UN’ARCHITETTURA TRA ORIGINE E INIZIO, di Franco Purini
in “AR” ANNO XLVI • MAGGIO-GIUGNO 2011
UN’ARCHITETTURA TRA ORIGINE E INIZIO, di Franco Purini
in “AR” ANNO XLVI • MAGGIO-GIUGNO 2011
Dipartimento di Architettura e Progetto -DIAP
Laboratorio di lettura e progetto dell ’architettura -LPA
Corso di Laurea in Scienze dell ’Architettura e della Città -SAC
Laboratorio di Progettazione 3 “A ”, prof..Strappa
Laboratorio di Progettazione 3 “B ”, prof.D.Fondi
Laboratorio di Progettazione 3 “C ”, prof.P.Carlotti
Ciclo di conferenze: LETTURA E PROGETTO DEL COSTRUITO
Conferenza di Matteo Ieva (Politecnico di Bari, Dipartimento DICAR)
IL PROGETTO DI ARCHITETTURA: DIDATTICA LINGUAGGIO
Introduce: Giuseppe Strappa
Lunedì 29 ottobre 2012, h.14.30, Aula Fiorentino, Facoltà di Architettura, Sede di Valle Giulia,Via A.Gramsci 53, Roma
Organizzazione: Alessandro Camiz
Segreteria: Pina Ciotoli, Virginia Stampete
di Giuseppe Strappa
presentazione del libro
Marco Maretto, SAVERIO MURATORI. IL DISEGNO DELLA CITTA’, Francoangeli, Milano 2012
Il primo dato che emerge con chiarezza dallo studio di Marco Maretto sui progetti urbani di Saverio Muratori è che, contro il luogo comune di un suo aristocratico distacco rispetto all’ambiante culturale e professionale in cui opera, l’architetto modenese appare profondamente immerso nello spirito del tempo, partecipa con passione ad esperienze dell’architettura italiana che, per molti versi, concorrono a formare un patrimonio collettivo.
I progetti eseguiti prima della guerra, come i piani per Aprilia o Cortoghiana, costituiscono la versione di matrice “nordeuropea” di una comune sperimentazione sull’architettura razionale. L’esperienza dell’INA-Casa nel dopoguerra segna una fase di incertezza e traumatiche interruzioni delle ricerche precedenti comune alla maggior parte degli architetti del contesto romano (si veda il caso esemplare di De Renzi, col quale Muratori ha condiviso molte delle esperienze di questo periodo). Esperienza che, negli anni della Ricostruzione, è tanto pienamente inserita, peraltro, nel quadro delle diffuse indagini sul quartiere inteso come unità urbana conclusa, che proprio la constatazione del loro fallimento aprirà la strada alle riflessioni sulla nozione di organismo urbano, la quale troverà un primo esito nella proposta per le Barene di San Giuliano in aperta, dialettica opposizione con le convinzioni del nuovo internazionalismo avanzante.
Anche gli studi sulla tipologia edilizia e la morfologia urbana, ai quali Muratori ha dato un’originale indirizzo “operante”, si svolgono in un clima di condivisa attenzione per temi che, nel corso di tutti gli anni ’60’ e oltre, hanno un ruolo centrale nella ricerca italiana, da Aldo Rossi a Giorgio Grassi a Carlo Aymonino.
Lo stesso tema del disegno urbano testimonia, infine, un’istanza al rinnovamento comune alla ricerca romana e milanese.
Quello che invece caratterizza Muratori e fa, della sua, un’avventura intellettuale isolata ed unica, è il modo di vedere l’oggetto stesso del progettare, la convinzione, progressivamente conquistata, profonda e praticata fino alle estreme conseguenze, che l’architettura sia soprattutto un processo di conoscenza da mettere in atto attraverso la coincidenza di lettura e progetto (punto di arrivo di assoluta novità) dove non è il secondo a derivare per deduzione logica dal primo, ma è la lettura stessa a costituire opera di “riprogettazione”. Un progetto che è, dunque, non semplice soluzione di problemi posti dalla realtà, ma soprattutto costruzione critica che dà senso universale al particolare e unifica il molteplice, in questo simile, per certi versi, all’indagine fenomenologica husserliana: cogitationes che non derivano direttamente dal reale ma sembrano completarlo.
