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LE CITTÀ DI SOLERI

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 27.10.2005

Avevamo dimenticato Paolo Soleri, sepolto nella memoria insieme alle rovine delle utopie, agli anni ’60 dei Bob Dylan e Joan Baez, all’amore universale e ai figli dei fiori. Nell’età del liberismo globale e delle metropoli che si frantumano, dove i grattacieli competono tra loro come mostri meccanici e le architetture sono spot pubblicitari, il messaggio messianico dell’architetto torinese sembra provenire da un mondo remoto, perduto. Eppure Soleri continua a costruire nel deserto dell’Arizona, ancora oggi, a 87 anni, con incrollabile ottimismo, la sua Arcosanti, città ideale a misura d’uomo in simbiosi con le risorse della natura.
Nelle condizioni estreme imposte dall’ambiente, si ostina a voler rifondare la corrispondenza armoniosa tra l’uomo e l’universo interrotta dalle leggi del profitto e da un uso dissennato della tecnica. Una cosmogonia alla quale l’architettura è chiamata a dare forma visibile, espressione simbolica. Come un sacerdote-architetto d’epoche remotissime, Soleri insegna la religione della leanness, dell’uso frugale delle limitate risorse della terra, ad una piccola schiera di devoti volontari che partecipa all’epopea delle sue costruzioni, embrione di un mondo nuovo le cui forme evocano, insieme, solenni riti arcaici e i fumetti di Flash Gordon.
Ci voleva un grande sforzo comune della DARC, dell’Istituto Nazionale per la Grafica, della Casa dell’Architettura e l’ostinazione della curatrice Sandra Suatoni per proporre, con tre mostre coordinate, tutta l’attualità di questo architetto inattuale che ricorda, con la forza del suo messaggio ingenuo e accorato, l’etica perduta della modernità e la crisi della condizione contemporanea.

Un’opera, quella di Soleri, cominciata nel ’55 quando, dopo una breve collaborazione con lo studio di Wright, fonda, nel deserto a nord di Phoenix, Cosanti, centro di produzione artigiana e piccolo nucleo di una possibile città parsimoniosa dove costruisce, felice, campane a vento in ceramica e bronzo, case immerse nella terra e aperte verso il cielo da cupole vetrate, progetta ponti fantastici, dighe abitate, città-fungo, ponendo problemi, come quelli dell’ecologia, che solo dopo molti anni verranno compresi.
Sperimenta l’earthcasting, la sua tecnica di costruzione che utilizza la terra come cassaforma: le volte sono gettate sul terreno nudo e sotto di loro sono scavati spazi abitati formando un piccolo mondo ipogeo dove la luce filtra in fasci sapientemente dosati e l’uomo, tornato nel grembo della madre Terra, si sente al riparo.
Artigiano visionario, affascinato dalle forme organiche prodotte dall’arte del plasmare (l’argilla e la ceramica come il calcestruzzo e il bronzo) immagina il mondo come un’enorme concrezione tettonica dove le forme naturali e quelle che l’uomo modella sembrano nascere da un unico impulso creativo. Cosanti sembra esprimere, anzi, il significato aurorale della costruzione, la materia indistinta, primordiale che diviene materiale attraverso la mano dell’uomo che sagoma, fonde, costruisce, decora.
Arcosanti, la città che comincia ad innalzare negli anni’70 nel deserto di Sonora, è la vera antitesi della metropoli americana: le attività confluiscono e si sovrappongono in pesanti absidi protettive, in grandi spazi liberi che evocano poderose opere dell’antichità destinate, come le basiliche o le terme, ad accogliere il fluire indistinto della vita.
Le tre mostre romane permettono, per la prima volta in modo completo, l’indispensabile sintesi dei molti aspetti dell’opera di Soleri. Perché le sue costruzioni hanno senso solo se si afferra il grande disegno che, comprendendole, le trascende e spiega. Come pure le sue ermetiche dottrine filosofiche acquistano valore solo dal contatto con i potenti strati di disegni sui quali sono cresciute, studi dalla straordinaria forza grafica, rappresentazioni di città gigantesche, temerarie sezioni come formicai d’iperbolica densità abitativa, perdute nel vuoto di deserti, a ridosso di oceani: Babelnoah, Stonebow, Archeam, Theology.
