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LETTURA DELL’ ORGANISMO ARCHITETTONICO

 

Lezione di G.Strappa
Prendiamo in esame il caso di Villa Capra cercando di comprenderne le ragioni formative e le potenzialit¦ di sviluppo:
– perché essa si configura come organismo;
– perché di questo organismo possono essere date alcune leggi generali, che lo identificano allíinterno di una famiglia di organismi: una definizione che, trascendendo il singolo edificio, permetta di riconoscere nel manufatto architettonico la presenza di caratteri costanti che individuano il tipo.
Villa Capra, concludendo una famiglia di edifici e ponendosi all’inizio di un’altra, sotto molti punti di vista, esemplare. Riguardiamola sotto l’ottica del rapporto col luogo e delle componenti che lo informano.
Il luogo. Nel programma unitario dell’organismo uno dei dati del problema è legato all’utilizzazione dell’edificio rispetto alle condizioni al contorno: una villa situata nella campagna vicino Vicenza, su un luogo di cui sono note le qualità, e dal quale è possibile osservare quasi in maniera isotropa il paesaggio circostante con pochi discreti punti cospicui: “Il sito è degli ameni e dilettevoli che si possano ritrovare, perché è sopra un monticello di ascesa facilissima ed è da una parte bagnato dal Bacchiglione fiume navigabile, e dall’altra è circondato da altri amenissimi colli, che rendono l’aspetto di un molto gradevole Theatro, e sono coltivati, e abondanti di frutti eccellentissimi e buonissime viti…”.

 

L’utilitas. Questo edificio è una villa, quindi fa riferimento ad un modo di abitare di consolidata tradizione: corrisponde ad una grande, ben individuabile famiglia di edifici. La villa, così come si è configurata nel tempo, corrisponde ad un edificio di abitazione di campagna, che ha con la natura un rapporto contemplativo: la tradizione della villa corrisponde alla cultura dell’otium, del riposo volto alla riflessione, allo studio, alla contemplazione. Rapporto diverso, quindi, da quello che instaura la casa rurale, altra forma diffusa di relazione diretta tra edilizia abitativa e natura, che è invece principalmente produttivo, di sfruttamento. dato che condiziona la funzione è costituito dalla figura del committente, il referendario apostolico Paolo Almerico, figura di prelato colto, intellettuale e letterato. Ne risulta un programma di relazioni tra le parti dell’edificio dove l’istanza funzionale non è separabile da quella simbolica.
La firmitas. Dal punto di vista della costruzione il programma è altrettanto chiaro: non possono che essere utilizzate le tecniche tradizionali disponibili, legate alla struttura muraria continua o alla struttura trilitica (parti portanti) e alle coperture spingenti a volta, a cupola o semplicemente appoggiate come travi e capriate (parti portate). L’esteso uso della parete muraria condiziona la geometria dell’edificio: l’organizzazione per setti murari costringe ad un rapporto di necessità strettissimo tra la parete portante (che è anche chiudente) e la coperture portate. Lo studio statico dell’organismo risulta dunque non isolabile da quello distributivo.

