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L’ARCHITETTURA AI MONDIALI DI NUOTO
di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 5.05.09
Le rovine della mai costruita Città dello Sport disegnata da Santiago Calatrava, abbandonate nei cantieri di Tor Vergata, non saranno un buon biglietto da visita per i prossimi mondiali di nuoto che metteranno sotto gli occhi di 400.000 spettatori e dei media planetari le capacità organizzative della città e la qualità dei suoi caratteri moderni.
Eppure questa catastrofe gestionale, che c’è costata quasi 200 milioni di euro, avrebbe potuto avere qualche effetto positivo. Poteva costituire, in fondo, un modo innovativo e civile di frammentare un solo grande evento in tante opportunità di rinnovo urbano distribuendo gli impianti (e le occasioni d’architettura) nei quartieri e nelle periferie, secondo lo spirito del piano d’emergenza.
Quello che resterà, dopo l’ondata di polemiche su conflitti d’interesse e denunce di “cubature improprie” saranno queste opere decentrate.
Le quali, purtroppo, sembrano annunciare un’ulteriore occasione mancata.
Perché non ci rimarranno nuove, vere strutture integrate nella vita della città, ma microcosmi autonomi del fitness, ampliamenti frettolosi di circoli privati costruiti, a volte, in luoghi di straordinario valore paesaggistico. Come lo Sport Village sulla Salaria, a Settebagni, con i suoi 160 mila metri cubi costruiti nell’area alluvionale del Tevere, o il caso estremo dello Sport Palace sull’Appia Antica, che le bocciature della commissione organizzatrice e della Soprintendenza archeologica non sono riuscite a fermare.
Architetture degli affari, senza un cuore, che sembrano lo specchio di una città che non riesce a guardare al di sopra del contingente, a raccogliere le cose che accadono in un progetto condiviso di rinnovamento.
E sono nuove testimonianze della deriva schizofrenica dell’architettura romana, eternamente in bilico tra spettacolari spot firmati da archistar internazionali e la disattenzione per la qualità diffusa, per le opere che vengono usate tutti i giorni dai cittadini che lavorano, studiano, si divertono, viaggiano, fanno sport.
Viaggio a Sabaudia alla ricerca delle radici
di Giuseppe Strappa
in «La Repubblica» del 15.8.1995
Sommerso sotto il cielo d’agosto da un turismo che ormai, dietro una stessa cortina di umani arrostiti dal sole e boutique balneari, unifica il villaggio delle Cicladi, la cittadina della Costa Brava, il porto delle Eolie, si stenta a riconoscere il carattere straordinario di Sabaudia, città silenziosa per vocazione.
Occorre fare qualche sforzo di concentrazione per riconoscere la memoria delle origini, pure ancora evidente, di questa città singolare, amatissima da Pasolini. Origini che la nostra corta memoria storica associa al volto migliore del ventennio fascista, quello della “redenzione delle terre”, delle città di fondazione, delle bonifiche, ma che in realtà appartengono, se viste nei tempi lunghi delle grandi trasformazioni territoriali, allo stesso ciclo storico che ha portato, agli inizi del nostro secolo, come avverte Braudel, alla bonifica delle grandi pianure del bacino del Mediterraneo, dalla piana di Salonicco, alle aree del Basso Rodano, fino alla Mitidja algerina.
Di questo epocale processo di addomesticazione idraulica delle paludi, Sabaudia, sorta nel ’34 tra due bracci del lago di Paola, sembra coagulare l’immagine più moderna: volumi ostinatamente puri, artificiali, costruiti come per esorcizzare l’antica natura ostile del luogo. Edifici che appaiono nelle foto d’epoca, visti dal mare o dalla maglia regolare dei campi coltivati a grano, come la semplificazione, estrema e trasognata, della città italiana, il trionfo della civiltà sulla natura selvaggia: evocano le architetture che si incontrano nei dipinti di Giotto, Ambrogio Lorenzetti o Taddeo Gaddi.
Gli architetti che la idearono, Cancellotti, Montuori, Piccinato, Scalpelli, non disegnarono un semplice piano urbanistico, ma progettarono per intero la città, la forma nuda degli edifici, il sereno dispiegarsi dei viali. Le abitazioni, tutte a due piani, dovevano essere più dense, ad appartamenti, lungo le strade centrali; quelle più periferiche, per famiglie singole, più rade, a schiera; le altre erano case isolate, a carattere rurale. Il degradare della densità edilizia dal centro verso la campagna esprimeva uno dei caratteri di Sabaudia, città senza mura dove manca il confine netto col territorio retrostante, al quale la lega la rigida geometria viaria dell’Agro bonificato. E l’asse viario sul quale si imposta la città, corso Vittorio Emanuele II, infatti non è altro che la continuazione di una delle direttrici che partono dall’Appia in direzione della costa, la Migliara 53, il cui nome deriva dalle “fosse milliarie” fatte scavare da Pio VI per la sfortunata bonifica iniziata alla fine del ‘700 .
E proprio la Migliara 53, traversate le quinte di verde del parco del Circeo, incontra la torre in travertino del Palazzo Comunale, con la sua campana di due tonnellate, cuore del sistema di piazze ed edifici pubblici: la piazza del Comune, circondata dall’albergo, dal cinema teatro, dai negozi; la piazza Circe, destinata in origine alle adunate ed oggi sistemata a parco; l’edificio dell’Associazione Combattenti (oggi Istituto Galileo Galilei).
