Category Archives: saggi e articoli

RESTAURI DELLE MURA AURELIANE

di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del  24.08.2002

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Bisogna soffrire il sole d’agosto per apprezzare il fascino solenne delle mura imperiali di Roma: liberate dal traffico, esse riconquistano la loro legittima continuità, la scala piranesiana che il fiume sempre in piena delle automobili impedisce di cogliere negli altri mesi dell’anno. E una vasta letteratura è a disposizione, peraltro, del volenteroso che volesse ripercorrere il perimetro di questo monumento unico al mondo. In particolare Ian A. Richmond ha dedicato loro, nel 1930, un volume appassionato e puntiglioso, vera miniera di informazioni alla quale hanno attinto generazioni di studiosi. Ma sulle infinite trasformazioni successive, che costituiscono la parte più enigmatica delle mura, non esisteva ancora uno studio specifico. Un bel libro da poco pubblicato da Rossana Mancini (Le mura aureliane di Roma. Atlante di un palinsesto murario, ed. Quasar) copre ora questa lacuna. Mostrando, implicitamente, come le mura imperiali, costruite precipitosamente in soli quattro anni per far fronte alla critica situazione militare della fine del III secolo, costituiscano, in un certo senso, la prima opera di architettura moderna, testimonianza di una condizione di crisi nella quale l’unità della costruzione e l’impianto regolatore classici non reggono più di fronte alla molteplicità degli eventi, non riescono a impartire ordine alla quantità di edifici che le mura riutilizzano, dall’Anfiteatro Castrense alla Piramide Cestia alla Mostra dell’Acqua Claudia.
E tuttavia le mura sembrano contenere, anche, i germi di un possibile superamento della modernità: il collage di frammenti che oggi si mostra dietro la moltitudine apparentemente eterogenea di rifacimenti e stratificazioni, rivela la continuità epica della costruzione che risorge da qualunque catastrofe ricercando, ogni volta, una nuova, provvisoria organicità.
Esse racchiudono, in questo senso, l’essenza della nozione, tutta romana, di durata: l’insegnamento dell’antico che riunisce, in un unico flusso vitale, una generazione di costruttori all’altra attraverso il lascito trasmesso da saperi e tecniche murarie, perfino quando i laterizi ricavati dallo spoglio di anfiteatri e terme non erano più reperibili e, dal XII secolo, come rileva Giovanni Carbonara nell’introduzione all’Atlante, i metodi si adeguano all’impiego di materiali poveri: selce, tufo, peperino, frammenti di marmo e di travertino. Non è un caso che le mura siano state abbandonate solo nel periodo di maggiore decadenza civile di Roma, nell’età del Medioevo selvaggio e feudale che aveva diviso la città in fazioni familiari arroccate nelle proprie abitazioni fortificate.
Irrappresentabili, per complessità e dimensioni, con un’immagine “mediatica” rapidamente comunicabile, le Mura Aureliane mal si prestano, per nostra fortuna, a divenire oggetto del turismo frettoloso che ha invaso gli altri monumenti di Roma antica. Forse per questo sono state trascurate per decenni.
Eppure esse costituiscono un’eredità fondamentale, il confine capace di restituire, ancora ai nostri giorni, identità e forma finita alla città storica. Proprio per questa loro singolarità le mura dovrebbero essere visitate, soprattutto, attraverso il camminamento di ronda che permetterebbe di coglierne il senso e la continuità. I dodici interventi di restauro finanziati con i fondi del Giubileo, peraltro eseguiti a regola d’arte, avrebbero dovuto in parte consentirlo. Invece, ironia della sorte, anche l’unico tratto percorribile, tra Porta S. Sebastiano e i fornici sulla via Colombo, è stato interrotto, ormai da molti mesi, da un rovinoso crollo e forse dovremo aspettare il prossimo Giubileo per vederlo ripristinato.