Progetto Palladio Digitale

La venustas, problema delicatissimo per essere il periodo nel quale Palladio progetta un momento di transizione nel quale si instaura un rapporto tutto particolare con l’antico. Le componenti del programma “espressivo” della villa palladiana sono molteplici: da una parte líistanza di dare dignit¦ allíedificio utilizzando le forme rintracciate nelle testimonianze dell’antico, secondo il disegno, che Palladio persegue costantemente, di dare un volto nuovo agli edifici della nobiltà colta veneziana che ancora non possiede segni attraverso i quali autorappresentarsi. Non possono che rivelarsi inadeguati alle esigenze della committenza tanto il tipo di edificio derivato dalla “barchessa”, la residenza del piccolo proprietario terriero veneto con semplice copertura a tetto, quanto il tipo della villa-castello formatasi nel Quattrocento (Villa Porto-Colleoni a Thiene; Villa Giustinian a Roncade) ed ancora in uso ai tempi di Palladio. Ma qui più che altrove, cogliendo l’occasione di rispecchiare il carattere di una committenza allo stesso tempo intellettuale e religiosa, insorge l’istanza a fondere elementi di un edificio religioso legato alla storia (il tempio) con le forme di un edificio civile (la residenza di campagna). Si tratta di un processo critico complesso per le scelte da operare e perchè in realtà Palladio, come è noto, opera su materiali da tempo detratti dalla storia. Egli non vive la prima età della riscoperta dell’antico, quando con entusiasmo si cominciavano a studiare le tracce lasciate dal mondo classico. Opera, invece, su un corpo già consolidato di nozioni, riflessioni, conoscenze: conosce a fondo Vitruvio e i trattatisti rinascimentali, ha acquisito e fatto uso di un patrimonio di studi ormai consolidati. Opera, inoltre, all’interno di una sorta di fertile contraddizione tra fonti dirette e fonti letterarie: il trattato di Vitruvio trae origine per larga parte dallíantichità greca, mentre Palladio in realtà studia ed opera sull’antichità romana. Contraddizione che si manifesta appieno quando gli vengono commissionate le illustrazioni al testo antico (un testo letterario del I secolo a.C. privo, com’è noto, di commento grafico). Questa condizione di interprete costretto a fondare le sue deduzioni su fonti malsicure pone Palladio in una posizione particolare nei confronti dell’antico: non già quella dell’archeologo o del filologo, ma dell’architetto, nel ruolo fecondo di chi è costretto a risalire processualmente alle origini delle forme architettoniche, ad interpretare “criticamente” gli esempi antichi, ad “inventare” nuove varianti ai tipi tramandati. Inventare nel senso etimologico di invenire, dunque trovare, incontrare, scoprire (imbattersi, in un certo senso), dove l’inventio è più ritrovamento critico che innovazione programmatica.
Cerchiamo di ricostruire, interpretandola strumentalmente, la genesi di Villa Capra. Per prima cosa vengono tracciati due assi. Gesto fondamentale di orientamento che permette all’uomo di orizzontarsi rispetto alla natura (al sole, alla campagna, alla vegetazione). Sono gli stessi gesti elementari di fondazione, ripetuti per gli edifici come per le città. Il tracciamento dei due assi di orientamento è seguito dal disegno del recinto quadrato, atto elementare di appropriazione dello spazio. L’edificio deve essere rivolto verso il paesaggio per permettere la contemplazione della campagna circostante: viene tracciato un sistema ordinatore di altri quattro assi, secondo due direzioni, che proiettano l’edificio all’esterno; la contemplazione viene tradotta in termini architettonici, attraverso l’idea del pronao ripetuto sui quattro lati.
Palladio stabilisce una gerarchia tra le parti:
– il perimetro quadrato, limite individuato da linee che dividono l’architettura dalla natura, l’interno dall’esterno;
– la serie dei vani perimetrali ripetuti lungo il perimetro, alla periferia dell’edificio;
– il nodo spaziale, il grande vano centrale, fondamento e cuore dell’edificio, espresso attraverso la forma circolare.
