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LA POLEMICA SUL RESTAURO DI PONTE SISTO

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di Giuseppe Strappa

La storia infinita dell'”arco di ferro” – l’agonia di ponte Sisto,

in “La Repubblica” del 13 settembre 1992.

Quando nel 1876 Angelo Vescovali, solerte e dimenticato burocrate comunale, pose mano al progetto per la trasformazione di Ponte Sisto, forse  non fu nemmeno sfiorato dal sospetto  che stava operando nel corpo vivo della storia.  Preso nel  vortice della febbrile attività edilizia che aveva seguito il trasporto della capitale a Roma, nascondeva probabilmente, in qualche angolo riposto della propria mente, come peraltro altri tecnici ed amministratori, un pregiudizio livoroso e incoffessabile: che molti dei monumenti antichi  non fossero, in fondo, che ostacoli ingombranti alla costruzione di una città moderna. Che molti  dei ponti sul Tevere grondanti di storia, ad esempio,  fossero semplicemente  ormai inadatti , per il grande ingombro delle pile piantate nel fiume, al flusso regolare delle acque  e , per la modesta carreggiata, al flusso crescente  del traffico . E di traffico Ponte Sisto, in realtà, ne poteva sostenere ben poco, con la sua sezione di sei metri e mezzo occupata , per di più, da due angusti marciapiedi laterali.
Tanto che Antonio  Canevari, rappresentante della commissione istituita per la regolamentazione del flusso del Tevere, ne aveva proposto, senza mezzi termini, l’immediato abbattimento.
Poichè il ponte doveva comunque sopravvivere per le proteste degli archeologi, Vescovali , con la diligenza dell’ ingegnere idraulico, pensò candidamente di  aumentare la “portata” del traffico sul ponte disegnando  due marciapiedi sospesi sull’acqua, sostenuti da una struttura in ferro  poggiata  sulle opere antiche, come se le auguste pietre fossero un suolo naturale che via dei Pettinari incontrava nel suo percorso in direzione di  Trastevere.
Gli scarni disegni del progetto che ci sono pervenuti descrivono un sistema di travi, tiranti, mensole in ferro, il cui   banale rigore viene concluso dalla decorazione di  un parapetto in ghisa, materiale di vocazione eclettica , disponibile a qualsiasi virtuosismo plastico.
Il progetto fu senz’altro approvato dal Consiglio Comunale che liquidò sbrigativamente l’opposizione dell’ingegnere Luigi Gabet, sostenitore tenace   della costruzione di un  nuovo ponte  nel rione Regola. Le nuove  opere furono così appaltate durante le festività  natalizie  dello stesso anno, rapidamente realizzate e  decorosamente  illuminate con lampioni a gas mentre qualche anno dopo i marciapiedi vennero raccordati a quelli dei nuovi lungotevere.
La brutale sovrapposizione  del moderno all’antico aveva generato un  ibrido vagamente indigesto ma anche un nuovo, involontario monumento che racchiudeva  l’essenza della storia edilizia romana. La sua immagine enigmatica, resa familiare dal tempo, trasudava  significati e messaggi  lasciando supporre, sotto la leggerezza  del metallo poggiato su strati di rovine, le aggiunte faticose, i crolli,  le ricostruzioni in  successione infinita. Il segno  inequivocabile ed estraneo  della nuova Roma  si sovrapponeva, a provvisoria conclusione di un’avventura consumata su ritmi secolari,  alla mole massiccia fondata da Agrippa, restaurata da Aurelio e Valentiniano, rovinata per la furia della piena del 792 d.C, ricostruita, presagio di nuove distruzioni,  da Sisto IV per il giubileo del 1475. E’ indubbio che la  solennità delle  magnifiche strutture quattrocentesche di Baccio Pontelli ne risultava compromessa.
Eppure il nuovo ponte non mancava di un suo fascino quotidiano e discreto, con gli alti marciapiedi che racchiudevano  lo spazio complesso del percorso interno a schiena d’asino dal quale  il fiume appariva progressivamente, via via che si raggiungeva  il centro del ponte.
Legato all’astratto nitore degli argini piemontesi, il ponte mediava  due mondi diversi, Trastevere e il rione Regola, ai quali non apparteneva. Era divenuto  col tempo  un piccolo universo dotato di carattere autonomo. Non proprio un ponte “abitato” come Ponte Vecchio a Firenze o il ponte  di Rialto a Venezia, ma almeno una strada addomesticata , partecipe della vita dei vicini quartieri: luogo cordiale di passeggiate, incontri, convegni fugaci, attraversamenti.
Nel ’31   le strutture ottocentesche corsero il rischio, non raro a quei tempi, di essere abbattute da Marcello Piacentini desideroso di ampliare il ponte sistino. Episodio, questo, che  la nobilita , in qualche modo, ai nostri occhi suscitando il  rispetto che sempre si ha per i sopravvissuti.
La leggittimità  delle sovrastrutture metalliche venne  di nuovo messa  in discussione negli anni ’60 quando,   credendo di riconoscere nel ponte una vocazione “parigina”, si provò ad occuparlo  con bancarelle più o meno  stabili. Alla richiesta di rimozione del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti si accompagnò  l’auspicio della demolizione dei marciapiedi ottocenteschi. Iniziava una lunga polemica sulla opportunità  di conservare o meno  le sovrastrutture metalliche  che, se  nascondevano uno dei capolavori del Quattrocento romano ,  facevano  anche parte ormai di un contesto spaziale come i lungotevere, nel quale il ponte, se “liberato” delle aggiunte moderne, poteva apparire uno spaesato relitto .
La polemica non fu risolta  dal confronto, leggittimo ed utile, tra diverse scuole di pensiero sul restauro dei monumenti, ma da un’ incuria colpevole  che ha lasciato per anni marcire le strutture in ferro di Ponte Sisto. Ci si rese conto delle pessime condizioni in cui versavano le travi, e quasi per caso, solo quando nel ’75 un gruppo di studiosi guidati dal professor Gaetano Miarelli Mariani , in occasione del centenario della costruzione del ponte,  redasse un’accurata analisi storica e una proposta di restauro. Il resto è cronaca tristissima  degli ultimi anni. Qualche tempo dopo l’Amministrazione comunale  fece  mettere a nudo le travi. Un cartello spiegava che si trattava di “indagini conoscitive”. I responsabili delle indagini debbono aver avuto ampio modo di valutare le condizioni delle parti metalliche visto che per molti anni le strutture sono rimaste esposte, senza alcuna protezione, alle intemperie. Finchè, nel luglio del ’90, due anni dopo che i professori Giuliano Canella e Michele Mele ebbero accertato che la corrosione aveva divorato gran parte del materiale originale ,  i resti  delle strutture ottocentesche furono  pietosamente rimossi e abbandonati in un vecchio capannone  di Testaccio.
Così anche oggi il ponte continua a mantenere  il suo ruolo di simbolo dei tempi: le sue spoglie devastate, attraversate da cordoli di cemento e volgari pannelli di recinzione, mostrano i monconi desolati delle travi amputate. L’orgoglioso ponte imperiale , il monumento  del Giubileo sistino del 1475 si è trasformato stabilmente in  un territorio desolato, vago ed infido, da attraversare in fretta, ai margini della   città anche se  nel cuore del suo centro antico.
E mentre  la  Commissione Comunale per Ponte Sisto  si é espressa, dopo otto anni di studi,  a favore del  restauro delle sole strutture quattrocentesche del ponte, tecnici di diverse competenze, come l’asino di Buridano, si arrovellano nei dubbi di una nostalgia tardiva e si chiedono se non convenga  ricostruire con materiali nuovi la struttura demolita.