PROCESSO FORMATIVO DEI MATERIALI MODERNI

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PROCESSO FORMATIVO DEI MATERIALI MODERNI

di Giuseppe Strappa

Le interpretazioni moderne della trasformazione della materia in materiale costituiscono, per molti versi, l’eredità delle aree culturali nelle quali si sono consolidati modi specifici di impiegare strutture a carattere elastico o plastico. L’innovazione non riguarda solo l’impiego di elementi e strutture derivate da nuovi materiali, ma anche la collaborazione, funzionale e costruttiva, tra materiali diversi.
All’inizio del XIX secolo la rivoluzione industriale ha messo a disposizione dell’architetto nuovi materiali dei quali egli deve riconoscere l’attitudine all’impiego in architettura. Si tratta di materiali la cui esistenza era nota da tempo e impiegati in modo limitato nelle costruzioni i quali, tuttavia, attraverso nuove lavorazioni e sistemi produttivi, assumono caratteri diversi ed inediti e, dato assai rilevante, sono disponibili in quantità tali da modificare sostanzialmente il carattere delle nuove fabbriche. L’incertezza nel loro impiego, la necessità del loro studio razionale e di nuove sperimentazioni contribuiscono ad una estesa condizione di crisi nello stesso ruolo dell’architetto. “Questa confusione – scrive in proposito Walter Benjamin –derivava in parte dalla sovrabbondanza di procedimenti e di nuovi materiali, improvvisamente a disposizione. Quanto più ci si sforzava di appropriarsene, tanto più si compivano passi falsi e si fallivano i tentativi.”
Nelle aree che corrispondono, di larga massima, ai centri di irradiazione della cultura gotica e di più radicate tradizioni lignee, l’uso del ferro (e in parte della ghisa) avviene in continuità con la tecnica delle costruzioni in legno.
L’innovazione negli elementi riguarda il diverso modulo di elasticità e maggiore inerzia, a parità di materiale usato, rispetto alle sezioni rettangolari in legno ottenuta con l’impiego di profilati soprattutto a doppio T . Le diverse parti della sezione si specializzano per assorbire le tensioni sui diversi piani; l’anima si configura per assorbire le tensioni tangenziali, le ali, compresse o tese, per assorbire le diverse tensioni normali.
Le strutture che non comportano il superamento di grandi luci, tuttavia, conservano il carattere mutuato da quelle lignee, con la sola differenza di una maggiore rigidità dei nodi. Non è un caso che molti architetti si rivolgano alle forme seriali, trasparenti, portanti e non chiudenti del passato. Karl Bötticher, ad esempio, riassumeva i suoi studi sulla continuità tra storia e innovazione indicando come i nuovi sistemi di strutture metalliche dovessero assumere “il principio formale del mondo ellenico“.
Ma, se una parte dell’architettura, ormai divisa dalle specializzazioni, entra a far parte delle arti figurative con l’Ècole des Beaux Arts, un’altra parte, con l’Ècole des Ponts et Chausses, entra a far parte del mondo della tecnica e della produzione. Gli ingegneri affrontano senza pregiudizi i grandi temi delle strutture richieste da nuovi tipi di impianti assiali o polari, come le stazioni ferroviarie o i palazzi per esposizioni, adottando inedite strutture organiche spazialmente legate ad organismi tradizionali con strutture innovative basate sull’iterazione di  elementi seriali.
La leggerezza è il principale carattere riconosciuto alle nuove strutture, insieme alla trasparenza che permette la permeabilità alla luce naturale, ma anche la visione spettacolare dall’esterno della luce artificiale proveniente dai grandi vani destinati al commercio, dalle galeries, dai passages illuminati a  gas, espressione del flusso della vita e della folla nella metropoli moderna. Il ferro si associa naturalmente al vetro secondo tecniche sempre più affinate e tipizzate che propizieranno il formarsi di alcuni tipi di copertura che costituiscono alcune delle immagini più consolidata dell’architettura del XIX secolo.
Le moderne strutture metalliche, sorte in area nordeuropea di tradizioni elastico lignee e ad elevato sviluppo tecnologico, raggiungono rapidamente una definizione stabile che mutua i propri caratteri dagli elementi in legno Le strutture in calcestruzzo armato, invece,  trovano una definizione più lenta
Il processo che ha portato all’impiego razionale del calcestruzzo (utilizzato in altre forme fin dall’antichità) può essere assimilato a quello del riconoscimento di una vera e propria materia, in questo caso artificiale, nella quale si individua la suscettibilità all’uso nelle costruzioni.
Il nuovo calcestruzzo è un conglomerato costituito da inerti (sabbia e ghiaia) uniti da un legante costituito dal cemento, che viene assimilato, in origine, ad una roccia artificiale. Il calcestruzzo può assumere qualsiasi forma grazie alla caratteristica di poter essere gettato in casseforme.
Il processo dimpiego si differenzia inizialmente arealmente in due filoni a partire dagli elementi su cui si basano:

