale metamorfosi, quella che consente di trasformare la materia, mai inerte, ma già portatore di valori metrici e di virtualità formali, in materiali costruttivi.

Franco Purini
Bari 12.10.2007

I GIOIELLI DI GEHRY

MOSTRA  “BEAUTY WITHOUT RULES”  DA TIFFANY
IN VIA DEL BABUINO, 118
MARTEDI 7 NOVEMBRE

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 08.11.2006

Negli anni ’70 la sedia in cartone riciclato disegnata da Frank Gehry, quella usata a Ballarò, si  comprava nei supermercati per pochi dollari. Oggi, prodotta dalla Vitra, ne costa 850.
Re Mida dell’era mediatica, il famoso architetto emana ormai, in ogni gesto, un’aura di ricchezza: la sua intera ricerca, anzi, sembra dirigersi verso i paradisi del lusso, indicando non solo il progressivo distacco dell’arte dal quotidiano, ma la sua fusione con l’haute couture.
Nella nuvola di cristallo da lui disegnata per la Fondazione Vuitton, Bernard Arnault, primo mecenate di Francia, annoderà mostre d’arte a collezioni di oggetti preziosi, i marchi del suo impero, Dior, Givenchy, Moët, ai profeti della pittura contemporanea, Dubuffet, Basquiat, Hirst. Nello scontro planetario che lega arte, lusso e finanza, la struttura parigina sarà, anche, una scintillante macchina da guerra rivolta  contro il rivale François Pinault (Gucci, Saint Laurent, Christie’s), recente padrone di Palazzo Grassi.
I magnifici gioielli disegnati per Tiffany, da oggi in mostra nella sede romana di via del Babuino, con le loro forme mutuate dalle architetture, sembrano indicare il culmine della parabola di Ghery: “Beauty without rules”. Del resto, se il Guggenheim di Bilbao è un gioiello prezioso perché un monile non può essere disegnato come un’architettura? Le forme fluide dei suoi edifici si confondono così nelle volute di collier e bracciali, una volta disegnati da Elsa Peretti o Paloma Picasso per gli happy few. Ed è solo l’inizio perché Gehry progetterà per Tiffany anche oggetti da tavola lasciando tracimare la sua estetica fastosa nella vita, invaderne i gesti quotidiani come tagliare una fetta di pane o bere un bicchiere di vino.
Si chiude così il circuito. Relegati nei musei i relitti del moderno (l’impegno delle avanguardie, la tensione etica degli oggetti del Bauhaus) la storia infinita di Gehry sembra mostrare come l’architettura sia avviata a diventare la nuova frontiera del lusso e della sua spettacolarizzazione.

LA BELLA METROPOLI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 09.12.2006

L’architetto ha creduto, per secoli, che il mondo esistesse per essere ordinato attraverso la bellezza, pur sapendo che quest’ordine è illusorio, un fragile stato di transizione.
Ma da almeno mezzo secolo gli architetti indagano la qualità estetica delle cose che hanno perso equilibrio e proporzione. Dal Robert Venturi del caos di Las Vegas, al Rem Koolhaas della New York dei deliranti disastri nasce l’epica metropolitana del moderno nomade eternamente in viaggio tra universi frammentati. La quale ha contribuito, bisogna pur dirlo, all’abbandono di quelle ricerche sull’abitazione che hanno costituito, da Morris a Le Corbusier, l’origine e il sale dell’architettura moderna.
Oggi, persa la carica provocatoria, questo pensiero sperimentale si è trasformato in genere letterario frequentatissimo e vagamente lugubre dove il termine “bellezza” viene ormai rimosso, schivato dagli intellettuali.
Tanto che esso, associato al tema della metropoli, genera un singolare cortocircuito. E’ quello che è accaduto nel recente convegno al Palazzo dei Congressi (Corriere del 24 e 25 scorso) che, con il titolo “La bellezza dove non c’è”, poneva il problema della rigenerazione delle periferie romane, dell’hinterland verso il mare che l’EUR spa si propone di rinnovare.
Se l’aver dimenticato il ruolo della bellezza e del giudizio sintetico che essa contiene sembra averci privato di uno dei grandi strumenti di orientamento nel caos del mondo, le schegge delle borgate romane che scorrono dietro i finestrini di un’auto sembrano ancora indicare, senza bisogno di dimostrazioni, che il bello è altrove.
In realtà la città, anche quella del passato, è sempre stata un mondo di frammenti e i centri storici che abbiamo ereditato sono stati anche, e per lungo tempo, luoghi invivibili.
Ma l’uomo del medioevo vedeva nella polvere e nei blocchi di pietra che affollavano le piazze la forma della città ventura. E gli architetti del Quattrocento disegnavano la Roma antica non per quello che era, ma per quello che avrebbero voluto che fosse. Questo desiderio struggente era il vero progetto di futuro.
Forse anche noi, liberandoci dalle incrostazioni delle teorie (ma anche dalle nostalgie per il passato), dovremmo provare a guardare alla catastrofe, alle rovine della speculazione edilizia romana con occhi nuovi. Accettare il mutamento delle cose sapendo che si potranno ancora ricomporre in nuova bellezza. O, almeno, desiderarlo.