Opinione di Gaetano Miarelli Mariani

in «La Repubblica» del 27/7/97

Al prof. Gaetano Miarelli Mariani, docente universitario e direttore della Scuola di Specializzazione in Restauro  che ha guidato il gruppo dei progettisti del restauro di ponte Sisto, abbiamo chiesto quali criteri hanno informato il progetto.

“Quando abbiamo cominciato a studiare il ponte – dice Miarelli Mariani – nessuno aveva intenzione di rimuovere le strutture in ferro. Abbiamo però cambiato opinione constatando che esse non erano più in condizione di reggere. La polemica che ne è seguita è spesso stata alimentata, in mala fede, senza conoscere il risultato  degli studi condotti trave per trave, che dimostrano  il degrado irreversibile delle strutture ottocentesche . Io sostengo che piuttosto che rifare le opere in ferro (che  dovrebbero essere adeguate alle  normative attuali e quindi anche   diverse dalle originali )  si dovrebbe  costruire un parapetto moderno: sono convinto che noi non  possiamo rifare un falso, una  struttura in stile.

Dal  punto di vista del metodo, tengo a precisare,  noi non abbiamo mai parlato di semplice “ripristino” delle opere quattrocentesche . Avevamo anzi proposto, provocatoriamente,  un parapetto in calcestruzzo prefabbricato per far capire che l’ intervento doveva essere moderno. Il problema restava, ovviamente,  da approfondire. Tolto il ferro si è scoperto poi che esiste ancora tutta la base e resti non insignificanti del parapetto quattrocentesco. Si tratterebbe dunque ora  di reintegrarlo.”            G.S.

Opinione di  Paolo Portoghesi

in «La Repubblica» del 27/7/97

Al prof. Paolo Portoghesi, docente di Storia dell’Architettura e profondo conoscitore  di Roma, abbiamo chiesto un parere sulle demolizioni delle strutture in ferro di ponte Sisto.

“Credo che sarebbe opportuno rimuovere tutte le strutture ottocentesche del ponte e conservarle in altro luogo – afferma Portoghesi- perchè sono essenzialmente un elemento di disturbo e  nascondono la fruizione dell’oggetto . Queste aggiunte alle strutture antiche  sono forse cose di un certo sapore  ma fanno parte della cronaca, come un’edicola di giornali o un lampione : possono al massimo commuovere i cultori di Roma sparita, mentre ponte Sisto è uno dei monumenti romani più significativi .

Rimontare poi ora la parte di  strutture già tolte sarebbe un’offesa alla ragione e all’economia. Se ci sono delle risorse utilizziamole per salvare qualche monumento importante che sta crollando piuttosto  che ripristinare  documenti di una necessità storica transeunte. Se per caso avessero messo delle gronde di ghisa sulla facciata di San Carlino credo che nessuno avrebbe dubbi a toglierle.  Un atteggiamento che io condanno è quello di rinunciare a giudicare, di conservare ad ogni costo: è il tradimento peggiore che si possa fare nei confronti di chi ha costruito. Se oggi noi difendiamo  l’ambiente è perché alla fine del secolo scorso a Vienna è stata fondata una scuola di storia dell’arte che ha diffuso una sensibilità per i valori ambientali . Utilizzare questa sensibilità per omologare tutto e rinunciare al giudizio è un errore . G.S.

