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RISCOPRIRE DEL DEBBIO

 

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Foresteria sud al Foro Mussolini, 1927-33

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Ampliamento della Facoltà di Architettura, 1963

  • RISCOPRIRE DEL DEBBIO

di Giuseppe Strappa

in “Industria delle Costruzioni” n° 394, 2007

Finalmente una grande mostra alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, promossa in collaborazione con la DARC, ha reso giustizia all’opera di Enrico Del Debbio, figura centrale quanto problematica della fase di passaggio al moderno nella cultura architettonica romana.
La mostra propone, con i materiali straordinari dell’archivio Del Debbio, di guardare da vicino, attraverso i dati reali, un periodo della storia dell’architettura in cui l’ordine accademico sembra disgregarsi sotto l’aggressione di nuove istanze e nel quale la storiografia ha cominciato a riconoscere i rivoli dei molteplici esiti che questa rottura ha prodotto, tra accettazioni, resistenze, adeguamenti.
Se letta attraverso le opere tangibili dei protagonisti, la cultura romana di quel periodo si mostra aperta al cambiamento e, insieme, legata ai suoi processi formativi, alla consuetudine col paesaggio costruito ereditato.
In realtà proprio la secolare stratificazione di caratteri plastici e murari depositati nel corso della formazione dell’architettura romana, permettono ancora di riconoscerne gli aspetti specifici nella complessa fase di transizione del ‘900, quando alla permanenza dell’eredità organica si contrappongono le laceranti istanze di un mondo in rapida trasformazione ed il contatto col moderno nordeuropeo.
Condizioni delle quali i protagonisti sono perfettamente coscienti, come testimoniano le riflessioni di Giovannoni sulle nuove incertezze del progetto di architettura: sull’interruzione dell’evoluzione “logica” nella leggibilità degli organismi architettonici, in una fase di perdita di unità della costruzione, quando sembra affievolita quella capacità di sintesi che permetteva all’architettura del passato di essere universalmente compresa, sostituita da tentativi personali, “talvolta immeschiniti in mode mutevoli ed arbitrari individualismi”. Personalismi, dato di fatto rilevante, meno accentuati tra gli architetti romani rispetto a quanto avveniva nell’aree culturali mitteleuropee, come dimostra l’elevato livello di persistenza di caratteri condivisi. Questa continuità ha, a volte, indubbiamente presentato il volto di uno storicismo compiaciuto e pittoresco, riscontrabile anche nelle opere che Del Debbio realizza negli anni ’20:si veda il piccolo quartiere per artisti della Cooperativa Ars o le case Berring Nicoli, Villani, Selva, Tonnini. Ma che è anche all’origine di una ricerca inquieta e complessa, con esiti meno spettacolari dei manifesti del moderno nordeuropeo e che, proprio per questo, avrebbero bisogno di un’indagine più attenta.
Del Debbio è, nel quadro del contesto romano, una delle figure che interpreta in maniera più contraddittoria, e quindi fertile, l’eredità dell’impiego di strutture continue, organiche, plastiche, portanti e contemporaneamente chiudenti, che storicamente avevano avuto esito nell’unità tra struttura statico-costruttiva, distribuzione, spazi e leggibilità. Si veda l’esempio dell’Accademia di Educazione Fisica, apparentemente riconducibile alla tradizione dell’edilizia specialistica romana, dalla quale tuttavia, per molti versi, non potrebbe essere più lontana: la canonica ripartizione verticale (basamento, elevazione, unificazione, conclusione) viene sovvertita dalla inedita gerarchizzazione dei piani mentre è del tutto assente il legame con la nozione di tessuto espressa dai percorsi e dall’aggregazione dei vani. E mentre un complesso, innovativo  meccanismo aeroilluminante della grande aula magna sostituisce il consueto claristorio, l’innovazione della struttura a telaio in calcestruzzo armato, al contrario, viene assorbita, addomesticata nel gioco delle specchiature.
Le splendide prospettive a tempera del progetto dell’Accademia, nella loro apparente serenità, esibiscono, inoltre, il conflitto tra simmetria e moderna ratio compositiva, come pure ostentano l’ opposizione tra elemento e struttura delle quinte di facciata dove il travagliato impiego dei nodi tettonici sembra alludere ad una lingua consolidata che in realtà nega.
Siamo alla fine degli anni ’20, gli anni del sanatorio di Paimio, del padiglione di Mies a Barcellona, della fabbrica Van Nelle a Rotterdam. Del Debbio, architetto informatissimo, conosce bene il panorama del moderno internazionale.  Ha piena coscienza, dunque, di come la differenza tra l’architettura romana e quella nordeuropea non sia dovuta solo a manifesti, slogan, teorie,  intuizioni, ma a condizioni culturali di ben più lungo respiro. E come le specificità del moderno dei “pionieri” abbiano radici in un processo formativo, tipico delle aree del gotico, nel quale continua, anche con l’impiego dei nuovi materiali, l’uso di quelle strutture discrete, seriali, elastiche, portanti e non chiudenti che sono uno dei presupposti delle ricerche del movimento moderno. Caratteri dei quali Le Corbusier ha dato un’accezione estrema e spettacolare nei principi della pianta e della facciata libere.
