Category Archives: saggi e articoli

LA COLATA

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Testo consigliato agli studenti (per capire cosa li aspetta).

INTRODUZIONE
Questo libro è un viaggio attraverso l’Italia, ma anche dentro di
noi che ci viviamo. Dal Nord al Sud, dalla rabbia alla speranza. É
vero, il titolo La colata può far pensare a un’inchiesta che non lascia
spiragli di luce. Forse davvero questo era il nostro stato d’animo al
momento della partenza. Ma dopo migliaia di chilometri, dopo aver
toccato centinaia di paesi in tutte le regioni, ci siamo resi conto della
straordinaria ricchezza ambientale, ma anche umana – ancora viva
nel nostro paese.
Un viaggio cominciato nel 2008 in Liguria con Il partito del cemento
e continuato in seguito nel resto d’Italia. Nel nostro zaino c’era. La lun-
ga strada di sabbia, il diario che Pasolini scrisse nel 1959 seguendo sulla
sua Millecento le coste italiane. E poi Viaggio in Italia, il volume di
Piovene che ne scattò un’immagine negli anni straordinari del secondo
dopoguerra. Ma anche oggi l’Italia attraversa un momento decisivo,
incerta com’è su che cosa voglia essere e dove voglia andare. E il paesag-
gio, l’ambiente sono lo specchio in cui si riflette questa confusione.
L’Italia, come mai forse prima d’ora, è a un punto di non ritorno.
È ancora uno dei luoghi più belli del mondo. Ma il legame con
questa terra non deve farci tacere la realtà, anzi, ci impone di denun-
ciarla: la colata di cemento che sta per riversarsi sul paese rischia di
rovinarlo per sempre. Se tacessimo di fronte allo scempio ne sarem-
mo complici, come popolo e come singoli individui.
É il momento di dire «no››, adesso o mai più, perché presto, nel
giro di una manciata di anni, sarà davvero troppo tardi. Il danno
sarà definitivo, irreversibile. E non riguarderà soltanto il patrimonio
naturale. Perché, lo abbiamo toccato con mano nel nostro viaggio, il
degrado ambientale si accompagna sempre a quello umano. Difficile
dire quale sia la causa e quale la conseguenza.
Il cemento non devasta soltanto le città, non si mangia soltanto
coste incontaminate e boschi secolari. É il catalizzatore di tante passio-
ni e desideri, proprio come scriveva Italo Calvino ne La speculazione
edilizia. Non siamo più di fronte alla fame di case che diede impulso
alla devastazione del dopoguerra. Oggi il cemento ingrossa le tasche
di pochi e impoverisce tutti noi. Ci illude con il miraggio dell’occu-
pazione, tacendo però che si tratta di posti di lavoro poco qualificati
e di breve durata. Ci inganna con la promessa dello sviluppo turisti-
co, fingendo di ignorare che un’ Iltalia guastata dal cemento non potr�
reggere il confronto con altri paesi ben più attenti a conservare il loro
patrimonio. Non sono i posti letto nelle schiere dei condomini ad
attirare i turisti, ma le ricchezze culturali e ambientali.
Ma il cemento è anche il perno intorno a cui ruota l’alleanza mal-
sana tra imprenditori spregiudicati e politici pronti a tradire la loro
fondamentale missione di rappresentanti dei cittadini. È il luogo di
scambio dove il bene comune viene barattato con interessi privati
e di parte. Troppi, davvero troppi governanti e amministratori di
centrosinistra e centrodestra si dimostrano disponibili a svendere la
nostra Italia, ignorando le conseguenze – parliamo di vite umane –
che il degrado del territorio porta con sé. Ma un ponte sullo Stretto,
una nuova autostrada costano più di quei quattro miliardi di euro
che basterebbero per mettere in sicurezza tutto il territorio italiano.