Il tipo si comincia a tradurre in un programma di assi, linee, vani attraverso riflessioni che abbiamo esposto in astratto, ma che in realtà, nella mente dell’architetto, non sono scindibili da ragionamenti costruttivi, funzionali, espressivi: dalla concretezza muri e delle volte. Ne deriviamo una considerazione che svilupperemo ampiamente in seguito: la geometria non determina, ma interpreta ed esprime la vita dell’edificio. Le componenti dell’organismo hanno tra loro un rapporto di necessità intrinseco, secondo una concezione unitaria dello spazio, della struttura, della vita che nell’edificio si dovrà svolgere. Palladio non pensa ad uno schema funzionale da tradurre in architettura: la sua è una totale dell’edificio da realizzare attraverso forme semplici, elementari, dove la forma circolare del nodo spaziale è, coscientemente, leggibile come sintesi perfetta dell’unità dell’organismo perché la circonferenza “avendo le sue parti simili tra loro, e che tutte partecipano della figura del tutto; e finalmente ritrovandosi in ogni sua parte l’estremo ugualmente lontano dal mezo, è attissima a dimostrare la Unità, la infinita Essenza, la Uniformità e la Giustizia di Dio”. Per questo Villa Capra è uno degli esempi di organismo architettonico più chiari: perché è cristallinamente unitario il modo di relazionarsi delle parti con le necessità generali dell’edificio. Dalla iniziale concezione unitaria dell’organismo Palladio ha derivato le considerazioni che uniscono funzione e simbolo: lo spazio centrale è lo spazio della vita, quindi deve essere lo spazio dell’emozione dinamica che si prova entrando
all’interno dell’edificio.” uno spazio domestico, ma anche simbolico, che trascende la pura funzione abitativa. Come la geometria è la rappresentazione formale della regola gerarchica per la pianta, così avviene per l’alzato. Il vano circolare centrale è dominante e quindi a doppia altezza, i vani minori occupano la periferia dell’organismo, sono secondari e “quindi” su una sola altezza: il concetto di centro e periferia, della gerarchia delle parti, informa in modo totale il disegno dell’edificio. E quasi a conservare l’idea leggibile del recinto, della corte originariamente aperta intorno alla quale l’edificio si struttura, il grande vano centrale viene coperto a cupola, simbolo della volta celeste, dello spazio dinamico, aereo, mentre il volume del parallelepipedo che lo circonda simboleggia la base, la terra, la parte statica, materiale dell’edificio. Gerarchicamente il cilindro è la parte più importante, e accanto ad esso si organizzano le parti periferiche, subordinate dal punto di vista funzionale e statico. L’edificio è un organismo perfetto perché ogni parte concorre in rapporto di strettissima necessità statica, funzionale, espressiva a formare un’unità: tant’è che le parti periferiche sono subordinate gerarchicamente anche dal punto di vista del ruolo che svolgono all’interno del sistema statico-costruttivo: la cupola, parte portata, spinge sulle reni, dove viene impostata la capriata, e sui vani periferici (parte portante) destinati ad assorbire, secondo un meccanismo consolidato, le sollecitazioni prodotte dal vano centrale. Anche la capriata, a sua volta, potenzialmente spinge sulla muratura perimetrale (anche se le azioni mutue sono “provvisoriamente”, potremmo dire, eliminate dal tirante) e quindi la funzione dei pronai è allo stesso tempo quella di individuare e rendere leggibili gli assi accentranti dell’edificio, e, contemporaneamente, di reagire alle sollecitazioni ultime trasmesse dalla copertura agli elementi contigui. L’intero edificio poggia infine su un basamento-podio che, oltre a sopraelevare la villa rispetto al terreno, indicandone l’artificialità rispetto alla natura, ha il compito di scaricare sul terreno i carichi delle murature.
E’ riscontrabile, in altre parole, una legge gerarchica comune a tutte le componenti dell’edificio. Nell’utilitas questa legge è riconoscibile attraverso la sequenza: vano centrale di rappresentanza, vani subordinati perimetrali. Nella firmitas lo stesso programma funzionale coincide in una gerarchia statica: parte portata (la cupola spingente), vani perimetrali che sostengono questa spinta, pronai che raccolgono la spinta residua delle coperture e la contrastano, basamento. Utilitas non significa quindi dare risposta alle funzioni in modo meccanico e utilitaristico: quella di Palladio è uníidea umanistica di funzione, legata al modo con cui l’uomo è destinato a vivere lo spazio, che procede non attraverso strumenti puramente logico-funzionali ma fondamentalmente emotivi. Si veda, come lampante dimostrazione, il ruolo assegnato alle scale interne. Villa Capra è una particolare interpretazione della villa e, ovviamente, non l’unica possibile: in molti edifici di questo tipo, a volte anche ville palladiane, la scala ha una funzione importante, costituisce il cuore stesso dell’edificio che indica l’idea di continuità dello spazio centrale del piano terreno con il resto della casa. In questo caso il programma Ë diverso: lo spazio simbolico al centro dell’edificio deve essere di chiarezza assoluta, non disturbato da elementi accessori. La scala ha quindi un ruolo meno importante di quanto la sua funzione richiederebbe, un ruolo del tutto subordinato: il programma dell’utilitas è condizionato dalla più generale visione del “funzionamento simbolico” dell’edificio.