Le ricerche che Del Debbio svolge del decennio successivo (si vedano i disegni per la case del balilla di Avellino, di Pagani, di Modena) possono non solo essere lette all’interno di quel processo di semplificazione dei volumi che sembra uno dei caratteri comuni del moderno europeo, ma come chiara indicazione della difficile strada di una modernità originale ed organica capace di fondere in unità muraria ed organica (contro la frammentazione del moderno internazionale) costruzione, pareti dell’involucro e spazi degli edifici.
In assenza di un quadro critico basato sulla concretezza delle opere e delle condizioni conflittuali in cui si è svolta la sua vicenda architettonica, la fortuna critica di Del Debbio ha subito fasi alterne, condizionata dal momento politico, dal gusto, perfino dalle mode. Nell’immediato dopoguerra, per ragioni peraltro evidenti, la critica ha costruito una cortina di ostili pregiudizi (con poche eccezioni) nei confronti dell’architettura tra le due guerre, identificata come uno dei simboli più evidenti del drammatico periodo storico appena concluso. E in questo panorama la vicenda di Del Debbio è stata considerata una sorta di espressione distillata della retorica di regime, secondo valutazioni che ben poco avevano a che fare con la realtà delle opere. All’estero, invece, ci si accorgeva immediatamente delle qualità di queste architetture. Nikolaus Pevsner, tra i primi, parlerà del Foro Mussolini come del prodotto di una tradizione dell’antichità ancora vitale ritenendo, già nel 1945, che “molti di questi edifici verranno un tempo giudicati con maggiore obiettività”.
Nell’intero corso degli anni ’50 si parla pochissimo dell’opera di Del Debbio: quasi solo nelle monografie sulle vicende dell’architettura moderna romana di Marcello Piacentini (1952) e di Francesco Sapori (1953). E’ l’inizio di una lunga fase di rimozione nel corso della quale pochi cenni sono dedicati dalla letteratura specializzata all’opera dell’architetto di Carrara, mentre i quotidiani, in ripetute occasioni, ne divulgano con colpevole superficialità un supposto ruolo di architetto di regime e retroguardia culturale. Rare le eccezioni come le poche righe di apprezzamento scritte da Ludovico Quaroni e da Accasto, Fraticelli e  Nicolini nel loro libro sull’architettura moderna romana del ’71.
Una piccola monografia pubblicata nel ’76 da Enrico Valeriani propone alcune rapide coordinate interpretative definendo Del Debbio non architetto di regime, ma frutto diretto “di quel tipo di cultura che dalle esperienze del romanticismo post-risorgimentale, attraverso le innocue sovversioni futuriste, le suggestioni floreali e i lieviti razionalisti, finì oper consumarsi nella Seconda Guerra mondiale”. Della continuazione di questa ostinata damnatio memoriae negli anni successivi posso riportare molte esperienze dirette, come la diffidente accoglienza, nel 1989, del primo regesto delle opere di Del Debbio in Tradizione e Innovazione nell’architettura di Roma capitale  da me curato (pericoloso perché “può capitare in mano agli studenti” si disse) e la valanga di proteste che accolse, l’anno successivo, un articolo su La Repubblica in cui mettevo in evidenza le qualità del Foro Italico compromesse dai lavori per i Mondiali di calcio.
Negli ultimi anni si è assistito ad un fenomeno di generale, progressiva “rivalutazione” dell’architettura tra le due guerre. Sull’onda della riscoperta dell’architettura “accademica” (vera o presunta) tutte, indistintamente, le opere di quel periodo sembrano così divenire, quasi per una bizzarra nemesi, improvvisamente straordinarie.
Il catalogo della mostra romana sulla figura di Del Debbio, curato da Maria Luisa Neri costituisce, purtroppo, un’espressione tarda di questa moda storiografica dove tutto è creativo, elegante, solare. Un’agiografia che non fornisce alcun reale contributo critico.
Ne è un esempio il capitolo  “Un poema pieno di spazio e di sogno: il Foro Mussolini”  dedicato ad uno dei temi nodali nell’ interpretazione dell’opera di Del Debbio e particolarmente attuale considerati gli urgenti problemi di tutela dell’ opera, come rileva in una nota contenuta nel catalogo stesso, Margherita Guccione. Nel testo della Neri ricorrono infinite osservazioni sul “rigore compositivo” dell’opera “esito della più autentica tradizione costruttiva italiana” dove “tutto è perfettamente calibrato” con una “perfetta simbiosi tra architettura e natura”. Ma, sul piano critico, non una sola aggiunta a quel poco che è stato già detto.
Una mostra straordinaria per la quantità e qualità del materiale esposto, dunque, ma anche un’occasione mancata per contribuire a fare luce su una delle figure più problematiche del passaggio al moderno dell’architettura romana.