Le mostre, infine, hanno il merito non secondario di riportare l’attenzione su quella quasi sconosciuta Fabbrica di Ceramica Artistica Solimene (vincolata proprio in questi giorni) che Soleri costruì negli anni ’50 a Vietri sul Mare, dove grandi coni rovesciati rivestiti di ceramiche smaltate, affacciati sulla costiera amalfitana, ricordano il suo apprendistato artistico e le radici solari, plastiche e mediterranee del suo sogno americano.

PAESAGGI DI RECINTI NELL’ARCHITETTURA ISLAMICA

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tradotto da:

G. Strappa, Enclosures in islamic architecture, in “Environmental Design” 2011, ISSN 0393-5183

Il processo formativo dello spazio per il culto nasce, nelle aree islamiche, dall’iterazione di semplici azioni elementari: il fedele entra nel recinto, lo attraversa procedendo nella direzione della qibla, si ferma, unito agli altri fedeli, per la preghiera davanti al mirhab dopo aver sostato presso la fontana per compiere le abluzioni.
La struttura spaziale della moschea, elemento nodale tipico di ogni paesaggio urbano islamico, è chiara nella coscienza del fedele quanto in quella dell’artefice, fedele egli stesso, prima che egli la costruisca erigendo quattro elementari pareti perimetrali in pietra o mattoni e stendendo una semplice copertura di rami, su una parte dello spazio protetto, sostenuta da tronchi d’albero che si trasformeranno, nel tempo, in  colonne di pietra o pilastri in muratura, per proteggere l’assemblea dei devoti al Profeta.
La moschea non è, per l’Islam, la casa di Dio ma, soprattutto, luogo di riunione per la preghiera: nella mente del costruttore l’idea di recinto che racchiude l’assemblea dei fedeli, il moto e le sosta  generano lo spazio e la disposizione dei pochi elementi che lo costruiscono.
L’ordine dei percorsi rituali, movimenti codificati attraverso l’iterazione e divenuti regola, coincide con l’ordine degli elementi architettonici, legati dal ricordo delle molte moschee viste e utilizzate  attraverso uno svolgimento continuo che risale fino alla Kaaba originaria, fino alla casa di Maometto .
L’idea di recinto (complementare a quella di copertura) e la nozione delle leggi che lo governano, fa parte di una visione unitaria, spontanea ed intuitiva del mondo, secondo una percezione “naturale” dello spazio che appartiene alla concezione mitica  dell’Universo tipica del mondo arcaico.
Il legame che unisce intimamente funzione rituale (la vita della moschea), memoria e struttura, che si traduce in significato e rappresentazione-espressione, distillato geometricamente canonico della ripetizione di innumerevoli costruzioni e del loro uso, rappresenta la sostanza del tipo, declinato in forme diversissime in tutte le aree islamizzate eppure riproducente gli stessi gesti antropici e tettonici originari.
In realtà è evidente, qualora si raffrontino gli esiti di diversi processi formativi di edifici sacri, come il  concetto originario di appropriazione rituale dello spazio appartenga  ad aree culturalmente molte diverse: come esso sia universale. Lo dimostra lo sviluppo dell’architettura civile e religiosa  presso  aree civili lontane tra loro nel tempo e nello spazio che hanno coltivato in modo   continuo una cultura di recinti.
Ma proprio gli accelerati processi tipologici dell’edilizia specialistica nel mondo islamico, dove la prima forma di recinto-santuario coincide col  semplice rito  di perimetrare lo spazio di preghiera dei primi fedeli del Profeta, dimostrano in modo più evidente di altri l’universalità dei gesti costruttivi originari e degli elementi tettonici primari che da essi derivano, ma anche il carattere specifico delle individuazioni. E proprio sotto questo aspetto una specifica idea di recinto, tipica delle aree islamiche, pur con le infinite eccezioni e precauzioni che un’ipotesi del genere richiede, sembrerebbe confermare i tre criteri secondo i quali è possibile, secondo Oleg Grabar (1), definire i confini di un’arte propriamente islamica (altrimenti non perimetrabile arealmente o storicamente): essa spiega, secondo nozioni generali, un elevato numero di fenomeni e documenti singoli; ha significato sia in termini di singolo monumento che di più generale contesto storico; una volta accettata, produce la fertile potenzialità di condurre ad ulteriori spiegazioni e ricerche , dimostrando il carattere di «innesto», dell’architettura islamica, di principi tipici e condivisi in contesti specifici: in Spagna, nell’Africa settentrionale, in India  .