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RIAPERTURA DI PONTE SISTO

Miracolo a Ponte Sisto,  in «La Repubblica» del 27/7/97

di Giuseppe Strappa

Se fosse apparsa la Madonna le facce non sarebbero state meno stupite. La piccola folla che, anticipando l’apertura ufficiale, si era riunita ieri sul “nuovo” Ponte Sisto, osservava come un’apparizione l’acqua lenta che scorreva sui due lati delle vecchie arcate, i mulinelli che investivano le pile di pietra. Erano diciotto anni che attendevano questo momento. Da quando il ponte quattrocentesco era stato segregato da una parete continua di lamiere “provvisorie” collocate per “indagini conoscitive”, ridotto ad un luogo inospitale, da attraversare in fretta: un pezzo di Bronx arenato nel cuore vivo di Roma.

Diciotto anni: una generazione. Eppure sono bastati due mesi di lavori e centociquanta milioni di lire per restituire, almeno, dignità (in attesa della sistemazione definitiva) ad uno dei ponti più belli di Roma.Tra i tanti fattacci che i monumenti romani potrebbero raccontare, la storia di Ponte Sisto è una delle più assurde e vergognose.  Comincia nel 1876, quando Angelo Vescovali, tecnico comunale immerso nel turbine dei lavori postunitari, pose mano all’ampliamento del ponte avendo in mente, con logica burocratica, due soli problemi: il flusso delle acque da regolamentare e il flusso crescente del traffico da assecondare ampliando la carreggiata. Per risolvere quest’ultimo furono collocati due nuovi marciapiedi a sbalzo retti da strutture in ferro, il cui banale rigore si pensò di mascherare con rivestimenti modanati in ghisa. Ma anche la sezione ampliata della carreggiata divenne troppo modesta per il traffico delle automobili e nel 1931, Marcello Piacentini riceveva l’approvazione del progetto di ampliamento: una nuova carreggiata di 16 metri ottenuta rimuovendo le strutture metalliche e affiancando un nuovo ponte all’antico, da rivestire con il paramento quattrocentesco, smontato e riposizionato.  Fortunatamente, nonostante l’appoggio di  Munoz, massima autorità del tempo nel campo del restauro, non se ne fece nulla.

Ma furono i rivestimenti di ghisa a segnare la condanna delle travi ottocentesche: le pesanti decorazioni sovrapposte ne avevano impedito la  manutenzione e quando nel ’75 un gruppo di storici guidati dal prof. Miarelli Mariani condusse un’accurata analisi del ponte, ci si accorse, quasi per caso, che le travi in ferro erano marcite. Ma nulla si mosse fino ai fatidici Mondiali di calcio del’90, quando una squadra di operai resa disponibile dalla sospensione dei lavori all’Olimpico, fu incaricata di rimuovere le “ali” ottocentesche. Da allora caroselli di Esperti, Studiosi, Consulenti, si sono avvicendati al capezzale del ponte, dividendosi in Scuole di pensiero, riunendosi in Commissioni, scontrandosi con furore su questioni teoriche. Senza arrivare ad alcuna conclusione. Se il soprintendente Ruggeri si era espresso, peraltro, a favore della  rimozione delle strutture metalliche, nel ’92 il successore Zurli esprimeva parere diametralmente opposto.

Ma oggi, mentre la polemica sulla sistemazione definitiva è ancora arenata sulla questione se rimontare  le strutture metalliche o restaurare tout court il ponte quattrocentesco, avanza una terza ipotesi. Poiché sembra impossibile utilizzare le vecchie travi depositate in un capannone di Testaccio e il disegno originale di Baccio Pontelli risulterebbe ora estraneo alle quote ed all’immagine dei lungotevere umbertini, perché non progettare una struttura metallica completamente nuova, tecnologicamente avanzata, trasparente e leggera come un guizzo che si accosti alle strutture antiche, filologicamente restaurate, senza toccarle? Ne è convinto Maurizio Cagnoni, direttore dell’Ufficio Progetti Città Storica e protagonista del blitz della riapertura del ponte, che propone un grande concorso internazionale che riporti la città nel contesto della ricerca architettonica europea.  La decisione definitiva verrà presa, per decreto del ministro Veltroni, da una nuova commissione di esperti. Comunque vada, speriamo sia l’ultima.

CHIUSURA A TRANSENNA

RENZO PIANO, PALAZZO DELL’OPERA DI LA VALLETTA, MALTA (in costruzione))

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SAVERIO MURATORI, CHIESA DI SAN GIOVANNI AL GATANO (PISA)

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A. LIBERA, M. DE RENZI, PALAZZO DELLE POSTE IN VIA MARMORATA

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CASA IN LINEA A LUDWIGSBURG, GERMANIA

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F. PARDO CALVO, B.G. TAPIA, MUSEO ARCHEOLOGICO DI OVIEDO

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GUSTAVO GIOVANNONI, STABILIMENTO DELLA BIRRA PERONI A ROMA

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LE CORBUSIER CHANDIGAR

NUOVE CITTÀ MEDITERRANEE


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Segezia

di Giuseppe Strappa

in AA.VV. Metafisica costruita, Roma 2002.

