Category Archives: saggi e articoli

L’UTILITA’ DI PROGETTARE NEI CONTESTI STORICI

trani-a rosy-prospetto-400x282

Progetti di studenti nel centro storico di Trani e recupero di strutture in c.a. a Castelluccio Superiore

Giuseppe Strappa,  in “Il progetto nel contesto storicizzato” , Atti del convegno di Aramo, 17 maggio 2008,
a cura di Alessandro Merlo e Gaia Lavoratti, Firenze 2009

Vivere il paesaggio costruito di Aramo, “praticarne” le pietre, le murature, le costruzioni, costituisce già, credo, una buona lezione di architettura. Si comprende, dal vivo, come questa si formi per stratificazioni successive, attraverso un processo di mutazioni spiegabili con la logica elementare ed evidente della necessità che ogni organismo richiede per vivere e modificarsi nel tempo. Trasformazioni, altra nozione utilissima per il progetto, operate dagli abitanti a partire da un primo impianto che costituisce una fondazione e, insieme, una sorta di canovaccio, un’ipotesi di lavoro sulla quale costruire nel tempo l’aggregato futuro.
Si capisce anche come perfino quando (è il caso delle dieci Castella dell’area pesciatina) le decisioni su quest’impianto sono prese da un potere estraneo e sembrano appartenere solo al mondo lontano delle tecniche militari, la coscienza del costruttore finisce per adeguare le scelte alle condizioni fisiche del luogo, alla propria esperienza della terra e della vita che vi scorre. Le “addomestica”: le riporta cioè, nel senso etimologico del termine, alla confidenza della casa, instaura quel rapporto di calda familiarità tra costruzione, suolo e cultura che è il fondamento di ogni modificazione organica del territorio. E non è un caso che l’edilizia speciale e quella di base condividano, ad Aramo, una stessa misura dello spazio, le stesse dimensioni fondamentali che ricordano come qualsiasi grandezza del costruito ritorni, attraverso percorsi e cicli a volte misteriosi, all’origine del primo spazio abitato dall’uomo. Perfino l’impianto della chiesa di S. Frediano, sebbene di tanto seriore rispetto alla strutturazione dell’organismo insediativo, partecipa della stessa, domestica modularità condivisa delle case a schiera del borgo.
Ma è vero anche quello che scrive, su queste pagine, Maurizio Ciumei partendo da un testo di Claudio Magris: questi spazi, le forme che ne rendono visibile e bella la struttura, sono oggi “invasi”.
Noi in-vadiamo, cioè andiamo contro, quello che pure ammiriamo.
Ognuno di noi possiede una parte della rovinosa disposizione del barone von R. di Hoffmann: osservando un paesaggio costruito, tanto perfetto quanto distante, tendiamo a mettere al centro dell’osservazione i nostri desideri e le nostre attese, ne modifichiamo i contorni secondo una prospettiva privilegiata. Magari non abbattiamo gli ostacoli che si frappongono tra l’osservatore e la cosa osservata come il barone hoffmanniano, ma applichiamo quei principi romantici del pittoresco, fondamento del turismo e, insieme, di tanta parte dell’architettura moderna, che deforma la realtà costruita riportandola a quello che vorremmo che fosse.
Tra queste molte invasioni, quella operata dal progetto di architettura svolge un ruolo del tutto esemplare. Si noti, per convincersene, come non esista progettista che non affermi di aver profuso, nel disegno di una nuova costruzione, grande attenzione per quanto già esiste. E forse, per quanto siano sconsideratamente dirompenti o, al contrario, banalmente imitative le forme impiegate nei confronti dell’esistente, quello che dice è vero. Eppure non c’è progetto che non usurpi, facendo perdere loro qualche qualità, i caratteri storici e paesistici dei luoghi nei quali si pone. Se si rileggono le osservazioni dell’Adolf Loos di Parole nel vuoto sulle costruzioni che gli architetti inseriscono nel contesto, si vedrà che quest’osservazione è tutt’altro che polemica, che giace da tempo, accuratamente nascosta, negli strati profondi della coscienza moderna.