Quello che distingue Muratori dal clima culturale che lo circonda, il quale sembra progressivamente orientarsi verso una visione centrifuga del mondo costruito dove tutto diviene relativo e discontinuo, è la sua proposta di un centro unificante, frutto di un pensiero organico nel quale ogni parte della realtà trova il suo posto all’interno di un sistema di rapporti necessari. Deve trovare il suo posto: l’organicità che Muratori individua nella storia e nel territorio, il processo che riconosce nella trasformazione della città e del costruito, costituiscono, in realtà, un solo, grande progetto.
Per questo lo studio che Maretto presenta in queste pagine sulla dimensione, non solo scalare ma teorica, del disegno urbano, getta luce su uno dei gradi necessari di un processo fondamentalmente conoscitivo, un passaggio chiave, che i disegni per le Barene segnano con chiarezza, nel processo di progressiva estensione degli ambiti muratoriani di comprensione del reale. Fino al territorio, fino ai temi poderosi che coinvolgono nel disegno intere ecumeni civili.
Credo che la grandezza della figura di Muratori, architetto fino in fondo, anche nel considerare il divenire delle cose e della vita, consista proprio in questa sua straordinaria volontà di sintesi, nell’unità epica in cui riesce a raccogliere il molteplice. Un paesaggio ideale, espresso da inflessibili griglie e visionari “tabelloni”, nel quale non c’è posto per il banale quotidiano e anche la semplice casa a schiera acquista senso e grandezza nel contributo che fornisce alla costruzione dell’intero organismo urbano.
Questa volontà di sintesi assoluta gli permette di “riprogettare” l’organicità della città e del territorio, ma anche riconoscere, per differenza, le concrete frantumazioni prodotte dalla crisi in atto. E anche l’individualismo di una cultura architettonica sostanzialmente ancora impregnata di romanticismo: come per il neoclassico Schiller, opportunamente citato in queste pagine, per Muratori la grande arte non è quella attraverso cui l’individuo si esprime con forza titanica, ma quella che sa raccogliere e dare forma alla condivisione, ai gesti tipici nei quali un intorno civile si riconosce.
Con lo iato del periodo della Ricostruzione, quando i suoi progetti sembrano “avvalersi di un morfema astratto costituito da un accostamento di volumi ed elementi geometrici”, come scrive Gianfranco Caniggia, il classicismo che pervade per intero e in profondità il pensiero di Muratori sembra porsi, fin dalle prime esperienze, nel solco della proposta di Pagano di non imitare l’antico, ma di creare un’arte nuova da porre accanto all’antico che si traduce nella nozione di “durata” dove tutto ha senso in quanto esiste un precedente che lo spiega e ne indica il futuro. Per questa ragione, quando la modernità sembra leggere la città come luogo dove tutto è provvisorio, casuale e rapidamente consumato, Muratori introduce l’idea di crisi, di discontinuità tutt’altro che fortuite, unificate come sono in un più vasto disegno dal grande piano della storia, da una struttura ciclica che da architettura alla successione degli eventi.
La sua figura profondamente classicista è, dunque, tutt’altro che anacronistica. Essa svolge, piuttosto, il ruolo che hanno avuto i grandi pensatori in radicale disaccordo con i valori del proprio tempo proprio perché, vivendoli, ne hanno compreso a fondo significato e limiti. Solo una lettura superficiale della loro opera li collocherebbe “in discordanza di fase” col contesto in cui hanno operato. E anche se la lezione di Muratori, esploratore di nuovi territori, è rimasta inascoltata, senza di lui il tempo e le condizioni in cui ha operato non avrebbero, oggi, lo stesso significato.
Ogni società dovrebbe custodire gelosamente questi focolai di critica alle proprie convenzioni invalse come fonte preziosa di un possibile rinnovamento. O, almeno, riflettere sulla loro eredità.