–   elementi e strutture nati come rinforzo delle strutture murarie esistenti in area plastico muraria;
–    elementi e strutture nati come sostituzione di parti delle strutture elastiche esistenti, in area elastico lignea.

In entrambi i casi, va notato, l’origine degli elementi in calcestruzzo è dovuta a problemi di restauro e trasformazione dell’esistente , per il quale il calcestruzzo armato, con la disponibilità intrinseca ad assumere qualsiasi forma, sembrava particolarmente adatto. Si tratta, quindi, di una formazione processuale basata su tecniche consolidate: l’incertezza di fronte al riconoscimento dei caratteri di una materia artificiale completamente nuova, la sua trasformazione in materiale attraverso l’individuazione delle possibili attitudini costruttive, viene risolta attraverso il riferimento a strutture e sistemi consolidati. Lo stesso François Hennebique, massimo innovatore nelle tecniche costruttive in calcestruzzo armato, aveva iniziato la propria attività di costruttore nei restauri delle coperture delle cattedrali gotiche, sviluppando una grande dimestichezza nella sostituzione di strutture a carattere seriale che lo porteranno ad elaborare le prime travi in calcestruzzo prefabbricate a piè d’opera ed armate con barre metalliche cilindriche (1879) per sostituire i travetti di legno nel solaio di un’edifico in costruzione per il quale si era deciso di utilizzare strutture a prova d’incendio (villa Madoux a Westende).
Tra le molte direzioni possibili nello sviluppo delle strutture in c.a. si intraprese dunque, nelle aree portanti nordeuropee, quella dell’adeguamento a sistemi elastici, con rapida diffusione nel resto d’Europa.
D’altra parte molte delle innovazioni pratiche ottenute per collaborazione tra due materiali avevano riguardato il problema fondamentale delle strutture elastiche: la formazione dell’elemento trave. Si vedano le combinazioni di elementi compressi in materiale resistente a compressione come la pietra, i mattoni o la ghisa, con un materiale resistente bene a trazione come il ferro. L’impiego murario, pure insito nel carattere stesso del materiale, del calcestruzzo in forme organiche, portanti e chiudenti allo stesso tempo, doveva avvenire molto tempo dopo, con l’impiego delle pareti armate, delle volte sottili, di elementi organici che seguono l’andamento più delle tensioni all’interno del corpo solido .  (Maillart, Nervi, Candela, Musmeci) ecc. Non a caso questo riconoscimento “tardivo” dei caratteri del calcestruzzo avverrà in aree di radicate tradizioni murarie.
Il passaggio fondamentale nel processo di riconoscimento del calcestruzzo come nuovo materiale è costituito dal modo di interpretare la collaborazione con l’armatura metallica. Nella prima fase, allo stesso modo nel quale si è “specializzata” la sezione metallica a doppio T rispetto a quella lignea, il calcestruzzo  si specializza per resistere alla sola sollecitazione di compressione, mentre al ferro viene affidata la resistenza a trazione. Solo successivamente si comprende la complessità dell’andamento delle tensioni su piani comunque inclinati all’interno del calcestruzzo e si introduce la staffa ed il ferro piegato, capaci di resistere alle tensioni di taglio.  Si scopre, in altri termini, il carattere potenzialmente organico del calcestruzzo, dove ogni parte collabora con l’altra trasmettendo con continuità le sollecitazioni. E si scopre come siano fondamentali nei sistemi in calcestruzzo armato, come in ogni sistema organico, la conguenza e proporzione tra le parti nel determinare il carattere dell’intero organismo. Quello che per gli sperimentatori dell’inizio del calcestruzzo armato era stato lo “spirito del carpentiere”, diviene lentamente lo spirito organico del muratore.