In realtà la radice del problema, credo, è il modo attuale, ancora tardo romantico (e che pure la critica considera come valore in sé) di vedere il mondo secondo una propria gelosa individualità. Una ragione che può essere riconosciuta nell’essenza stessa del progetto contemporaneo, se si considera che non solo nei tessuti premoderni l’edilizia di base non veniva progettata, ma fino a tempi recenti si continuava a costruire per lo più in base alla nozione vigente di casa consolidata dalla prassi edilizia e dall’esperienza abitativa. In qualche modo il progetto di case ed aggregati edilizi non era antecedente al costruito, ma nasceva con esso, emergeva, per così dire, dai depositi di una memoria condivisa. E’ noto, peraltro, come anche in molta edilizia specialistica del passato il progetto costituiva parte integrante della costruzione stessa costituendo la pro-iezione di disegni in scala reale, tracciati sul suolo del cantiere, ai quali gli elementi, anche se costruiti altrove, si sovrapponevano preformando una struttura che veniva poi “pro-iettata”, gettata nello spazio a costruire la forma. Un’idea della continuità di questo rapporto solidale tra edificio speciale e struttura statico-costruttiva si può avere pensando alle opere della grande ingegneria moderna, dalle realizzazioni ispirate dall’insegnamento dell’ École des ponts et chaussées fino alle sperimentazioni italiane del secondo dopoguerra sull’impiego del calcestruzzo armato in strutture a carattere organico.
A quest’adesione condivisa del soggetto operante con l’oggetto del proprio lavoro, con la fisicità oggettiva della costruzione, si è sostituito un rapporto sempre più individuale, astratto e distante. Il progetto contemporaneo ha finito così per possedere una propria totale autonomia rispetto alla realtà fisica, fino ad appartenere, oggi, ad un circuito immateriale dove ogni progetto rimanda non al costruito reale, ma ad altri progetti altrettanto astratti e senza luogo. Non si tratta più, si badi, dell’”esportabilità” del disegno architettonico di cui parlava Gianfranco Caniggia, degli scambi tra aree che hanno portato a fertili innovazioni, dal gotico fiorentino al moderno classicismo nordico: è la stessa nozione di area culturale ad entrare in crisi.
Riprendendo un paragone esposto nelle pagine precedenti con molta chiarezza da Giancarlo Cataldi, non siamo più di fronte a quegli scambi tra culture che hanno portato alla formazione delle lingue nazionali, dove anche il dialetto aveva una funzione di contributo innovatore. Ci avviamo, ormai, verso l’impiego di una lingua metastorica e senza luogo, un inglese semplificato, asettico e cavo, predisposto ad accogliere ogni neologismo, non importa se proveniente da Silicon Valley o dalla borsa di Shanghai. E, intanto, i generi, in architettura, sono scomparsi e perfino per l’edilizia di base è considerata disdicevole la descrizione della prosa, essendogli di gran lunga preferita una onnipresente “poesia”, mediatica e spesso goffamente spettacolare. L’aspirazione pasoliniana alle “piccole patrie”, dove anche isole come la lenga furlana avrebbero trovato spazio e dignità, si è del resto trasformata, in tutta Europa, in egoismi etnici che reclamano confini, provocano divisioni e conflitti.
E’ con gli occhi rivolti a questo mondo in cui alla totale omologazione sembrano contrapporsi solo miti regressivi, dunque, che l’architetto contemporaneo invade gli ultimi santuari della cultura ereditata. Ed è in queste condizioni si tende a riportare un patrimonio prezioso, attraverso il turismo o per mezzo dell’architettura, con la disinvolta giustificazione dell’abbandono in cui versa, nel grande circo del consumo universale.
In questo quadro di totale perdita della nozione di processo, l’interpretazione neo-pittoresca del costruito storico suggerisce di solito l’idea di una casualità latente, di strutture irripetibili che hanno assunto la forma attuale “degna di essere dipinta”, appunto, ma che avrebbero potuto assumerne infinite altre. La qual cosa contiene certamente una parte di verità del tutto inutile, tuttavia, al progetto. Nascondendo, invece, quella parte di verità che sarebbe indispensabile per capire e progettare il nuovo, la regola individuata nella formazione e trasformazione della realtà costruita che consente di apprezzare, anche, la ricchezza della vita di tessuti ed edifici attraverso le sue infinite deroghe. Sintetizzare gli aspetti essenziali di un intorno civile non significa, infatti, comprenderne solo le fasi eccezionali che colpiscono l’immaginazione e riempiono le storie (le rotture, i rivolgimenti, le conquiste) ma, soprattutto, il ben più duraturo e lento svolgersi della vita quotidiana, ricercare quei principi generali che esprimono, attraverso la varietà degli esiti, l’eterno contrasto che contrappone al fluire della vita, con i suoi aspetti a volte accidentali e misteriosi, alla volontà di spiegarne ragioni e senso.