La generosità del suo impegno intellettuale ha invece condotto Muratori in rotta di collisione con un establishment accademico e a pagare la propria intransigente passione civile con le vicende drammatiche che hanno concluso nell’emarginazione la sua storia intellettuale e umana. Alla quale è succeduta una lunga damnatio memoriae da cui stiamo uscendo solo in questi ultimi anni.
Marco Maretto è uno dei non molti studiosi delle nuove generazioni che ha colto, in chiave contemporanea, il valore operante dell’eredità muratoriana, le fertili possibilità che la sua critica ancora offre alle condizioni stagnanti dell’attuale pensiero sull’architettura.
Per questo lo dobbiamo ringraziare per il prezioso lavoro documentato in queste pagine, che si inserisce in un coerente quadro di studi attraverso i quali, della lezione muratoriana, egli fa riemergere proposte attualissime. Proposte che riguardano la sostenibilità delle trasformazioni che operiamo sul mondo costruito e l’uso organico dei mezzi che abbiamo a disposizione, in una condizione, come quella contemporanea, segnata da un’ inedita dilapidazione di risorse alla quale l’architettura fornisce spettacolarizzazione e consenso.
Roma, luglio 2012
di Giuseppe Strappa
In “La Repubblica”, 1 agosto 1991
ARCHITETTURE DI MARE E DI COSTA
La storia delle architetture moderne delle coste e delle isole del Tirreno (le avventure dei luoghi, le vicende degli insediamenti) giace sepolta nelle viscere delle conurbazioni per le vacanze, come un resto antico e prezioso sotto una colata lavica : frammenti ormai smarriti tra orde di villette kitsch , modernissime tracce che appaiono tra distese di ruderi edilizi vecchi di soli trent’anni. Sogni, anche, rimasti sulla carta, disegni mai realizzati. Documenti di una vocazione moderna tradita. Storie sommerse e, a volte , ancora miracolosamente vitali ed attive.
“Non amavano il mare, ne parlavano quasi con soggezione; dicevano libeccio sottovoce, temendo di provocarne le furie.” I pastori di rado si affacciavano, all’inizio del secolo, alla costa sotto Capo Linaro. Si accostavano timidi e taciturni all’osteria a ridosso del castello degli Odescalchi “vestiti di pelo come fauni”, osservavano sospettosi il litorale, ma pensavano ai pascoli sicuri, alle terre d’origine sulle montagne.
Come i pastori descritti da Marinella Lodi, lo sperone di capo Linaro, unico rilievo della costa a partire da Roma, sembra essersi spinto fino al mare per un puro accidente orografico. Sembra appartenere piuttosto all’entroterra, ai Monti della Tolfa, ai Sabatini: un lembo di costa di sicura vocazione terrestre, il cui continuo rapporto di diffidenza col mare si è rafforzato nei tentativi frustrati di stabilire un legame con le imbarcazioni che, in ogni epoca, si scorgevano in lento movimento al largo, dirette verso il porto vicino che nei secoli cambiava nome (Centumcellae, Civitas Vetula, Civitavecchia). Quando, a metà del ‘600, si costruì finalmente un porto, papa Innocenzo X ne dispose l’immediato interramento, come un’anatema per aver rotto l’isolamento marino del luogo .
A partire dagli insediamenti più antichi destinati all’ otium dell’ aristocrazia romana, questi piccoli rilievi sembrano propizi, invece, a quella “civiltà di villa” che percorre gran parte della storia del paesaggio italiano.