Il carattere assolutamente seriale di elementi, sistemi e organismo sembra porsi come fase iniziale di un processo di specializzazione che terminerà nell’assoluta organicità degli impianti centrali ottomani, esito finale, anche, ma non solo, di un progressivo incremento dei fenomeni di sincretismo ed osmosi con il mondo bizantino. La struttura seriale continua  sembra essere, dunque,  uno dei caratteri distintivi che le civiltà islamiche hanno ereditato dalle culture arabe, le cui espressioni artistiche rifuggono dalla gerarchizzazione organica di altre aree culturali: non solo l’architettura delle origini, ma anche la primitiva decorazione araba è fondamentalmente continua e seriale, basata su  pattern   iterativi, intersecantisi in serie potenzialmente infinite, a differenza della decorazione occidentale che impiega sovente strutture organiche con una gerarchia e finalizzazione dei partiti.
La forma originale stessa   del santuario della Mecca, la Kaaba, consisteva in un semplice recinto rettangolare di pietra a secco, poco più alto di un uomo, che racchiudeva la fontana sacra. Era stato prodotto da una popolazione nomade e seminomade, che  non aveva sperimentato, se non  forme embrionali, i principi delle costruzioni stabili. Tanto che, nella ricostruzione del  608 della Kaaba, eseguita con una tecnica muraria a corsi alternati di pietra e legno, sarebbe stato utilizzato per i lavori un carpentiere o capomastro straniero, probabilmente abissino: se la tradizione risultasse vera  la prima  forma di tecnica costruttiva evoluta e stabile  impiegata dagli arabi coinciderebbe con la prima sperimentazione di recinto monumentale, destinata in seguito ad influenzare l’intero svolgimento dell’architettura islamica.
Anche la casa che Maometto costruì a Medina dopo l’ègira  era un semplice recinto in mattoni di argilla cruda  , con un porticato di tronchi di palma sul fianco sud e le stanze per le mogli del profeta sul fianco est, a conferma dell’origine comune dall’edilizia di base dei sistemi tettonici impiegati nell’edilizia specialistica.
Cesare Brandi (5) osserva come la nozione di recinto sacro, nella sua forma porticata a pianta quadrata a somiglianza della casa di Maometto, rappresenti la costante delle moschee islamiche, impiantate, dall’origine fino ai grandi organismi ottomani, su una geometria rettangolare o quadrata  comprendente un grande cortile  (sahn).
Il recinto dell’architettura islamica è ritualmente  gerarchizzato dalle indicazioni della seconda sura del Corano  che, indicando la direzione (qibla) della posizione dei fedeli verso la Kaaba, fissa implicitamente la posizione del mirhab  (nicchia nel muro perimetrale verso la quale ci si rivolge per la preghiera )  nella direzione  di percorrenza e in posizione opposta rispetto all’ingresso del recinto. Viene quindi indicata un’assialità la cui funzione progressivamente accentrante  e gerarchizzante può essere ritenuta il tema centrale, seppure non unico, del processo ciclico di mutazione del tipo: da un’ origine assolutamente seriale (si vedano i primi tipi costituiti da un semplice cortile e da un recinto coperto per l’assemblea (haram) con appoggi modulari in legno di palma, come a Bassora, o costituiti da colonne, come a Kufa) verso esiti di progressiva organicità.
Queste mutazioni delle forme di recinto da puro sistema tettonico elementare alle forme complesse dell’organismo che preludono agli spazi voltati e si trasformano nello spazio nodale attraverso la copertura della corte aperta o la gerarchizzazione progressiva di campate seriali, è riscontrabile soprattutto in culture sincretiche  come quella turco-islamica che, per le vicende storiche che ne hanno condizionato la formazione (dall’originale nomadismo uralo-altaico ai contatti con la cultura iranica, alle contaminazioni col mondo bizantino)  hanno subito i più intensi processi di sperimentazione e adattamento a condizioni ambientali diverse . Attraverso il contatto con aree culturali consolidate, causato da migrazioni  successive, i turchi hanno acquisito, dalla primitiva nozione di accampamento mobile e precario  in età preislamica, legato a forme embrionali di recinzioni e materiali provvisori come tessuti e pelli, l’idea stabile di recinto  delle strutture anatoliche, dove si individuano i tipi che preludono agli organismi costruiti da grandi architetti come Sinan.   La coscienza della simbolicità delle forme elementari impiegate, e anche della loro carica iconica, è raggiunta attraverso un processo contraddittorio di transizione dai tentativi di controllo geometrico e canonizzazione degli organismi iniziali spontanei, al disegno che tende all’esattezza critica degli  organismi maturi.