Architetture non a caso ammirate da Le Corbusier nel suo viaggio in Italia del ’34, che riconducono al centro stesso della modernità apparentandosi, è stato fin troppo spesso notato, al clima mitteleuropeo dei Dudok, degli Oud, dei Gropius. Ma che qui assumono un senso inedito: prive dell’ingegnosità dei modelli nordici (distanti dalle loro macchinose trovate), acquistano l’aria serenamente solare, fragile e incorruttibile allo stesso tempo, delle forme necessarie: non possono esistere, in realtà, che associate al luogo dove sorgono. E così, a differenza di molte città di quegli anni, la presenza dell’antico compare a Sabaudia in forma discreta, antiretorica, celata sotto molti strati di modernità.
Ma per avere un’idea dell’originale organicità di Sabaudia bisogna rintracciare anche altri frammenti, alcuni dei quali autentici capolavori di architettura moderna: la gelida Chiesa dell’Annunziata, posta a fondale di piazza Regina Margherita, col grande mosaico di Ferrazzi incastonato nella facciata di travertino; le famose poste progettate da Angiolo Mazzoni, in corso Vittorio Emanuele III, lodate da Marinetti per la “policromia di forza e di entusiasmo che invita al colore gli altri edifici di Sabaudia”; gli edifici per l’Azienda Agraria e l’antistante Opera Balilla (oggi Centro Forestale) costruiti da Angelo Vicario in viale Carlo Alberto; l’Ospedale (ora U.S.L.) e la scuola disegnati da Oriolo Frezzotti in viale Conte Verde. Per terminare col bel ponte sul lago di Paola costruito da Riccardo Morandi nel 1962, ultima delle opere notevoli di Sabaudia prima della catastrofe edilizia.
Ma in fondo la nuova città sorta intorno a quella originaria, proprio perché cinica e volgare come ogni periferia del dopoguerra, ha in un certo senso rispettato il nucleo “storico” lasciandolo riconoscibile: a Sabaudia ogni muro, come è giusto che sia, mostra al giudizio del visitatore la sua data.
UN PROGETTO LUNGO UN SECOLO
Un libro sull’opera architettonica dello Studio Passarelli
di Giuseppe Strappa
in “Corriere della Sera” del 11.04.206
Vera epopea architettonico-familiare che accompagna per intero la formazione della Roma moderna, la ricerca dello Studio Passarelli ha captato, per un secolo, i cambiamenti del tempo che scorre attraverso un eclettismo versatile e vorace, pienamente immerso nella pratica, nel tumulto concreto della città e dell’esistenza che si trasforma.
Un ponderoso volume appena uscito per i tipi dell’Electa e curato da Ruggero Lenci, documenta quest’opera secolare e la sua incredibile diffusione in ogni angolo della città.
La storia inizia nel 1899, quando il fondatore e capostipite Tullio, sulla scia del maestro Gaetano Kock, costruisce l’Istituto De Merode in piazza di Spagna e poi una serie di solide costruzioni neoromaniche: le chiese di S.Teresa a corso d’Italia, di S. Camillo in via Piemonte, dei Monfortani in via Sardegna. Opere dove l’adesione ad una lingua comune permette l’immediata comprensione dell’innovazione individuale. Lo dimostra l’esempio, straordinario, della Borsa in piazza di Pietra, a ridosso delle colonne, esposte come una reliquia, del Tempio d’Adriano. Qui lo spazio del cortile centrale, annodato dalla copertura trasparente, si trasforma in nucleo spaziale dell’edificio, interpretando uno dei processi fondamentali del passaggio al moderno nell’architettura romana.
Da allora, in un viaggio irto di pericoli che attraversa gli anni del barocchetto, del razionalismo, del boom edilizio e arriva ai nostri giorni, i Passarelli riescono a non naufragare nel pragmatismo sbrigativo dei grandi studi professionali. Al contrario, un’ingegnosa disponibilità permette loro, in qualche caso, di comprendere appieno lo spirito del tempo e darne un’espressione folgorante.
Succede nel ’50 quando, con Paniconi e Pediconi, realizzano quella sede dell’IMI in via delle Quattro Fontane che rimane un esempio d’integrazione non mimetica del moderno nel tessuto consolidato.
E poi nel ‘64, quando, in via Campania, a ridosso delle mura Aureliane, producono un intervento imprevedibile, di segno opposto, considerato tra i capolavori assoluti della Roma contemporanea, fatto di discordanze e rotture, di solidi volumi assemblati su un prisma di vetro. “Schönberg a via Campania”, ne saluta l’apparizione Bruno Zevi, entusiasta.
Quest’ acrobatica apertura al molteplice permette di assecondare le richieste di committenze diversissime, ma anche di accogliere i tanti contributi che si fondono nei loro progetti: dei Quaroni, Piccinato, Anselmi, degli studi Valle e Transit.
Come mostrano le immagini in sequenza del libro, la vicenda dei Passarelli, esposta ai conflitti e agli scacchi di un mondo contraddittorio, non si svolge (non può svolgersi) in modo lineare. Distanti dal timone della teoria, ma anche liberi dai suoi gravami, Tullio, Vincenzo, Fausto, Lucio sono riusciti, a volte, dove molti sussiegosi pensatori hanno fallito: a cogliere l’attimo senza perderlo in generalizzazioni, convinti che non esista una sola verità e che la strada, in architettura come nella vita, possa anche procedere per intuizioni, discontinuità e frammenti.