Il principe Baldassarre Odescalchi deve aver compreso bene questa lezione quando, nel 1887, acquistò all’asta dall’ Ospedale Santo Spirito la tenuta di Santa Marinella e il castello quattrocentesco che nel tempo i Barberini avevano trasformato in palazzo fortificato. Il principe dispose immediatamente i piani per una lottizzazione e ne favorì la crescita utilizzando scaltramente lo strumento della pubblicità: la stampa divulgava l’inaugurazione di ville dove si svolgevano feste memorabili, residenze lussuose frequentate dal bel mondo, abitate da soubrette famose. La prima villa fu costruita per sé dall’ingegner Raffaello Ojetti, che in quegli anni stava ampliando per il principe palazzo Odescalchi in via del Corso a Roma. Ne seguirono presto altre. In realtà, tuttavia, le foto di fine ‘800 mostrano il luogo occupato da costruzioni rade, sperdute tra le sabbie e la macchia mediterranea selvaggia, con capanne di legno avventurate sull’arenile quasi a sperimentare la rudezza del mare, a rassicurare le sortite sulla spiaggia di timorose famiglie borghesi . Costruzioni aggrappate alla ferrovia per Roma come ad un cordone ombelicale, dove non si riesce ad immaginare il passeggio, le orchestrine, i sorbetti ,i piccoli agi, insomma, di una stazione balneare credibile. Capisaldi di una conquista ancora precaria, queste ville adottavano le piante semplicissime, i volumi pragmatici e un po’ spogli della colonizzazione al primo impatto con un territorio non ancora domato. E’ solo molto più tardi, col nuovo secolo, che si apre , sotto la regia dell’ammiraglio Astuto, presidente della Cooperativa “Pirgus”, la fiera delle vanità della borghesia romana. Vengono edificate le prime residenze nelle quali l’architettura, come in una vetrina, mostra le condizioni sociali, le aspirazioni, il censo del proprietario. Il tipo edilizio é quello del “villino di città”, con una torretta o un’altana che ne segnala l’individualità. Sono costruzioni informate ad un eclettismo prudente, secondo la tradizione romana, dove però non mancano invenzioni discrete, alimentate da una balneare levitas. (come nella villa Zamboni-Bertagnolio in via Aurelia , nella villa Soria a lungomare Marconi o nel vicino villino Zocchi) e dove non mancano echi modernisti che increspano, ad esempio, i volumi dell’ eccentrica villa Bettina costruita dall’architetto Gilardoni. E tuttavia, come nota Marta Francocci in un prezioso libretto che può servire da guida a queste architetture (La stazione balneare di Santa Marinella, 1887-1940 , edizioni Carte Segrete) non è un caso che l’unico esempio di adesione totale alle esperienze moderniste sia costituito da quel villino Cerrano che Gino Smorti disegna in stile liberty per un direttore del vicino cementificio, per un ceto imprenditoriale,cioè , dallo spirito innovativo assai raro nell’ambiente romano.
Negli anni ’20 si diffonde l’uso del terrazzo, sostituito al tetto, mentre si vanno scoprendo, forse con ottimismo eccessivo, i poteri taumaturgici delle radiazioni solari che , sosteneva una rivista dell’epoca “ti scovano il bacillo in mezzo alle viscere e lo annientano inesorabilmente.” Negli anni ’30 si costruiscono anche le prime ville “razionaliste” i cui volumi elementari parlano ancora una lingua comprensibile , dividono un codice comune con le costruzioni precedenti, come villa Genesi in via Capo Linaro, che conserva i motivi tradizionali della torretta e del bow-window.
E’ il periodo di maggiore splendore della piccola epopea borghese di una cittadina divenuta esclusiva ed elegante, dal lusso non importuno, serena nonostante la presenza di qualche gerarca.
Una stagione di pienezza che prelude, tuttavia, alla decadenza. Le cui cui prime, lontane avvisaglie si intravedono già negli anni ’20 con la lottizazione dell’area di Caccia Riserva, dove i “villini” ad alta densità per il ceto medio anticipano il modello delle palazzine , protagoniste dello sfascio edilizio del dopoguerra. Prima della distruzione sistematica del litorale laziale, tuttavia, Santa Marinella vive ,negli anni ’50,una breve, estrema stagione di fasti. Si costruiscono ancora ville raffinate che dialogano con la tradizione, come quella disegnata dall’architetto Luigi Racheli in via Ulpiano per l’industriale della birra Franco Peroni, mentre anche le palazzine sono costruite con cura, come quelle sulla via Aurelia ,rivestite di maioliche blu , progettate da Monaco e Luccichenti.