IL TESSUTO COME TESTO

PRESENTAZIONE DI GIUSEPPE STRAPPA DEL LIBRO: PAOLO CARLOTTI, STUDI TIPOLOGICI SUL PALAZZETTO PUGLIESE, BARI 2011

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Un diffuso pregiudizio vuole che le condizioni del progetto contemporaneo, con le sue incertezze e complessità, rendano inattuali studi come quello di Caratteri morfologici e tipologici dell’architettura che contengono, nel proprio statuto, l’assunto fondamentale che la realtà costruita si modifichi secondo processi indagabili scientificamente con gli strumenti stessi del progettista.
Gli infiniti esiti concreti di queste trasformazioni, non potendo essere irrigidite in formule interpretative semplici (corrispondendo al flusso della vita che scorre nei tessuti dell’organismo urbano e ne modifica i caratteri) sembrano giustificare la rinuncia ad una lettura disciplinare finalizzabile al progetto.
Ma se è vero che l’accelerarsi delle modificazioni rende difficile cogliere la durata dei fenomeni, distinguere l’effimero dalle modificazioni più durature e profonde, è anche vero che l’architettura, nella sua essenza di materia provvisoriamente trasformata e segnata dall’uomo, è sempre stata il luogo di un equilibrio instabile dove gli edifici, i percorsi, i tessuti costituivano, e costituiscono ancora, uno stato di passaggio tra costruzione, trasformazione e rovina.
Non è mai esistita, in altre parole, una città medievale, rinascimentale, barocca, così come ci viene trasmessa dai testi di storia. Queste città, i cui disparati elementi e strutture vengono oggi restituiti in armoniosa forma sincronica, erano in realtà materiali in movimento, cantieri sempre aperti di chiese, palazzi, case, tessuti nei quali era difficile per l’abitante, proprio come accade oggi, cogliere i reciproci rapporti di necessità, i segni di una segreta organicità in formazione.
Eppure ostinate mitologie continuano a leggere il nostro paesaggio costruito come luogo di inedite discontinuità, di nuove, insondabili frammentazioni, di nomadismi incontrollabili: un magma senza struttura che può essere colto, ormai, solo con gli strumenti delle arti visive, della sociologia, delle scienze della comunicazione. Certo, la città contemporanea è anche questo. Ma è lo strato superficiale che va tolto per vedere quale siano i reali processi in atto. E noi crediamo che la fuga in altre discipline, ciclicamente ricorrente nella storia delle nostre facoltà in quest’ultimo mezzo secolo, sia, in questo senso, un’evasione dalle nostre responsabilità e, in fondo, un atto di sfiducia nell’architettura.

I corsi universitari, almeno quelli che riguardano le discipline di progetto, hanno il dovere di fare i conti con le condizioni al contorno in cui vengono svolti, se davvero non vogliono essere semplici dispensatori di informazioni. E nel contesto attuale mi sembra, per quanto detto, che il principale compito dei corsi di Caratteri debba essere proprio quello di aiutare lo studente a riconoscere che la realtà costruita non è un territorio vago e indecifrabile nel quale l’architetto interviene dando una sua, personale interpretazione delle cose.  Questi corsi dovrebbero indicare gli strumenti razionali e aggiornati di lettura dei processi in corso e, per quanto possibile, proporre le condizioni di eventuali, nuovi equilibri pertinenti al momento storico e alle condizioni di crisi che stiamo vivendo.
Il palazzo ottenuto da rifusioni di unità dell’edilizia di base, oggetto di questo testo e degli utilissimi sforzi attraverso i quali Paolo Carlotti ha guidato i suoi studenti, è uno degli argomenti didatticamente più fertili per avviare i futuri  architetti alla comprensione dei processi che, nella realtà costruita, portano alla formazione dell’edilizia specialistica.
Insegna come la storia ci tramandi edifici splendidi nella cui costruzione l’architetto ha operato scelte personali raccogliendo il lascito della storia. Dove il suo contributo critico, tuttavia, non partiva tanto dai presupposti individualistici dell’espressione, ma partecipava, soprattutto, attraverso un’acuta comprensione della realtà, di scelte tanto condivise da divenire tipiche. La storia del palazzo di rifusione trasmette in forma operante, cioè, l’idea che l’architettura sia arte, ma un’arte particolare e difficile: l’arte della memoria, l’arte del costruire, l’arte di immaginare una città futura nella quale l’uomo si riconosca e della quale si senta partecipe.
In questo le architetture pugliesi indagate nelle pagine che seguono (sorte ad  Altamura, Barletta, Bitonto, Modugno, Trani) hanno non solo un fascino straordinario, ma un’utilità indiscutibile per quel carattere fortemente plastico e lapideo che lascia leggere, come un testo di didattica chiarezza, il racconto delle proprie trasformazioni. E come in un testo classico, è bene che gli studenti vi imparino i fondamenti della lingua. Non perché si debba, oggi, parlare latino o greco, ma perché senza la buona conoscenza delle radici, ogni lingua, anche in architettura, verrà usata male e poco amata.