Nell’ansia del risultato unico ed irripetibile, ottenuto attraverso l’artificiale casualità di meccanismi d’invenzione gelosamente coltivati, i progetti contemporanei finiscono quasi sempre, al contrario, per essere tutti somiglianti tra loro senza che alcun principio comune ne spieghi la similitudine, se non una stessa ricerca di diversità, come una rivoluzione che abbia dimenticato, nella preoccupazione del cambiamento, la spiegazione dei propri fini.
Credo che un ruolo importante svolga, nella formazione di queste condizioni di progetto, la smisurata disponibilità di risorse e l’ estesa dilapidazione di ricchezza che caratterizza le società affluenti del mondo occidentale. L’affrancamento dai vincoli imposti dal bisogno, che obbligavano a rapporti di elementare necessità tra le cose, ha finito col produrre il decadimento dei nessi che contribuiscono a spiegare come si sviluppino ed applichino le leggi di proporzione e congruenza tra gli elementi che compongono un edificio, un aggregato edilizio, una città. Per questa via il principio di giusta proporzione dei mezzi impiegati rispetto ai fini da raggiungere sta perdendo il ruolo fondante che pure ha avuto per secoli nella pratica progettuale. Si sta smarrendo, anche, l’etica del buon uso delle risorse che coincide, insieme, con l’arte del saper ben progettare e ben costruire. E, forse, proprio le inedite concentrazioni di ricchezze nelle aree egemoni del mondo, permettendo la progressiva liberazione dalle necessità economiche, mito di ogni ideologia, diverranno il grande problema del futuro, togliendo senso alla logica della costruzione e all’equilibrio del territorio. Le nozioni di tipo, organismo, processo, divengono così, da necessità, scelta consapevole quanto difficile.
Per questo credo che dovremmo indicare di continuo ai nostri studenti di progettazione lo studio, troppo spesso lasciato alle sole discipline storiche e di restauro, di organismi formatisi attraverso processi ininterrotti di correzioni ed aggiornamenti i quali testimoniano come l’uso sapiente e proporzionato delle risorse produca anche bellezza.
Certo, nel quadro generale che abbiamo indicato, un seminario che, come quello di Aramo, proponga il tema del progetto e della contemporanea lettura di un contesto storicizzato può risultare eccentrico, inattuale. Nell’età dei media e della globalizzazione non è agevole parlare di caratteri condivisi e di organicità alle diverse scale. Eppure ritengo che oggi ci sia bisogno di inattualità, che proprio da questo guardare con occhi nuovi al passato cercando di comprendere le ragioni formative delle cose oltre la loro superficie, possa provenire uno dei pochi mezzi di innovazione e critica alle condizioni del progetto contemporaneo; che proprio la distanza dalle condizioni generali del dibattito architettonico (stancamente) in corso possa risultare, alla fine, feconda, visto che i nostri contemporanei sono troppo simili a noi perché possano insegnarci qualcosa.
Come ho potuto riscontrare anche in altre occasioni, con i seminari tenuti nel vivo dei tessuti storici a Trani, La Valletta, Urfa, Bahia, Castel Madama, progettare partendo non da cartografie, descrizioni, sopralluoghi, ma leggendo dal vivo la cosa progettata, è un modo di riproporre il contatto diretto con la verità fisica della costruzione e del suo processo formativo: è una maniera di riportare i problemi “alle cose stesse” da cui derivano, superando l’astrazione della rappresentazione mediata e delle incerte deduzioni che ne derivano. E in questo senso, va detto, i risultati grafici conseguiti dai seminari condotti sul campo, che non sempre hanno i tempi necessari a lasciar “decantare” il progetto, non danno sempre conto dell’insegnamento profondo che da queste esperienze proviene.
Una lezione ricavata dalla lettura di un tessuto storico come quello di Aramo può avere inizio, mi pare, dai modi stessi nei quali l’architettura viene consumata. Il termine “consumo” non ha nulla a che vedere oggi, infatti, con trasformazione civile, funzionale e fisico di una forma, che termina un suo ciclo per iniziarne un altro, ma ha trasformato il proprio significato in richiesta imposta dalla rapidità dei cicli produttivi, della pubblicità, delle mode.