Poi, nel ’54, Luigi Moretti costruisce in via Capo Linaro per la principessa Pignatelli una villa dalle forme assolute, chiare come un gesto simbolico. E’ l’immagine di una svolta epocale nel destino di Santa Marinella. La “Saracena” (questo è il nome della villa, alla quale seguirà, postuma, “La Califfa”) parla un linguaggio nuovo, che rompe col passato. Un linguaggio presto imitato a sproposito e volgarizzato su tutta la costa laziale . Rivolta al mare , la costruzione è protetta verso la strada da volumi ciechi, rifiniti in intonaco grezzo, respingenti e inaccessibili come bunker. Perduta la cordialità dei “villini signorili”, la nuova, famosa villa volge aristocraticamente (gelosamente, commenta l’architetto) le spalle alla cittadina dove ancora passeggiano re Farouk e Ingrid Bergman. Quasi un presentimento,un ultimo tentativo di sdegnosa difesa dal turismo di massa .
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L’ARCHEOPARK DI CASTEL MADAMA
di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 30 ottobre 2012
Risalendo la valle dell’Empiglione sotto Castel Madama, se appena ci si allontana dalla provinciale, appaiono, poderose e solitarie, le rovine dell’Anio Novus. Non un turista turba la quiete delle arcate abbandonate. In questa forma, silenziosi e divorati dalla vegetazione, dovevano comparire gli acquedotti romani ai viaggiatori del Grand Tour: a Goethe, a Schinkel, a de Brosses. Ma il fascino romantico dell’architettura che lentamente ridiventa natura è pagato a caro prezzo. Ogni anno si perde un po’ di questo patrimonio, ogni anno qualche piccolo crollo ne riduce la consistenza.
Se si prosegue lungo l’Empolitana, s’incontrano i resti abbandonati di antiche ville rustiche terrazzate, cisterne, fabbriche di mattoni, rovine di insediamenti misteriosi come Saxula, fino ad arrivare a Trebula Saffenas, di cui racconta Plinio.
In questi luoghi, tra tante vere testimonianze del passato in abbandono, la proposta di costruirne di false sembra surreale. Eppure ai bordi della strada, all’altezza di Colle Passero, è in progetto un nuovissimo villaggio neolitico con tanto di laghetto artificiale.
Il fenomeno potrebbe avere aspetti interessanti. Sull’invenzione del passato ogni epoca si è esercitata a suo modo e le nuove costruzioni potrebbero scatenare inedite interpretazioni sociologiche sul rapporto contemporaneo tra mercato, memoria, luogo… Del resto la stessa Stonehenge è, in gran parte, la creazione appassionata del colonnello William Hawley che all’inizio del ‘900 risistemò le enormi pietre secondo un disegno che, oggi, di fronte al business che il sito rappresenta, nessuno si sogna di contestare.
Ma il progetto nostrano, che mostra bambini spensierati tra cottage preistorici in stile Tudor, ricorda piuttosto la bizzarra proposta del sindaco di Pompei di costruire terme e domus finte accanto a quelle vere che cadono a pezzi. Eppure il programma va avanti: il TAR ha respinto lo scorso aprile il ricorso di un gruppo di cittadini e la Regione Lazio ha appena approvato la variante al PRG che potrebbe consentire l’intervento.
Certo, la società Archeopark che lo propone, nascente Ikea dell’archeologia, fa il suo mestiere. Ha già realizzato con successo, peraltro, un villaggio neolitico vicino a Brescia dove è possibile “rivivere la preistoria alla scoperta degli antichi Camuni e delle genti padane”. Quello che sembra inaccettabile è, invece, l’incapacità politica di coordinare investimenti privati e pubblici in operazioni che non siano solo una perdita per l’ambiente.
Gli acquedotti e le ville romane sono tra le immagini di maggiore attrazione nella divulgazione globale dell’antico. Non potrebbe il loro restauro essere la nuova risorsa economica dell’area? Un grande parco archeologico vero, unico e irripetibile, con percorsi tematici, strutture museali, ricettive, di accoglienza che creino nuovi posti di lavoro e forniscano un’alternativa al turismo della Capitale, quello rapido che in tre giorni riempie i visitatori di troppe immagini per la memoria e le strade di un fiume di torpedoni.