PROCESSO FORMATIVO DELLA COLLABORAZIONE TRA MATERIALI DI CARATTERISTICHE MECCANICHE COMPLEMENTARI : DALLA PIETRA ARMATA (FIG. IN ALTO) ALLA COLLABORAZIONE TRA LEGNO, GHISA E FERRO.

INTERPRETAZIONE ELASTICA DEL C.A. CON FORMAZIONE DEL TELAIO SERIALE E STRUTTURE A TRANSENNA (CHIUDENTI E NON PORTANTI)

INTERPRETAZIONE PLASTICA DEL C.A. CON FORMAZIONE DI STRUTTURE ORGANICHE COMPRESSE


TRANSENNA CONTEMPORANEA IN GKD

FACCIATE CONTEMPORANEE A CARATTERE PARZIALMENTE PLASTICO MURARIO

Viaggio a Sabaudia alla ricerca delle radici

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di Giuseppe Strappa

in «La Repubblica» del 15/8/1995.

Sommerso sotto il cielo d’agosto da un turismo che ormai, dietro una stessa cortina di umani arrostiti dal sole e  boutique balneari, unifica il villaggio delle Cicladi, la cittadina della Costa Brava, il porto delle Eolie, si stenta a riconoscere il carattere straordinario di Sabaudia, città silenziosa per vocazione.
Occorre fare qualche sforzo di concentrazione per riconoscere la memoria delle origini, pure ancora evidente, di questa città singolare, amatissima da Pasolini.  Origini che la nostra corta memoria storica associa al volto migliore del ventennio fascista, quello della “redenzione delle terre”, delle città di fondazione, delle bonifiche, ma che in realtà appartengono, se viste nei tempi lunghi delle grandi trasformazioni territoriali, allo stesso ciclo storico che ha portato, agli inizi del nostro secolo, come avverte Braudel, alla bonifica delle grandi pianure del bacino del Mediterraneo, dalla piana di Salonicco, alle aree del Basso Rodano, fino alla Mitidja algerina.
Di questo epocale processo di addomesticazione idraulica delle paludi, Sabaudia, sorta nel ’34 tra due bracci del lago di Paola, sembra coagulare l’immagine più moderna: volumi ostinatamente puri, artificiali, costruiti come per esorcizzare l’antica natura ostile del luogo. Edifici che appaiono nelle foto d’epoca, visti dal mare o dalla maglia regolare dei campi coltivati a grano, come la semplificazione, estrema e trasognata, della città italiana, il trionfo della civiltà sulla natura selvaggia: evocano le architetture che si incontrano nei dipinti di Giotto, Ambrogio Lorenzetti o Taddeo Gaddi.
Gli architetti che la idearono, Cancellotti, Montuori, Piccinato, Scalpelli, non disegnarono un semplice piano urbanistico, ma progettarono per intero la città, la forma nuda degli edifici, il sereno dispiegarsi dei viali. Le abitazioni, tutte a due piani, dovevano essere più dense, ad appartamenti, lungo le strade centrali; quelle più periferiche, per famiglie singole, più rade, a schiera; le altre erano case isolate, a carattere rurale. Il degradare della densità edilizia dal centro verso la campagna esprimeva uno dei caratteri di Sabaudia, città senza mura dove