I processi tipologici  attraverso i quali si può individuare, nell’architettura turco-islamica, il passaggio da un’idea primordiale e spontanea di recinto ad un’idea matura ed  organica, sono sostanzialmente riferibili alla  moschea, al caravanserraglio e  alla medresa.
Il recinto delle origini e quello ereditato dalla tradizione dei santuari islamici doveva necessariamente essere adattato dai turchi, al loro arrivo in Anatolia, attraverso coperture, poiché essi  occuparono in un primo tempo  la parte centrale dell’altopiano,  meno abitata e più fredda. La confluenza dialettica della copertura  come struttura contenente il nodo dell’edifico e la memoria della corte aperta (conservata attraverso la “traccia” della lanterna aperta aeroilluminante), costituisce una delle chiavi di interpretazioni più fertili dell’esemplare  processo tipologico dell’edilizia specialistica turca in Asia Minore.
La copertura del recinto per la preghiera avviene attraverso forme inizialmente  spontanee, riassumibile in tre  principali filoni tipologici . Per comprenderne il senso occorre, come nella lettura di qualsiasi tipo edilizio,  ricostruire la logica del processo formativo operando attraverso comparazioni sincroniche all’interno di fasi omogenee che permettono di individuare e classificare differenti tipi  e ricostruirne, per comparazione diacronica, lo sviluppo.
Accenniamo soltanto al filone dei tipi edilizi, impiegati soprattutto per le piccole moschee, che conserva, immediata, la memoria del recinto dei tipi matrice a corte aperta. Moschee come quella di Orhan Bey  e Yldrim a Bursa  o quelle di Murad Pascià e Atik Alì ad Istanbul riportano la matrice del  tipo iranico individuato dalla Mesjid al Cuma di Isfahan con l’introduzione della copertura a cupola (simbolo della sfera celeste ad indicare uno spazio virtualmente aperto) in corrispondenza dello spazio libero.
Il filone tipologico delle grandi moschee (Ulu Çami) sviluppa invece, attraverso passaggi di progressiva organicità, l’impianto del recinto a partire da una semplice parete muraria  perimetrale  contenente la serie indifferenziata dei pilastri che sostengono la copertura: il tipo matrice indica come fosse sufficiente, per il culto, individuare  e sacralizzare una porzione  di territorio attraverso il recinto, e orientare questa struttura elementare in direzione della Mecca. L’interno pilastrato è uno spazio ritmico, continuo ed indifferenziato, assolutamente seriale. Eppure, anche nelle sue forme iniziali, dove lo spazio sembra isomorfo, la moschea seljukide  contiene l’indicazione embrionale delle assialità spontanee generate dalla geometrizzazione dei percorsi di utilizzazione , che si ritroveranno impiegate criticamente nei tipi maturi, attraverso l’uso di campate sempre dispari nella direzione principale del mirhab    che permettono di individuare, in corrispondenza dell’ingresso, un asse  potenzialmente accentrante, indicato attraverso l’allusione al nodo della costruzione costituito da una campata singolare al centro dell’edificio (a volte lasciata, in una o più campate, aperta, eredità dell’originale spazio libero della corte dei tipi primitivi.
Le eccezioni in questo senso sono rarissime: anche le grandi strutture all’origine dell’architettura islamica (come la Grande Moschea di Samarra dell’VIII secolo) dove la copertura era sostenuta da una serie fittissima di pilastri, apparentemente senza  un ordine che non fosse quello della pura ripetizione, presentano campate dispari per consentire la percorribilità dell’asse centrale che unisce l’ingresso al mirhab, necessariamente collocato al centro della parete di fondo della sala coperta. Quando le campate della struttura sono pari, esse vengono unificate in corrispondenza dello spazio nodale da raddoppi modulari, come nella moschea Huand Hatun a Kayseri (dove nella formazione dei ritmi delle campate interferisce l’intersezione dell’area del mausoleo-medresa). Una delle eccezioni più rimarchevoli è costituito dalla misteriosa Grande Moschea di Urfa che presenta tre serie di dodici campate parallele al muro del mirhab, in modo tale che l’asse di specularità, coincidente con l’asse della porta d’ingresso al recinto antistante, incontra la serie dei pilastri centrali. Il mirhab risulta così spostato nelle campate immediatamente adiacenti. Anche la serie di pilastri che formano il porticato anteriore, benché indipendente dalla struttura interna, presenta un numero di campate pari (14). Una delle spiegazioni potrebbe essere ricercata nei condizionamenti indotti dall’edificio preesistente sulle cui rovine la moschea di Urfa è stata edificata.