Proprio la lettura ed il progetto in contesti che mantengono un forte legame col proprio processo formativo sono di fondamentale importanza, ritengo, per riscoprire l’insegnamento dei tempi “naturali” di trasformazione e consumo delle forme degli organismi edilizi ed urbani. Tempi che sono pertinenti alle diverse fasi civili e che è un errore tentare di eludere nascondendosi dietro assunti apparentemente scontati ma, in realtà, indimostrabili.
L’idea che la velocità imposta dal progresso, ad esempio, debba comportare l’abbandono del carattere plastico e murario (che non è semplicemente costruzione in muratura) del nostro ambiente costruito, inseguendo modelli “leggeri” sviluppati, peraltro con qualche coerenza, in aree culturali estranee e lontane. O quella che compito della nuova architettura sia quello di produrre bisogni per assicurare il proprio sollecito rinnovamento, in modo non diverso da quanto avviene per le merci.
L’interesse dell’edilizia di Aramo e la vitalità del suo insegnamento derivano, dunque, da una nozione processuale di consumo (dell’edilizia speciale, della casa a schiera con le specializzazioni e gerarchizzazioni successive) alla quale corrisponde una continua capacità di aggiornamento e recupero nel tempo. Aggiornamento e recupero che oggi non possono che essere inevitabilmente critici: mi pare, anzi, che una delle ricadute positive del seminario sia costituita proprio dalla dimostrazione di come la lettura, anche quando condivisa, non liberi il progettista dalle proprie responsabilità, che ogni soluzione non possa che costituire, nelle condizioni di crisi nelle quali siamo tenuti a progettare, prodotto di coscienza critica.
Il progetto elaborato dal gruppo guidato da Giacomo Gallarati e Marco Zuppiroli mostrato in queste pagine, ad esempio, espone la diversità degli esiti, peraltro tutt’altro che inconciliabili, all’interno di una lettura comune. Le regole d’accrescimento dell’insediamento di Aramo ( le “leggi del divenire dell’edilizia”), sono riconosciute negli organismi insediativi sintopici dell’area pesciatina, condivise da tanti insediamenti di crinale dell’Italia centrale dove l’organismo insediativo si forma attraverso accrescimenti concentrici intorno al percorso matrice di crinale e, raggiunta la propria completezza, la forma finita d’individuo urbano, si raddoppia per gemmazione. Ma quando questa conclusione è stata raggiunta? Quale forma assume la polarità che individua la linea di ribaltamento da cui si genera il nuovo organismo? E quale edilizia speciale la denoterà? La lettura, anche se condotta per via comparativa su casi di studio affini, non da risposte (o meglio, presenta un ventaglio di soluzioni possibili, ognuna soggetta, a sua volta, a molte interpretazioni) ponendo l’eterno quesito del rapporto non solo tra lettura e progetto, ma tra teoria e prassi. Dimostrando, anche, la ricchezza e le potenzialità del metodo tipologico-processuale, al di là dell’apparente determinismo che ha generato infiniti equivoci. A parte la provvisorietà dimostrativa delle soluzioni (che è interna allo spirito di un seminario e alle intenzioni stesse degli autori), i disegni sembrano proporre un fertile dubbio più che una soluzione, presentando due criteri d’intervento possibili. E va notato, a proposito della (relativa) convergenza della lettura e della molteplicità del progetto, come altri gruppi, come quello della Facoltà d’Ingegneria di Bologna guidato da Giorgio Praderio e Luigi Bartolomei, abbiano seguito ipotesi simili con esiti molto diversi dai precedenti.
Certo, nella tradizione della “riprogettazione” come metodo d’indagine sulla realtà costruita, si sarebbero potute sondare molte altre soluzioni e sono certo che non mancheranno occasioni per continuare lo studio progettuale sull’insediamento di Aramo che Alessandro Merlo ha organizzato con tanta capacità e passione.
Ma a me pare che già la preziosa esperienza di questo seminario possa aver contribuito ad insegnare allo studente libero da pregiudizi a riconoscere quei caratteri di organicità della realtà costruita che, necessariamente aggiornati, sono ancora capaci di fornire indicazioni ai frammenti dispersi del nostro territorio. E magari possa anche aver concorso a fargli intuire, nel pessimismo dilagante, lo spiraglio del cambiamento, a fargli balenare l’ipotesi, autenticamente nuova, di poter leggere nell’indistinto apparente che caratterizza i disastri di tante trasformazioni contemporanee del nostro territorio, i segni nascosti di un ordine ancora possibile.