Urban Landscape in the US

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Urban Landscape in the US

Conferenza di
Jean-Francois Lejeune
Director of Graduate Studies, University of Miami, School of Architecture

Presentano
Piero Ostilio Rossi
Direttore Dipartimento DIAP
Giuseppe Strappa
Presidente Corso di laurea SAC

Coordina
Alessandro Camiz

Giovedì 14 aprile 2011, ore 15,30
Facoltà di Architettura
sede di Valle Giulia
via A. Gramsci 53 , Roma
Aula Fiorentino

Organizzazione
Laura Pennacchia

 

Il quartiere di Genova Quinto

Il quartiere di Quinto a Genova, progettato da Gianfranco Caniggia nel 1981/82, è un esempio di vitalità della nozione di tessuto anche nel pieno della crisi che, almeno dalla fine degli anni ’60, aveva investito il progetto di edilizia pubblica e sociale in Italia. Agli inizi degli anni ’80 si assiste, peraltro, ad una revisione dell’atteggiamento astraente di molta edilizia pubblica. E’ il periodo in cui si costruiscono, a Roma, quartieri come il Quartaccio (P. Barucci ed altri) Cecchignola sud ed Acilia (D.Colasante ed altri), il margine urbano di Settecamini (P.Gori), i quali testimoniano un accentuato realismo nei confronti della periferia urbana, nel tentativo di costruire, in qualche modo, organismi aggregativi di scala ridotta e con maggiori legami alle preesistenze di quanto si fosse edificato fino ad allora.
Il quartiere disegnato da Caniggia è costituito dall’aggregazione di case a schiera, in parte ad alloggi sovrapposti, e case in linea lungo percorsi che seguono l’orografia del promontorio orientato verso la costa, senza accentuate gerarchizzazioni nei volumi e nelle nodalità.
I tipi edilizi presentano continue varianti di posizione dovute ai diversi dislivelli incontrati nei percorsi, ed alla diversa dimensione delle unità edilizie.
Le case in linea, fino a sei piani, con due appartamenti per corposcala, sono concentrate nella parte più vicina alla piccola piazza del quartiere.
Le case a schiera, di spessore variabile tra  4,30 m e  5,70 m, con profondità condizionata, di volta in volta, dal fianco della collina che consente ridottissime e irregolari aree di pertinenza, di altezze variabili tra i tre e i quattro piani, hanno la scala parallela al percorso, in continuità, a volte, con la tradizione della casa ad atrio”, a volte con la casa con profferlo (in funzione della diversa collocazione nel tessuto) con il piano terreno occupato dall’autorimessa.
L’intervento ha un’intenzione dichiaratamente dimostrativa e didattica: contro l’esasperata intenzionalità architettonica che finisce per assimilare gli interventi abitativi a grande scala all’edilizia specialistica, continuando un equivoco che risale alla prima metà dell’Ottocento, l’architetto propone la nozione di tipo e tessuto come portato, seppure mediato dal progetto, della città “dei fruitori” contro la città oppositiva “degli intermediari”.
L’intervento vuole non solo individuare, ma esprimere sinteticamente i caratteri dell’edilizia di base come portato della vita del tessuto, soggetto di continue mutazioni che l’architetto “spiega” attraverso la delega agli abitanti di decidere alcuni elementi significativi dell’intervento, dai diversi colori che individuano le singole unità abitative, ai dettagli delle finiture prefabbricate che riguardano l’involucro degli edifici, quasi ipotizzando gli esiti di una nuova “coscienza spontanea” consentita dalla produzione industriale e dal mercato, in modo non diverso da quanto avviene per gli “optional” consentiti dall’industria automobilistica.

G.S.

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