manca il confine netto col territorio retrostante, al quale la lega la rigida geometria viaria dell’Agro bonificato. E l’asse viario sul quale si imposta la città, corso Vittorio Emanuele II, infatti non è altro che la continuazione di una delle direttrici che partono dall’Appia in direzione della costa, la Migliara 53, il cui nome deriva dalle “fosse milliarie” fatte scavare da Pio VI per la sfortunata bonifica iniziata alla fine del ‘700 .
E proprio la Migliara 53, traversate le quinte di verde del parco del Circeo,  incontra la torre in travertino del Palazzo Comunale, con la sua campana di due tonnellate, cuore del sistema di piazze ed edifici pubblici: la piazza  del Comune, circondata dall’albergo, dal cinema teatro, dai negozi; la piazza Circe, destinata in origine alle adunate ed oggi sistemata a parco; l’edificio dell’Associazione Combattenti (oggi Istituto Galileo Galilei).
Architetture non a caso ammirate da Le Corbusier nel suo viaggio in Italia del ’34, che riconducono al centro stesso della modernità apparentandosi, è stato fin troppo spesso notato, al clima mitteleuropeo dei Dudok, degli Oud, dei Gropius. Ma che qui assumono un senso inedito: prive dell’ingegnosità dei modelli nordici (distanti dalle loro macchinose trovate), acquistano l’aria serenamente solare, fragile e incorruttibile allo stesso tempo, delle forme necessarie: non possono esistere, in realtà, che associate al luogo dove sorgono. E così, a differenza di molte città di quegli anni, la presenza dell’antico compare a Sabaudia in forma discreta, antiretorica, celata sotto molti strati di modernità.
Ma per avere un’idea dell’originale organicità di Sabaudia bisogna rintracciare anche altri frammenti, alcuni dei quali autentici capolavori di architettura moderna: la gelida Chiesa dell’Annunziata, posta a fondale di piazza Regina Margherita, col grande mosaico di Ferrazzi incastonato nella facciata di travertino;  le famose poste progettate da Angiolo Mazzoni, in corso Vittorio Emanuele III, lodate da Marinetti per la “policromia di forza e di entusiasmo che invita al colore gli altri edifici di Sabaudia”; gli edifici per l’Azienda Agraria e l’antistante Opera Balilla (oggi Centro Forestale) costruiti da Angelo Vicario in viale Carlo Alberto; l’Ospedale (ora U.S.L.) e  la scuola disegnati da Oriolo Frezzotti in viale Conte Verde.  Per terminare col bel ponte sul lago di Paola   costruito da Riccardo Morandi nel 1962, ultima delle opere notevoli di Sabaudia prima della catastrofe edilizia.
Ma in fondo la nuova città sorta intorno a quella originaria, proprio perché cinica e volgare come ogni periferia del dopoguerra, ha in un certo senso rispettato il nucleo “storico” lasciandolo riconoscibile: a Sabaudia ogni muro, come è giusto che sia, mostra al giudizio del visitatore la sua data.