La conservazione dei centri storici in zona sismica. Un metodo operativo di restauro urbano

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Nell’ambito del ciclo di incontri letterari

“I Giovedì di Santa Marta”

giovedì 5 maggio alle ore 17.30 presso la Sala Convegni Santa Marta,

Piazza del Collegio Romano 5,

Roma presentazione del volume
La conservazione dei centri storici in zona sismica
Un metodo operativo di restauro urbano
di Giuseppe Scalora – Giorgio Monti
presentazione di Giovanni Carbonara
Academia Universa Press, 2010

introduce e coordina Roberto Cecchi
saluti di Giovanni Carbonara

intervengono Luis Decanini, Giuseppe Strappa, Manuel Vaquero Piñeiro
saranno presenti gli autori

Questo volume intende offrire un apporto teorico-scientifico alla costruzione di un metodo operativo per il restauro della città storica.
Il valore della città non risiede, infatti, unicamente nei suoi monumenti di architettura, ma si esprime soprattutto nella vitalità dei suoi tessuti urbani, specie quelli che – come il quartiere di S. Giacomo ad Ascoli Piceno – con le loro strade, le loro piazze, i cortili e gli orti, esprimono un‟atmosfera fisica e psicologica singolare ed irripetibile.
Le politiche di recupero non possono riguardare esclusivamente i singoli edifici, o i singoli monumenti, ma devono svilupparsi affrontando nella dimensione estetica i temi della pianificazione della città e della riqualificazione ambientale, controllando/misurando le relazioni tra le nuove funzioni e quelle preesistenti.
Il fine ultimo della pianificazione è, quindi, quello di rivelare l‟identità del sito e di preservare i caratteri specifici di lunga durata della forma, garantendone la conservazione fisica attraverso modalità di restauro critico-conservativo e, dove necessario, di miglioramento sismico.
Nel trattare i centri storici, l‟interesse primario consiste, dunque, nel mantenere e nel trasmettere alle future generazioni nella loro autenticità forme, figure, materiali, aggregati, tipi, percorsi, essenzialmente un patrimonio culturale di valore.
Piuttosto che vincolare e vietare, il metodo sviluppato – ed illustrato nel volume – preferisce proporre, guidare e indirizzare, lasciando ai progettisti le responsabilità e i margini di scelta, pur ricondotti su precisi binari storico-critici. Esso insiste sulla interpretazione del sistema complessivo e sullo sviluppo di criteri metodologici capaci di garantire precise regole di comportamento per gli interventi alle diverse scale. In altre parole, si indica una “strategia macroprogettuale” che possa, tramite un sistema di “regole prescrittive e di criteri prestazionali”, declinarsi caso per caso quale specifico “microprogetto edilizio”.
Tale interpretazione mira a stabilire i livelli di „trasformabilità‟ che variano, secondo le circostanze, dalla conservazione alla trasformazione, dalla riqualificazione alla nuova costruzione e, persino, alla demolizione, e propone guide e norme figurate, di semplice assimilazione da parte dei singoli professionisti incaricati.
Il metodo collima con la teoria del restauro, fondata sulla cautela e la consapevolezza, e indica verso quale direzione tale trasformazione debba orientarsi. Una trasformazione, quindi, e non un impossibile congelamento sine die, con finalità culturalmente e scientemente conservative, legata al mantenimento della vitalità intrinseca al tessute edilizio storico, che si conserva negli antichi edifici delle nostre città storiche.
Si presenta in questo volume un‟attività urbanistica ed architettonica attenta ai valori della complessità formale ed estetica degli spazi urbani e degli oggetti che la costituiscono, nella convinzione che sia compito del progetto stimolare la domanda collettiva di „qualità‟ diffusa e farla crescere, nella prospettiva di migliorare l‟ambiente in cui viviamo, ricomponendo, nei limiti del possibile, la distanza fra bellezza e realtà.
Fine ultimo è quello d‟innestare una filosofia riflessiva della forma e della sua conservazione a partire dall‟interpretazione storico-critica del processo di produzione e trasformazione della forma urbana – nella città storica come in quella diffusa – per ritrovarne il significato e la memoria delle „cose‟.