Anche se il problema dei due vani angolari, che risulterebbero dall’applicazione meccanica della geometria, non può che essere risolto nella fusione di due vani, ottenendo vani gerarchizzati, l’impianto rimane, tuttavia, orientato dai due assi di percorrenza che organizzano due fasce laterali (quasi la fascia di pertinenza di una strada urbana) che generano, come nei tessuti urbani di case a schiera, un’anomalia sugli angoli, dando luogo ad una pianta “incidentalmente” asimmetrica. L’interpretazione di questo edificio svolta con gli strumenti dell’architettura, riconoscendo la fondamentale unità dell’organismo, è diversa dall’interpretazione dello storico dell’arte: se si osservano gli schemi interpretativi di R. Wittkower delle ville palladiane si rileverà una diversa lettura, legata alla forma visibile che l’edificio ha assunto nella costruzione: da storico, riflettendo sugli esiti, Wittkower riconduce questo edificio nel filone degli organismi monoassiali, secondo lo schema comune che dovrebbe informare tutte le ville palladiane14. In realtà, riguardato sotto il punto di vista della “matrice” formativa che presiede alla formazione dell’organismo, esso possiede due assi di simmetria intersecantesi nel polo dello spazio centrale, con vani perimetrali di carattere rigidamente seriale, gerarchizzati unicamente allo scopo di risolvere il problema dell’accesso al vano angolare. Anche la posizione delle aperture di porte e finestre, distribuite in “infilata” secondo assi contemporaneamente di percorribilità secondaria e di continuità percettiva, conferma la legge generale di isotropia. In che modo quello che sembra essere esclusivamente il portato “necessario” delle scelte che riguardano l’organismo riesce a rendere leggibili i contenuti dell’edificio? Si immagini di sovrapporre alla sezione il prospetto: la facciata (dove sono anche rappresentati i diversi ruoli delle parti di edificio rispetto alla verticale, alla forza di gravità: basamento, elevazione, unificazione, copertura) corrisponde esattamente, ma, si badi, non meccanicamente, all’idea di spazio che Palladio voleva rappresentare. Essa non rispecchia il semplice dato costruttivo, ma esprime la vita dell’edificio. Le linee orizzontali (sia la sequenza continua della trabeazione che il marcapiano unificante il piano dí appoggio alla conclusione del basamento) percorrono le quattro facce dell’edificio rivelandone la gerarchia interna coll’informare le pareti murarie e i quattro pronai, indicando la quota di imposta sia del primo piano che dei timpani. Sono segni che esprimono sinteticamente e convenzionalmente (simbolicamente) il carattere dell’edificio, rendendone leggibile l’unità. Si noti come anche il basamento, quasi una fondazione fuori terra, denunci la gerarchia che anima l’edificio, eseguito ad archi e volte in quanto autonomamente stabile e virtualmente precedente la costruzione abitata, come un suolo artificiale sul quale fondare líedificio.
E’ chiaro come tutta l’espressione architettonica corrisponda ad alcuni principi, un ordine generale che denuncia la necessità del rapporto tra i diversi elementi: questa regola, resa leggibile, è lo stile usato da Palladio.
A differenza del modo romantico di intendere lo stile come espressione individuale, lo stile in architettura può essere quindi definito come la scelta dei principi che coordinano l’atto costruttivo dell’artefice. E’ quindi un principio molto diverso, ad esempio, da quello che contempla l’uso personale di un repertorio.
In fase di coscienza critica la nozione di stile prevede, nella mente dell’artefice, una conoscenza degli elementi e della loro relazione reciproca (struttura) talmente profonda da consentire un uso del linguaggio individuale eppure aderente alla processualità della realtà costruita. La riconoscibilità individuale dello stile, tutt’altro che condannabile, è comunque data dalla inevitabile frequenza di certi elementi e dalla ripetizione di alcune strutture tettoniche sperimentate. E se in altre arti può esistere una relativa coincidenza tra poetica e stile, questo non può verificarsi in architettura: dove nelle arti figurative lo stile riguarda la rappresentazione, in architettura esso riguarda la costruzione. Lo stile per l’architetto deve essere generalizzabile, deve corrispondere appunto ad un modo universale, trasmissibile e leggibile, di coordinare la progettazione. In questo l’architettura è diversa dalle arti visive: le altre arti rappresentano o interpretano, in diverse forme, la realtà; l’architettura è la realtà. Da questa considerazione deriva larga parte delle riflessioni che verremo sviluppando nel seguito.