SALVIAMO LA DIGA DI CASTEL GIUBILEO

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del  7.06.2003

Se si alzavano gli occhi verso monte, sull’abbagliante specchio d’acqua dove saltavano i cavedani apparivano,  fantastiche, le torri di cemento e acciaio dello sbarramento di Castel Giubileo.
Come una misteriosa macchina futurista arenata sul greto del Tevere, la centrale elettrica sembrava, a noi ragazzi, il limite del mondo selvaggio del fiume, la geometria esatta della diga contrapposta all’anarchia del ponte crollato tra le cui rovine vorticavano i magnifici mulinelli della pesca alle rovelle.
Per le generazioni dei romani delle Topolino e delle Seicento, la centrale di Castel Giubileo ha rappresentato uno dei segni ottimisti della ricostruzione, illustrato con chiarezza dal carattere dei nuovi materiali: dalla leggerezza dell’acciaio delle cabine di comando e delle passerelle aeree, dalla trasparenza delle pareti in vetrocemento che contenevano i gruppi di turbine Kaplan, dal vigore del calcestruzzo armato dei piloni e dell’impalcato stradale. E per molto tempo è rimasta il nodo macchinista che legava, alle soglie di Roma, il flusso dell’Anulare allo scorrere antico del Tevere.
Ma per la storia dell’architettura contemporanea la diga, progettata nel ’48 e terminata nel ’53, non è solo una perfetta opera d’ingegneria civile: insieme alle altre centrali costruite da Gaetano Minnucci per la Società Idroelettrica Tevere (quella di Nazzano del ’54, quella di Ponte Felice del ’59), è il manifesto di un modo di concepire le grandi infrastrutture territoriali come opere d’arte. Opere di un’arte dell’esattezza tessuta, aveva scritto Minnucci stesso, ” su di una trama esclusivamente tecnica, basata sulla scienza delle costruzioni e sulla conoscenza delle infinite materie che la natura e l’industria offrono”. Molte opere di questo grande ingegnere, fondatore del Movimento Italiano per l’Architettura Razionale, hanno avuto un destino sfortunato, deturpate da dissennate trasformazioni, come il Dopolavoro della Città universitaria o, peggio, la GIL di Montesacro. Il complesso di Castel Giubileo sembra invece, per ora, in buone condizioni. Ma l’ipotesi di dismissione dell’impianto idroelettrico, ormai antieconomico, insieme al progetto per la terza corsia dell’Anulare ne rendono oscuro il futuro.
Mi sembra che un buon suggerimento al problema della sua conservazione venga dal consulto sul Tevere promosso dalla Facoltà d’Architettura di Valle Giulia e dall’Acer, con la proposta degli architetti Petrachi e Montuori di tutelare le strutture disegnate da Minnucci riutilizzandole come polo di un sistema d’uso del bacino fluviale che preveda l’attracco di barche e la possibilità di risalire il fiume fino all’oasi naturalistica di Farfa, mentre le sale macchine potrebbero ospitare ambienti di ristoro e spazi didattici. Un progetto che, condiviso o meno, ha comunque posto il problema: occorre prevedere per tempo nuove destinazioni a questa testimonianza preziosa del nostro passato recente, per non rischiare che, per incuria o distrazione, venga riassorbita come rovina dalla vita distruttrice del fiume.