Tra le molte letture delle città di fondazione costruite in Italia tra le due guerre, una delle più fertili, ritengo, possa essere quella di interpretarle non solo come risultato di contingenze politiche, ma come esito di un processo che opera, nel fluire della storia, su tempi lunghi e, anche, prodotto di una forma di rinuncia all’individualismo, a quella volontà di “distinguersi ad ogni costo” nella quale Giuseppe Pagano aveva colto uno dei più insidiosi pericoli dell’architettura moderna. Interpretarle, in altri termini,  come adesione, seppure non priva di ambiguità e contraddizioni, a una più generale langue comune che la cultura architettonica italiana del ‘900 tenta di elaborare. O meglio, stenta a riconoscere nelle condizioni di crisi generate dalla contrapposta interferenza degli echi rivoluzionari che arrivano dalle aree nordeuropee, del dettato storicista trasmesso dalle accademie, dell’interpretazione romantica che non pochi architetti coinvolti nel dibattito sull’architettura nazionale fornivano della tradizione di edilizia minore.
Riconoscibile attraverso un insieme di caratteri condivisi, la radice di questa lingua, spesso indicata come specificamente nazionale dalla pubblicistica della fine degli anni ’20 e degli anni ’30, appartiene, in realtà,  ad una vasta koinè architettonica che apparenta contesti civili, per altri versi diversissimi tra loro, formatisi intorno al bacino del Mediterraneo.
Una vasta area culturale della cui specificità si comincia a prendere coscienza a partire dagli anni ’20 del XX secolo. Si tratta di un fenomeno che non ha precedenti nella cultura europea: il problema di un’identità mediterranea è un portato della modernità, delle trasformazioni culturali e politiche che hanno spostato verso nord il centro del mondo relegando il Mediterraneo in posizione periferica. Se quella antica, infatti, era la storia del mondo vista con gli occhi del Mediterraneo, è anche vero che si trattava della storia dei greci o dei romani, essendo il Mediterraneo soprattutto luogo di conflitti tra culture diverse. Solo per un breve periodo l’uomo mediterraneo aveva sentito come patria condivisa le terre romanizzate che andavano dalla penisola anatolica alla Spagna e all’Algeria: dopo il declino della grande unificazione romana le unificazioni parziali bizantine, arabe, ottomane, sotto la spinta dell’intolleranza e del proselitismo imposti dalle nuove religioni monoteistiche,  non avevano fatto che acuire divisioni tra culture diverse.
In architettura, in particolare, la coscienza di una specificità mediterranea si forma con l’insorgere del Movimento moderno: come ogni identità essa nasce da una contrapposizione, dal riconoscimento, a volte contraddittorio e non sempre lucidamente cosciente negli scritti dei protagonisti, di istanze antagoniste operanti nella storia, identificabili attraverso la polarizzazione, nell’Europa del nord, delle ricerche per un’architettura caratterizzata dalla serialità legata al mondo delle macchine ed alla produzione industriale. Queste ricerche, coerenti con il processo formativo di aree culturali che coincidono per larga parte con le regioni storicamente segnate dal gotico, si traducono in forme opposte a quella nozione di organicità  che era stata per secoli il vero carattere specifico del mondo mediterraneo, con il programmatico distacco tra le componenti dell’organismo edilizio: l’indipendenza della distribuzione dal sistema statico-costruttivo, della quale la “pianta libera” era il portato più evidente, l’indipendenza della leggibilità esterna dalla costruzione, testimoniata in forma di manifesto dalla “facciata libera”.
Si fa quindi strada, in modo complesso ma sinteticamente evidente, l’idea di un’ architettura moderna  basata su ideali umanistici, un mondo di forme “necessarie”, per molti versi divergenti da quelle del Movimento moderno anche se non prive di superficiali assonanze, derivate dal processo formativo dell’edilizia a matrice muraria, che lega organicamente, attraverso la funzione portante e chiudente della parete, distribuzione, struttura, leggibilità.
Il riconoscimento di questa diade di polarizzazioni riscontrabili nell’architettura moderna tra le due guerre va operato superando la confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti. Caso esemplare è quello dei ponderosi volumi che Alberto Sartoris dedica alla nuova architettura, dove la distinzione tra climat mediterranéens e climat nordiques viene dedotta esclusivamente attraverso le aree geografiche di appartenenza, indipendentemente dal carattere degli edifici selezionati e non tenendo conto della complessità del problema, della nostalgia delle origini che il mondo mediterraneo, ad esempio, ha sempre suscitato negli architetti nordici, da Asplund a Markelius ad Aalto ,
E sull’idea di “mediterraneità” si scrive molto, anche in Italia, tra le due guerre, senza dedurne, tuttavia, nozioni trasmissibili che superino un generico riferimento alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi finendo per rendere incerta o ambigua ogni definizione . Soprattutto negli anni tra il 1930 ed il 1934 la polemica sui caratteri dell’architettura nazionale che ha diviso gli architetti italiani coincide spesso con quello sull’architettura mediterranea. L’idea che si vuole avallare è quella di una tradizione antica della quale si propone un aggiornamento: la ripresa della semplicità dei volumi, la lezione della varietà di forme nella spontanea composizione delle abitazioni isolane. Se si fa eccezione delle note posizioni critiche  di Persico e Pagano, di alcune riflessioni interne al gruppo che si forma intorno alla rivista «Quadrante» e di isolate osservazioni (come quelle di Giuseppe Capponi, che riconosce nelle forme della casa mediterranea, che “stranamente esprimono quell’idea che è così propria della più moderna concezione dell’architettura”, non il generico fascino del primitivismo, ma il risultato di un processo ), il dibattito è informato a generici richiami al pittoresco e alle qualità “spirituali” della tradizione mediterranea da contrapporre al “materialismo” dell’internazionalismo nordeuropeo.