ATTUALITA’ DI PIACENTINI

chiesa-del-sacro-cuore-di-cristo-re-1924-34cupola-400x300 chiesa-del-sacro-cuore-di-cristo-re-1924-341-338x400

in «Corriere della Sera» del 21 dicembre 2010

di Giuseppe Strappa

Pochi architetti come Marcello Piacentini, protagonista assoluto dell’architettura romana tra le due guerre, hanno ricevuto condanne tanto definitive.
Piacentini, scriveva Giuseppe Pagano (e dopo di lui l’intera critica del dopoguerra), ha paura del nuovo. In realtà Piacentini aveva fatto di più, aveva teorizzato questa paura. Le trasformazioni in corso nell’architettura internazionale, sosteneva, apriranno pure al futuro, ma stiano lontane dalle nostre città, troppo preziose perchè corrano il rischio di esperimenti. Le sue architetture finiscono così per sembrare, oggi, estranee alla vita, evocare un’aristocratica distanza tra il mondo astratto dell’architetto e la complessità della metropoli in tumulto.
Eppure alcune sue opere sono parti di Roma autenticamente moderne e, a loro modo, singolari.
Un’ originalità difficile da scoprire che consiste, paradossalmente, nella cosciente riduzione dell’invenzione. Quando anche l’architetto più modesto si sentiva chiamato alla creazione individuale, Piacentini proponeva una lingua comune, semplificata, originaria. Sapeva, infatti, che la modernità è anche una rinuncia, l’arte di dire poche parole, ma essenziali; l’unità delle cose che mette in secondo piano il molteplice dei particolari e la sua poesia.
Nei suoi piani per l’Eur e per la Città universitaria ha così convinto i molti architetti che disegnavano i singoli edifici, anche grazie alla sua autorità indiscussa, a far rifluire il proprio linguaggio personale in poche forme condivise.
Ancora oggi molta critica non gli perdona il suo legame col potere politico. Dimenticando che il rapporto tra architettura e potere (dei papi, dei re, dei grandi finanzieri) è parte integrante delle maggiori stagioni artistiche, dal Rinascimento, al Barocco, al Moderno. E che i tanti professionisti che hanno gestito la nostra urbanistica e la nostra edilizia recente hanno avuto, anche loro, solidissimi legami coi poteri forti dell’economia e della politica, con i poveri risultati, tuttavia, che sono sotto gli occhi di tutti.
Forse varrebbe la pena, ogni tanto, di guardare le cose senza il peso della Storia, con occhi nuovi, come per la prima volta. Ci accorgeremmo, allora, di come la forza urbana della Città universitaria, forse proprio per il rigore del suo disegno, sia ancora capace di accogliere il caos di studenti ed automobili, di resistere all’incuria, di sopportare ogni sorta di abusi edilizi rimanendo un vero pezzo di città. E di come, al paragone, la nuovissima università di Tor Vergata non sia che un collage di frammenti discontinui, seminati a ridosso di informi arterie di traffico.
Certo, Piacentini ha commesso anche molti errori monumentalizzando, tra l’altro, intere parti di tessuto storico.
Anche per questo attribuire ai suoi volumi grandiosi un’impossibile attualità sarebbe un errore. Ma non lo è il riconoscere quello che oggi quei volumi indicano: la possibilità di offrire una forma alla città in trasformazione, il desiderio, dimenticato, di dare senso e unità alle sue schegge disperse.