SEGMENTI E BASTONCINI La deriva empirica dell’architettura

Presentazione a

Progettare il tessuto urbano di Alessandro Franchetti Pardo, Roma 2012

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di Giuseppe Strappa

Non è facile, ai nostri giorni, convincere i giovani della necessità della teoria, del pensiero unificante che da senso al molteplice, che riporta il particolare alla visone sintetica delle cose.
I motivi sono molti e riguardano tutte le età dell’educazione e della formazione dei nostri studenti.
Un ruolo certamente importante è svolto dall’insegnamento nelle scuole medie dove la constatazione dei fatti ha sostituito la loro dimostrazione e  l’esperienza pratica la conoscenza generale della quale ogni caso specifico costituisce un’applicazione. Gli studenti che frequentano i nostri corsi universitari sono figli di questo insegnamento che, negli studi di architettura, sembra trovare conferma da quello che vedono intorno a loro, dalla deriva, spesso estetizzante e indimostrabile, di molte ricerche contemporanee.
Lucio Russo ha espresso questo dato con un’ osservazione fulminante, che vale la pena di riportare. Egli parla della disastrosa diffusione della “matematica pratica” e riporta l’opinione di uno studente della “Sapienza” di Roma che ritiene falsa la geometria, astratta e generica,  derivando la sua deduzione dal fatto che non esistono nella realtà segmenti, che ha valore solo quello che è concreto, ha uno spessore ed è verificabile con l’esperienza: i bastoncini. “L’argomento – scrive Russo – non mi è giunto nuovo: l’avevo già letto nelle opere di Sesto Empirico; allora la razionalità scientifica stava per essere abbandonata per una quindicina di secoli.”
Abbiamo spesso riflettuto con Alessandro Franchetti Pardo, autore di questo prezioso libretto sulla didattica di architettura, su come l’osservazione trovi una puntuale corrispondenza nella predisposizione dei nostri studenti dei corsi di progettazione alle scorciatoie che evitano il confronto con la conoscenza generale dei problemi, la quale, per noi, consiste soprattutto nella lettura critica della realtà costruita, nell’interpretazione metodica e finalizzata dei fenomeni urbani che, sola, dà senso generale alla proposta progettuale particolare.
Questo problema dell’approccio diretto ed empirico al progetto è particolarmente sentito, peraltro, in un settore dell’insegnamento di architettura come il nostro, nel quale la componente pratica ha un ruolo importante e rischia di essere indirizzata all’imitazione della produzione più nota e diffusa dai media. Produzione nella quale il progetto, per larga parte, avendo smarrito il suo fondamentale carattere di costruzione, continuazione di un processo formativo in atto della città e del paesaggio, rischia di perdere il proprio senso civile per  divenire altro dall’architettura: comunicazione, arte visiva, comunque espressione individuale e soggettiva.
Franchetti Pardo è uno dei non molti insegnanti di progettazione che io conosca a porsi, controcorrente, con originalità e grande competenza, il problema di informare il proprio insegnamento non solo a principi generali legati alle incertezze della mutevole condizione contemporanea, ma anche ad un metodo rigoroso di comprensione dei luoghi e dei loro processi formativi, propiziando una ricerca, da parte degli studenti, i cui notevoli esiti sono in piccola parte dimostrati dalle pagine che seguono.
Leggere e progettare, oggi, la nobile area di via Giulia, con i suoi tessuti  ed i suoi palazzi disegnati da grandi architetti del passato e confrontarla con quella periferica e dimenticata di Casal Monastero, come fa qui Franchetti Pardo, è, a mio avviso, una scelta importante e coraggiosa. Significa affermare che i principi che determinano il formarsi e trasformarsi dello spazio abitato dall’uomo hanno una matrice comune, che quello che produciamo oggi è una continuazione e un aggiornamento di un processo lungo e continuo nel tempo che va riconosciuto superando gli stereotipi e le ideologie di superficiali rivoluzioni.
Attraverso i corsi di Franchetti Pardo lo studente ha individuato, credo, non solo la forma della città antica e le trasformazioni operate dall’intelligenza di costruttori-architetti la cui opera è tramandata dalla Storia, ma anche la permanenza di questa capacità di comprensione delle cose in progettisti contemporanei che hanno interpretato, pur nelle difficili condizioni della periferia romana, il territorio marginale come città in divenire della quale vanno individuati forma e caratteri. In modo non molto diverso, in fondo, da come della città del passato è stata letta la  struttura sviluppatasi per gerarchie di percorsi, polarità, tipi di edifici congruenti con la propria fase storica.
In questo, mi sembra, il lavoro didattico di Alessandro Franchetti Pardo si collega con coerenza, per metodo e fini, all’attività di indagine innovativa che stiamo conducendo insieme, nel quadro delle ricerche  Prin, sulla progettazione nei piccoli centri storici del Lazio orientale,  e alla precedente indagine sulla periferia ad est di Roma, in corso di pubblicazione, a testimonianza di un fertile volano che sempre dovrebbe trasmettere alle giovani generazioni i risultati delle sperimentazioni in corso.