GOOD AND BAD MANNERS IN ARCHITECTURE

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 20.09.2006

Alla metà degli anni Venti esce, a Londra, un curioso libretto: Good and bed manners in architecture. Il suo autore, Trystan Edwards, vi sostiene che il contegno, i comportamenti tra gli uomini come tra gli edifici, rappresenti una delle forme più alte di arte visiva.
In un disegno del libro è mostrata una chiesa che emerge armoniosamente in un quartiere di edifici bassi, dai toni moderati.  Poi, in un secondo schizzo, apparentemente ingenuo, la stessa chiesa è aggredita da edifici “unsociable”, animati, ciascuno, da un prepotente spirito individualistico: come in un’orchestra dove tutti suonano al massimo volume, il risultato è disastroso. L’architettura della città, conclude l’autore, è l’arte della cooperazione, non della competizione.
Edwards, che ingenuo non è, conosce bene la natura economica dei cambiamenti estetici che critica, cosa esprima la rissa architettonica della città capitalista. Sostiene la necessità, tuttavia, di mettere un freno all’incontrollato liberismo formale attraverso l’ urbanity, il rispetto reciproco tra costruzioni.
Forse anche nella Roma contemporanea il suo richiamo all’urbanità non sarebbe inutile.
In via Oderisi da Gubbio, ad esempio, di fronte alla chiesa di Gesù Divino  Lavoratore, capolavoro romano di Raffaello Fagnoni, è in costruzione un nuovo edificio. La sua facciata si annuncia come uno strillo, un contorcimento obliquo rivestito, con gratuita estrosità, in vetro a specchio e travertino.
Si dirà che questa strada non è via Giulia. Ma quale furore artistico, o messaggio rivoluzionario ha spinto ad interrompere la coralità di una quinta urbana, a suo modo, continua e unitaria?
Si potrebbero citare altri casi simili: tasselli “minori” che, isolati, sembrano trascurabili e la cui sequenza va componendo, invece, un mosaico babelico.
Che non risparmia nemmeno l’architettura esistente, come l’edificio in via dei Monti della Farnesina  costruito da Del Debbio e appena “recuperato”, con indubbio estro creativo, sostituendo il vetrocemento originale con un materiale che sembra uscito da un catalogo d’arredamenti per bagno. Non è, questa, un’offesa rivolta a ciascun passante?
Certo, ogni professionista rivendica oggi la propria libertà estetica, il diritto alla propria quota di lacerazioni.  Ma poiché l’architettura è un’arte che impone la propria presenza, è poi tanto bizzarro il richiamo di Edwards ad usare, almeno un po’ di good manners?

Se l’altezza non vuol dire qualità

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dI Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 10 giugno 2010

Le recenti dichiarazioni di Alemanno hanno riacceso, in questi giorni, le polemiche sull’opportunità di costruire grattacieli a Roma. E’ stato perfino proposto di indire un referendum che finirebbe per aumentare la confusione su un già tema molto complesso. A cominciare dai termini, non sempre chiari, della questione.
Il grattacielo vero e proprio nasce nell’America del liberismo e della competizione. La sua forma si sviluppa quasi “naturalmente” per densificazione, sotto la spinta economica dello sfruttamento del suolo, cui si aggiunge il significato simbolico del capitale che li ha generati.
E, del resto, il celebre progetto di Wright per un grattacielo alto un miglio, non era, in fondo, che il sogno estremo dell’edificio insuperabile, che non ha concorrenti.
Oggi non c’è metropoli del nostro pianeta, dalla Cina al Brasile, che non abbia il proprio panorama di grattacieli aggressivi che sembrano combattere per la sopravvivenza,
Questo tipo di edifici costituisce, credo, la faccia antiumana della metropoli contemporanea che schiaccia gli abitanti, dove architetture spettacolari e firme illustri organizzano il consenso a grandi operazioni immobiliari.
Di queste cose, a Roma, non abbiamo bisogno. E forse molti milanesi, di fronte alle contorsioni dei nuovi grattacieli di Libeskind e Zaha Hadid guarderanno con nostalgia alla saggezza della Torre Velasca, capolavoro dei BBPR.
Che, infatti, non è un grattacielo.
Perchè costruire in altezza può significare ben altra cosa: non si tratta di misure e dimensioni ma di ruolo dell’edificio rispetto alla città ed al territorio.
Un intero filone di pensiero che percorre il moderno europeo ha dato all’edificio alto forme e valori diversi, positivi, ancora attuali. Come la Città Radiosa di Le Corbusier, ad esempio, che costituiva il tentativo di conciliare le grandi densità abitative con la necessità di preservare la natura, riunendo gli abitanti in edifici alti separati da ampi spazi verdi. Di fronte ai disastri dello sprawl urbano, alla frammentazione del territorio laziale in una miriade di volumi senza senso, ci si chiede se questa non potrebbe essere una strada, se non sia a volte preferibile demolire e concentrare le cubature in pochi edifici circondati da un paesaggio dignitoso.
Potrebbe essere una sfida. Perchè il problema non è l’altezza degli interventi, ma gli interessi che li muovono e la qualità del progetto.