EISENMAN E LA STORIA

eisenman-chiesa-1-p21-400x275

Concorso per la chiesa del 2000 a Roma, Tor tre teste – Peter Eisenman

in «Corriere della Sera» del 11.05.2005

Nella ormai nutrita serie di interviste con cui il “Corriere” interroga illustri architetti stranieri sul futuro di Roma, il parere di Eisenman merita una considerazione particolare.
L’architetto di Newark è, infatti, non solo portatore di un’idea estrema della contemporaneità, ma il suo metodo di lavoro, nell’epoca di internet e della globalizzazione, si è rapidamente propagato ovunque dando origine ad una vera maniera, al progetto “alla Eisenman”. Paradossalmente la sua figura intellettuale è, insieme, espressione di un’avanguardia ed esemplare di una diffusa accezione dell’architettura contemporanea.
Ad Eisenman, inoltre, convinto sostenitore della necessità di costruire opere contemporanee nel centro storico, sembrano riconosciute le necessarie qualità di attenzione alla storia e rigore progettuale.
Ma le parole, in architettura, spesso generano equivoci ed è bene intendersi sui termini. Perché la storia che Eisenman propone a studenti ed epigoni è quella fantastica del Campo Marzio di Piranesi, del distacco tra forma e realtà, delle prospettive multiple, del virtuale ante litteram: erede computerizzato del Piranesi che trasforma l’antica chiesa dei Templari, S.Maria del Priorato, in misterioso, ermetico groviglio di simboli perduto sull’Aventino.
Non a caso nelle opere recenti di Eisenman è stata riconosciuta una componente esoterica ed iniziatica, l’influenza della Kabbalah e della mistica ebraica, allusioni al simbolismo dello Tzimtzum, lo spazio originario, e anche dell’ En-Sof, delle Sheviàth Hakelim,
Quanto al rigore, quello di Eisenman è tutto interno ad una ricerca sulla pura forma dove un’intuizione arbitraria fissa le regole, ma da quel momento ogni gesto deve seguire processi ferrei, come in un rito.
Scomponendo per anni lo spazio delle sue case in astratte geometrie di piani e rette, costringe lo smarrito abitante “ad entrarvi come un intruso”. Le sue sofisticate cardboard architectures sono, come sculture, opere per collezionisti.
Eisenman ha poi sviluppato, nel tempo, teorie della genesi della forma sempre più complesse, in contatto e sovrapposizione con altre discipline, con le teorie di Nietsche, Derrida, Chomsky, fino al punto che le sue opere, inclusa la sfortunata proposta per una chiesa a Roma, (una griglia geometrica che vibra e si distorce, un conflitto di forze vettoriali) sono divenute rappresentazioni astratte della realtà e hanno bisogno di complicate decrittazioni.
Senz’altro un lavoro di Eisenman meriterebbe, dunque, di arricchire la collezione di opere d’architettura contemporanea che Roma va accumulando. Magari all’EUR.
Ma dubito che la sua straordinaria ricerca possa legittimare un intervento sul nostro patrimonio storico, dove l’edilizia non è rappresentazione teorica ma realtà concreta e muraria, i cui processi formativi hanno poco a che fare con l’universo poetico di Eisenman, con la sua raffinata lettura della storia e la sua rigorosa, astratta razionalità.

LA CHIESA DI S. TOMMASO A ROMA

petreschi

Facoltà di Architettura – sede di Valle Giulia
Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura e della Città Sac
Laboratorio di Progettazione 3A A. A. 2010/2011
http://laboratoriopasquali.wordpress.com
Lezione del prof. Marco Petreschi
LA CHIESA DI S. TOMMASO A ROMA
Introduce il prof. Giuseppe Pasquali
Mercoledì 24 novembre 2010
ore 15,30 via A. Gramsci 53
Aula 18