E tuttavia un carattere distintivo può essere riconosciuto invece, al di là delle affermazioni dei protagonisti, nella nozione di continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, molti progetti e costruzioni degli architetti moderni che guardano al Mediterraneo. Continuità leggibile tanto nei tipi edilizi quanto nel linguaggio architettonico inteso, appunto, nel senso di declinazione individuale di una lingua condivisa. Si pensi ad esempio alle ricerche sulla casa a corte, vera matrice spaziale delle forme mediterranee, riproposta da Luigi Piccinato per la sua casa coloniale esposta alla V Triennale di Milano. “È invero interessante vedere – scrive in proposito Piccinato – come in fondo la storia ci offra un tipo di casa mediterranea comune a quasi tutti i popoli vissuti intorno al mare mediterraneo:un tipo in cui le differenziazioni tra nazione e nazione sono più superficiali che sostanziali” . E si pensi anche, contrapposta alla discontinuità dei sistemi elastici e discreti delle aree nordeuropee, alla continuità plastica della parete muraria e dei relativi nodi tettonici, spesso  impiegati spontaneamente, ma a volte criticamente anche indagati  da architetti come Giuseppe Pagano. Il quale in Architettura rurale in Italia  riconosceva nel marcadavanzale il segno della permanenza  di una lingua ancora operante, che Pagano stesso impiegava concretamente, peraltro, nelle facciate di palazzo Gualino.
Ma continuità, anche, con le strutture del territorio, che introduce una nozione di paesaggio che meriterebbe di essere indagata a fondo: contro la tradizione pittoresca anglosassone della landscape architecture e propiziata dal legame tra costruito e ambiente imposto dalle bonifiche, si forma un’idea di paesaggio inteso come aspetto visibile della struttura del territorio, espressione organica dei valori di un contesto civile del quale non solo e non tanto la natura incontaminata, ma le aree produttive, la natura addomesticata dal lavoro dell’uomo costituiscono gli elementi fondanti.
Di questa nozione organica e antimeccanica di paesaggio costruito le città di fondazione forniscono forse l’interpretazione più evidente attraverso il loro legame di necessità col territorio, l’unità dell’ impianto basato sulla gerarchia dei percorsi, la plasticità muraria degli edifici,.
Nel pieno della modernità Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia , sorte intorno a Roma tra il 1928 ed il 1936, rispondono ancora, in diverso grado, ai principi di organicità stabiliti dal rapporto di continuità col retroterra agricolo, dalla gerarchizzazione dei percorsi legati alla viabilità territoriale, dalla relativa collocazione e individuazione dei tipi  edilizi, dal carattere delle costruzioni coerente con la tradizione muraria nonostante gli aggiornamenti.. Organicità che ha inizio dal rapporto di congruenza con il processo storico di trasformazione del territorio: esse partecipano alla conclusione dell’ultima fase di un ciclo che, secondo un “tipo territoriale” piuttosto costante nell’Italia centrale, parte dal recupero della viabilità romana, continua con la ristrutturazione degli insediamenti di promontorio  dei monti Lepini e si conclude con la formazione di insediamenti rurali di fondovalle e pianura, di origine produttiva.  La fondazione delle città dell’Agro Pontino, per questa ragione, é da associare alla conclusione dei grandi cicli di antropizzazione del territorio del bacino del Mediterraneo che hanno portato, anche, alla bonifica della piana di Salonicco, delle aree del Basso Rodano, della Mitidja algerina.
Tra queste città sembra utile riproporre come esemplare il caso di Sabaudia, per essere stata considerata dalla storiografia ufficiale del dopoguerra la città di fondazione più innovativa, mentre, come cercheremo di dimostrare,  testimonia con concreta evidenza  la continuità con gli organismi urbani tradizionali
Nonostante sia stata interamente progettata nel 1933, e risulti quindi il prodotto di quel modo critico di pianificare gli interventi che nelle aree nordeuropee trovava esito nella contrapposizione tra città e contesto, Sabaudia presenta evidenti legami di continuità col suo territorio: una continuità storica in quanto ultima fase di un processo di antropizzazione che procede da monte verso valle, secondo cicli e fasi tipiche di ogni processo insediativo del territorio italiano; continuità spaziale dovuta alla maglia di percorsi e nodi territoriali gerarchizzata in fondovalle dalla pedemontana e dall’Appia, e strutturata attraverso il sistema delle miliare; continuità tipologico-processuale in quanto la forma della città è “pertinente” alla propria fase storica, che è quella di una progressiva riutilizzazione delle aree produttive di pianura e di fondovalle, quale recupero di aree anticamente civilizzate, entrate in crisi nel periodo tardo antico.
L’organismo urbano di Sabaudia, come gli altri centri rurali della bonifica, è quindi il portato di percorrenze territoriali. Tanto che Sabaudia può essere considerata un borgo agricolo fortemente gerarchizzato da una posizione (discontinuità orografica) e da una viabilità (raccordo con la viabilità costiera) singolari che le conferiscono il ruolo di nodo territoriale: “Essa non è una città -scriveva Piccinato- ma un centro comunale agricolo: indissolubilmente legato al suo territorio e alla terra che produce”.
Questo legame tra insediamento e territorio risulta evidente dalla gerarchizzazione degli assi urbani secondo un impianto polarizzato dagli edifici di servizio (specialistici) che costituiscono l’origine dei percorsi, mentre nella periferia viene dislocata, a somiglianza degli insediamenti tradizionali, l’edilizia specialistica  antipolare, raggruppata per affinità tipologica.