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Caro Giuseppe,

leggo il tuo articolo ALTEZZA NON SIGNIFICA QUALITA’. Finalmente! Sono d’accordo su tutto tranne che sul finale: “potrebbe essere una sfida”. Il desolante livello del dibattito pubblico (riferito dai media e, in particolare dal n° di oggi del Corriere) e la forza d’urto degli interessi in gioco potrebbero farla diventare una sfida molto pericolosa. Specie se affidata ad un farsesco referendum. Temo che vincerebbero i grattacieli.
E’ vero, ci mancavano i grattacieli per omologare anche Roma al resto del pianeta urbano. Così finalmente i turisti romani quando andranno a Seul o a Shanghai si sentiranno a casa, oppure potranno risparmiarsi il viaggio. Non piacciono le periferie? Basta demolirle e sostituirle con qualche grattacielo. Come non averci pensato prima?
Certo, costano di più, molto di più di quanto non possa permettersi l’edilizia sociale; sono poco adatti per abitarci (tant’è che storicamente nascono per altre funzioni); è tecnicamente provato che non fanno risparmiare spazio al suolo; se mal disegnati (v. quelli di Lieberskind a Milano o il cetriolo di Foster a Londra) sfregiano irreparabilmente il paesaggio. Però hanno alcune qualità taumaturgiche: fanno entrare Roma nella modernità (l’epoca che, secondo Scalfari sarebbe tramontata con Nietsche);  segnano il “riscatto” delle periferie; infine fanno guadagnare di più i grandi immobiliaristi. Il recente boom edilizio (frenato solo dalla crisi mondiale), le diecine di asteroidi commerciali atterrati sulle centralità del nuovo piano regolatore non sono bastati. Ora è la volta dei grattacieli.
C’è ancora qualcuno disposto a riflettere seriamente sulla morfologia “necessaria” per una Roma diversa dal resto del mondo, come sono profondamente diverse la sua storia e la sua geografia, perché Roma non diventi quella “città generica” che piace a qualche rinomata archistar?

Con i più cari saluti,

Elio Piroddi

PS l’immagine che segue concludeva un mio seminario del 2006; è una vignetta di Vincino dal Corriere Economia, 11.12.06

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Vincino

RIPENSARE IL CASILINO 23

workshop

RIPENSARE IL CASILINO 23
WORKSHOP INTERNAZIONALE DI RIPROGETTAZIONE URBANA

ASSOCIAZIONE CULTURALE CASALE GARIBALDI
Facoltà di Architettura “Valle Giulia”
S.A.C. – Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura e della Citta’
Laboratorio di Progettazione 2A, Prof. G. Strappa A.A. 2009/2010
Con il Patrocinio della Consulta dei Beni Culturali dell’Ordine degli Architetti P.P.&C. di Roma e Provincia

Giovedì 17 giugno ore 9,00
– Presentazione del workshop
– Lavori dei seminari
Venerdì 18 giugno h. 9,00
– Lavori dei seminari

Dal Casilino 23 a villa de Sanctis
Venerdì 18 giugno 2010, ore 18.00
ASSOCIAZIONE CULTURALE CASALE GARIBALDI
Via Romolo Balzani, 87 (Villa De Sanctis) Roma
Saluti: Giammarco Palmieri (Presidente, Municipio Roma 6)
Sandro Sanguigni (Assessore all’urbanistica, Municipio Roma 6)
Pino Bendandi (Presidente Associazione culturale Casale Garibaldi)
Coordina: Giuseppe Strappa (Presidente del corso di Laurea in Scienze dell’architettura e della città, Facoltà di Architettura “Valle Giulia”)
Intervengono: Marco Corsini (Assessore all’urbanistica, Comune di Roma)
Francesco Coccia (Direttore Dip. XVI – Politiche per lo sviluppo e il recupero delle periferie, Comune di Roma)
Daniel Modigliani (Dirigente ATER, Comune di Roma)
Tom Rankin (Coordinatore California Polytechnic State Institute Rome Program in Architecture)
Alessandro Camiz (Direttore del seminario “Architettura e Città“)
Paolo Carlotti (Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2)

Ingresso libero, la cittadinanza è invitata
A cura di:
Alessandro Camiz

alessandro.camiz@uniroma1.it
3388713648 Lpa
Laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura

V. anche
Camminare Roma
X Uscita 17 Giugno 2010