Si noti infatti come un ruolo centrale assuma il sistema delle percorrenze relativo alla piazza del Comune ed ai suoi edifici specialistici, il quale “annoda” gli assi accentranti di  corso Principe di Piemonte, corso V. Emanuele III e corso V. Emanuele II e come quest’ultimo risulti fondamentale per costituire la continuazione di una delle direttrici territoriali che partono dall’Appia in direzione della costa.  In opposizione all’ideologia dello zoning del moderno nordeuropeo, gli architetti che idearono Sabaudia non disegnarono un piano urbanistico: progettarono l’architettura della città avendo in mente un tessuto di edifici orientato da percorsi; pensarono unitariamente la forma delle costruzioni e l’impianto di di strade e viali.
E il nesso organico tra edificio e tessuto, tra distribuzione interna e percorsi esterni appare evidente nella scelta dei tipi edilizi impiegati, che costituiscono un aggiornamento processuale dei tipi tradizionali. Si veda il Palazzo del Comune, nel quale la struttura dei vani gerarchizzati è organizzata dai percorsi interni su cortile polarizzati dalle scale, o il complesso religioso in piazza Regina Margherita, dove il vano nodale della chiesa è accentrato dalla continuazione di un asse urbano che dal portale raggiunge l’altare, mentre  la “Casa delle suore” è organizzata, come negli impianti conventuali, su un percorso che si diparte dal presbiterio.
Il carattere degli elementi e delle strutture costruttive degli edifici di Sabaudia costituisce, infine, una declinazione moderna dei caratteri propri dell’area plastico-muraria romana. Gli edifici sono, per la gran parte, ottenuti dalla composizione di pareti murarie leggibili come portanti e chiudenti allo stesso tempo, organizzate secondo fasce di stratificazione architettonica tradizionale: basamento, portato spesso fino al marcadavanzale, elevazione e, infine, unificazione e conclusione  modernamente rifuse in unità. Questo dato é più evidente (maggiore massività e organicità) quando le costruzioni sono realmente eseguite in muratura portante, mentre, quando risultano costruite ad ossatura in cemento armato, la leggibilità del carattere degli edifici è resa complessa dalla parziale esposizione del telaio in c.a., rivestito o meno in mattoni, che conferisce agli organismi un certo grado di serialità (si veda, ad esempio l’impiego dei porticati-pilotis).
Se progetto di tessuto e progetto edilizio nascono, nelle città di fondazione dell’Agro Pontino, contemporaneamente, portato di una stessa idea di aggiornamento della nozione ereditata di città, le stesse nozioni fondanti si riscontrano, seppure con qualche ritardo e declinate a volte in maniera più pragmatica, nei progetti per i nuovi insediamenti italiani in aree decentrate come quelli per Cortoghiana in Sardegna, primo banco di prova delle riflessioni progettuali di Saverio Muratori, o per i centri di Segezia, Incoronata e Daunilia  in Puglia, dove il tema della bonifica richiedeva, pur nella permanenza, anche amministrativa, della nozione di “opera pubblica” , la pianificazione di un legame organico col territorio.
Ma gli stessi principi  sono  riscontrabili nei nuovi insediamenti delle colonie italiane del Mediterraneo, sotto l’influenza, anche, di quella spinta all’assimilazione che negli ultimi anni del fascismo verrà sostituita dalla strategia del “diretto dominio”. Come ha notato Giorgio Ciucci in un acuto saggio sull’architettura delle colonie , prima della conquista dell’Etiopia non esisteva una sostanziale differenza tra i criteri di progettazione edilizia e urbanistica adottati per il territorio nazionale e quelli per le colonie e i possedimenti d’oltremare, specie mediterranei. L’impianto di Portolago, cittadina costruita sull’isola di Leros dagli architetti Rodolfo Petracco e Armando Barnabiti, presenta, a scala ridotta, caratteri affini a quelli dell’organismo urbano della contemporanea Sabaudia, con l’asse principale che raggiunge l’area degli edifici specialistici principali (il complesso dell’albergo-cinema-teatro; il municipio e la casa del fascio) e due percorsi a tenaglia che collegano poli secondari (le scuole, la casa del balilla, la dogana, il quartiere operaio). Nonostante l’abbandono e le trasformazioni subite, anche qui le pur modeste costruzioni, alle quali sembra aver giovato la scarsità delle risorse economiche, testimoniano lo sforzo di cogliere un processo di trasformazione in atto . E considerazioni analoghe possono essere fatte  per i tanti insediamenti rurali costruiti negli anni’30, come Campochiaro e Peveragno, costruiti a Rodi dal ’29 al ‘35, o per i villaggi Baracca, Bianchi, Breviglieri, D’Annunzio e i tanti altri costruiti per la colonizzazione della costa tra Derna e Bengasi.
Visti sotto questo pur parziale aspetto, non si può non rilevare come gran parte dei borghi e delle città di fondazione costruiti dagli architetti italiani tra le due guerre siano partecipi di una nuova, tutta moderna specificità mediterranea la quale, se si guarda alle radici organiche (tettoniche e tipologiche) della costruzione e del suo rapporto con l’organismo urbano, oltre le ideologie e le inevitabili diversità areali, sembra per larga parte derivare da un nucleo centrale di caratteri condivisi, la coscienza dei quali nasce e si evidenzia dalla contrapposizione con la serialità e discontinuità del mondo moderno nordeuropeo.
E dalla quale  traggono origine i linguaggi, cioè gli usi personali della lingua, il cui studio strutturale permetterebbe di legare in un inedito percorso, ad esempio, la produzione “muraria” dei pionieri del moderno, testimoniata dal Le Corbusier delle case Errazuris,  De Mandrot, Jaoul; le opere degli architetti “emigrati” verso il sud, come i costruttori della “città bianca” di Tel Aviv, (città di fondazione dove l’idea howardiana che sta alla base del piano di Geddes   genera nel tempo un tessuto denso e mediterraneo, in analogia con alcuni casi italiani, e gli architetti formatisi nel Bauhaus finiscono per interpretare, sul piano dei risultati, una versione muraria della modernità internazionale); quelle di interpreti più recenti del linguaggio plastico e murario su cui si fonda la tradizionale organicità del mondo costruito mediterraneo come Pouillon, Pikionis o Costantinidis.
Illuminando di nuovi significati opere e personaggi che, se interpretati secondo i metodi e i principi delle storiografie ufficiali, non risulterebbero che frammenti dispersi della vicenda  dell’architettura moderna.

1. Cfr. A. Sartoris, Encyclopédie de l’architecture nouvelle, Milano ; nuova ed. 1954 sgg ; vol.I, Ordre et climat méditerranéens, 1948, vol.II, Ordre et climat nordiques, 1957.

2. Cfr.: S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista – mediterraneità e purismo, in: Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, a cura di S.Danesi e L.Patetta, Venezia 1976; M. Fuller, Mediterraneanism,in: Amate Sponde… Presence of Italy in the Architecture of the Islamic Mediterranean, numero monografico di «Environmental Design» n.9-10,  Como 1992; G.Capponi, Motivi di architettura ischiana, in  «Architettura e arti decorative», a.IV, fasc.XI, luglio 1927.

LINGUAGGIO MURARIO CONTEMPORANEO

estratto da G.Strappa, Architettura moderna mediterranea in Italia,

in AA.VV. Arte e cultura del Mediterraneo nel XX secolo, UNESCO, Roma 2004

architettura-muraria

IDENTITA’ ORGANICA

Cancellando di colpo la nozione di area culturale che si era diffusa nella coscienza europea almeno dall’inizio del XIX secolo, le storie ufficiali di architettura moderna (a partire dagli anni ’30 e con rare eccezioni) sembrano raccogliere le vicende degli architetti e degli edifici intorno ad alcuni nodi critici che, comunicati attraverso slogan, individuano movimenti, correnti, tendenze ai quali viene attribuito un carattere internazionale. Ma i quali, nondimeno, riconoscono invariabilmente i loro centri nelle grandi aree urbanizzate nordeuropee e poi nordamericane, delle quali interpretano valori, gusti, aspirazioni: quello che viene comunemente accolto come internazionalismo architettonico e che tenterà  una propria codificazione linguistica nell’International Style costituisce, in altre parole, il prodotto di una ristretta area geografica del mondo, politicamente ed economicamente accentrante, che ha finito per esportare i propri modelli culturali alle aree più periferiche. Generando al contempo, per reazione, almeno nelle regioni di cultura architettonica maggiormente consolidata, una complessa, nuova presa di coscienza delle proprie specificità alle quali si stenta ad assegnare oggi una definita collocazione storiografica e critica.

Il tema dell’architettura moderna a carattere plastico e murario che si è sviluppata ai confini del moderno internazionale, della sua definizione, della sua storia, dei luoghi dove essa è stata progettata e costruita, ma anche del suo significato contemporaneo e della sua attualità operante, costituisce, in questo quadro, un argomento per molti versi insolito e nuovo.

Anche la consapevolezza di un’identità architettonica organica relativa a una vasta area culturale che aveva il proprio centro nel bacino mediterraneo, identificabile attraverso caratteri comuni pur tra prerogative locali ed eredità conflittuali, si è andata formando di recente, proprio con l’insorgere del ruolo culturalmente egemone del Movimento moderno,a conclusione di un processo che, sulla spinta delle trasformazioni economiche e politiche iniziate nel XVII secolo, aveva finito con lo spostare verso nord il centro del mondo relegando il Mediterraneo ai propri margini.

Nell’Europa settentrionale lo sviluppo dell’architettura moderna ha, in realtà, condotto all’estrema conclusione il processo di trasformazione pertinente alle aree di cultura gotica, caratterizzate da sistemi costruttivi leggeri, trasparenti, seriali, portanti e non chiudenti nel tentativo di rompere qualsiasi residuo legame con i principi di stratificazione muraria e organica gerarchizzazione della costruzione.

Walter Gropius espone il tema con didascalica chiarezza: “[Gli architetti moderni] stanno cercando di ottenere mezzi creativi sempre più audaci per vincere la stessa gravità, per raggiungere, attraverso nuove tecniche, sia nell’apparenza, sia nella realtà, una condizione di sospensione al di sopra del suolo.”  La pianta libera risolve, peraltro, il “genetico” conflitto tra la non eliminabile organicità della distribuzione, dove gli spazi si integrano e specializzano in funzione del ruolo che svolgono nell’edificio, e l’istanza alla serialità della struttura, di origine elastico-lignea, del sistema trave-pilastro di dimensioni unificate  in calcestruzzo armato che costituiva il “ritmo sotteso” della costruzione moderna.

La serialità (carattere di un’aggregazione costituita da un insieme di elementi ripetibili e intercambiabili ) costituirà, non a caso, uno dei tre principi posti a fondamento della nuova architettura internazionale: “Nella struttura a scheletro gli elementi di supporto sono normalmente e tipicamente collocati a distanze uguali in modo che le tensioni siano equilibrate. Perciò la maggior parte degli edifici ha un regolare ritmo sotteso, chiaramente visibile prima che sia applicata l’epidermide esterna.”

Le maisons Dom-ino danno forma di manifesto a questo sviluppo seriale ed aperto, disponibile ad ogni soluzione formale delle strutture elastiche il cui involucro indipendente, utilizzando la stessa pianta, può essere costituito tanto dalle chiusure murarie vernacolari dei disegni per il Groupment sur colline del 1916 , quanto da piani e volumi razionali, come nelle case in serie pubblicate da Le Corbusier qualche anno dopo , che utilizzano, in modo sorprendente, un identico impianto distributivo.

Sviluppo che si contrappone, risultando per molti versi complementare, a quello organico formatosi nel mondo delle murature massive sulle rive del Mediterraneo e che, esportato nei paesi nordici in età moderna, col Rinascimento, ha determinato attraversamenti e intersezioni che rendono evidentemente complesso, oggi, rintracciare processi formativi specifici.

Eppure è altrettanto evidente come nelle aree a carattere plastico e murario dell’Europa meridionale, ma anche mediorientali e nordafricane, la transizione al moderno si sia caratterizzata, almeno in parte, per l’esteso impiego di forme massive e opache, derivate da sistemi costruttivi dove la funzione  statica e costruttiva coincideva con quella di formare e chiudere gli spazi, stabilendo una chiara solidarietà, un rapporto di organica necessità, appunto, tra componenti architettoniche . In queste aree, nei primi due decenni del XX secolo, l’innovazione tecnica e tecnologica dovuta all’introduzione di nuovi materiali non ha dato luogo a forme di costruzione radicalmente innovative, ma ha proceduto soprattutto per aggiornamenti sostanzialmente continui e congruenti rinnovamenti. Si può senz’altro affermare che qui la persistenza di una chiara nozione di organismo di matrice plastica e muraria costituisca, soprattutto nel corso degli anni ’30 del ‘900, una scelta cosciente degli architetti che produce, soprattutto in Italia, nel periodo tra le due guerre e negli anni immediatamente successivi, un’architettura organica moderna basata su ideali umanistici, che spesso rinuncia all’individualismo delle avanguardie a favore della ricerca di una lingua comune capace di esprimere, ancora nell’età del calcestruzzo armato e dell’acciaio, un legame sintetico tra distribuzione, struttura, leggibilità.

Una diade di polarizzazioni tra aree, questa, nella quale è possibile individuare caratteri opposti e integrabili (come l’unione di sistemi murari ed elastici), resa complessa dalla confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti della vicenda moderna attraverso quei generici riferimenti alla mediterraneità, alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi (che può appartenere alla macchina come alla casa contadina) che hanno finito per rendere difficile ogni perimetrazione. Diade, tuttavia, riconoscibile attraverso la nozione di continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, tanto la costruzione quanto il linguaggio architettonico inteso, appunto, come declinazione individuale, se non di una lingua, di un insieme, almeno, di caratteri condivisi.

L’attuale declino della sperimentazione sull’architettura a carattere plastico e murario, che coincide con la mancanza di ricerca sulle strutture al tempo stesso portanti e chiudenti, dimostra come il carattere autentico di contemporaneità si identifichi oggi con le doti di leggerezza e trasparenza, con la snellezza coltivata con virtuoso narcisismo, con l’indipendenza dell’involucro dagli spazi contenuti che “libera” la forma dalle regole della costruzione. La massività e i sistemi pesanti, il gesto costruttivo sintetico che risolve, allo stesso tempo, problemi distributivi e costruttivi sembrano, in questo quadro, connotare un’architettura distante, inattuale, premoderna, che attinge ai valori di un passato mitico e svanito, relitti portati a riva dalle ondate revivaliste che si succedono periodicamente in Europa e negli Stati Uniti.

Dato, questo, di un processo il cui esito non è affatto scontato, perché il valore di un’architettura è in stretto, mutevole rapporto con le cose cui si da importanza e significato.

In realtà si è andata gradatamente smarrendo, nella produzione più mediatica (più idonea alla diffusione e quindi più nota),non solo il valore, ma la cognizione stessa del carattere del materiale, la coscienza di come il suo impiego non costituisca la mera componente tecnica confinata all’esecuzione dell’opera, ma il portato di una cultura spesso transnazionale, e una delle cause prime dell’invenzione architettonica :”Dire che il materiale rappresenta il mezzo necessario e sufficiente – scriveva Mario Pagano – per la realizzazione architettonica non basta. Esso è qualche cosa di più. Esiste nel materiale qualche cosa che non è soltanto aspetto esterno ma è tendenza formale inerente il materiale prescelto.”

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hassan-fathy-newgourna2 Hassan Fathy

raj-rewal1 Raj Rewal

cortoghiana_2 Saverio Muratori

jacques-herzog-e-pierre-de-meuron-realizzata-per-un-committente-tedesco-a-tavole-entroterra-di-imperia-nei-primi-anni-ottanta Jacques Herzog e Pierre de Meuron

ungers-dudler2 Oswald Mathias Ungers

 

offices-poincare-bruxelles-21Crepain Binst Architecture

carmassi Massimo Carmassi

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beniamino-servinoBeniamino Servino

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4-prosp-via-di-santa-lucia-291x400 ok-bn-prospetto-su-vico-massimiliano-massimo Matteo Ieva

finocchiaro-casa-a-ragalnaFrancesco Finocchiaro