Diverso è il caso, più frequente, di aperture non in asse con il percorso teorico rettilineo di avvicinamento al mirhab, ma su direzioni individuate da campate nodali, per il quale si può parlare di semplice «imperfezione» dovuta spesso a ragioni funzionali o costruttive . In alcuni casi, tuttavia, l’individuazione geometrica non diretta del percorso è dovuta alla complessità della variante del tipo base che l’edificio individua, dovuta a fattori esterni (orografici, preesistenze ecc.) o semplicemente alla fase di definizione o assestamento del tipo, soprattutto nella prima fase di transizione, con una relativa indipendenza degli elementi. E’ il caso della Grande Moschea di Kiziltepe, dove l’asse del recinto non coincide con quello dell’ingresso alla sala di preghiera (ma è comunque inserito all’interno dei percorsi di avvicinamento ai mirhab esterni), o della  Grande Moschea di Silvan, dove due ingressi laterali conducono indirettamente allo spazio nodale,o, infine,dell’anomala Grande Moschea di Mardin, dove lo spazio interno della grande sala di preghiera viene insolitamente gerarchizzato  dal nodo asimmetrico della cupola del mirhab, la quale ricostruisce una forma di organismo autonomo basato su tre percorsi paralleli (del quale quello centrale di percorrenza principale) e un embrionale organismo periferico imperniato sull’asse  accesso-mirhab. Queste varianti anomale, fortemente divergenti non solo dai caratteri mofologici generali, ma dalle stesse leggi formative del tipo, vanno interpretate, ritengo, come patrimonio di indicazioni sulla formazione dei tipi proprio in quanto documenti di casi particolari ed eccezioni di un processo generale.
Normalmente la dimensione ricorrente delle campate, che permarrà anche in seguito, impiegata in multipli per i vani gerarchizzati,  corrisponde a quella della cellula elementare (con incremento negli organismi maggiori e decremento per le piccole moschee)  che ha misure analoghe a quelle in uso nel mondo occidentale, ma con una costanza maggiore che nelle corrispondenti strutture specialistiche.
Una delle  prime strutture dove è riconoscibile un carattere marcatamente seriale, ancora con pilastri in legno, che individua il tipo matrice, è costituita dalla moschea di Eshrefoghlu a Beyshehir, a sette campate parallele, delle quali quella centrale contiene l’asse di percorribilità dall’ingresso al mirhab : al centro delle nove campate longitudinali la copertura soppressa un’intera campata è lasciata a cielo aperto che indica, insieme alla cupola del mirhab, l’asse accentrante.
L’ Ulu Çami (grande moschea)  di Sivas,   è un chiaro esempio di sviluppo processuale di questo primitivo tipo edilizio,  costituita da un perimetro murario che contiene la serie ritmica dei pilastri, ma anche una forma embrionale di gerarchizzazione degli spazi che va riconosciuta nell’ordine della disposizione delle campate (11 in senso trasversale e 6 in senso longitudinale) che permette la percorribilità secondo l’asse nodale passante attraverso i due ingressi alla corte esterna ed all’interno dell’edificio, confermata dalla presenza di due ulteriori mirhab sulla facciata verso la corte esterna. Considerazioni analoghe si possono fare per altre grandi moschee del XII secolo in Anatolia, dove il tipo, tuttavia, viene individuato con rilevanti varianti, come nel caso, notissimo, di Ala Al-Din a Konya.
La modificazione del tipo base più ricorrente consiste nell’accentuazione simbolica di una campata centrale all’interno del sistema strutturale continuo, che gerarchizzando gli elementi circostanti, contribuisce ad una  progressiva specializzazione altre campate. Tipica in questo senso è la Grande Moschea di Kaisery (1140) dove compare con chiarezza  l’indicazione dell’asse nodale all’interno delle pilastrature divise in campate dispari, individuato da due cupole delle quali una, centrale, è aperta (secondo un tipo individuato, in scala diversa, anche nelle moschee di Kölök sempre a Kayseri), quasi una versione ridotta del tipo della  moschea a corte con vasca al centro di Harput (1156-57)   che a sua volta può essere considerata anello di transizione tra il tipo originale di moschea costituita da uno spazio chiuso distinto  dal  cortile per la vasca delle abluzioni e il tipo edilizio chiuso con vano centrale aperto, che fonde insieme i due elementi originari.
Anche se in modo non evidentissimo, alcune forme di sviluppo del tipo base testimoniano , oltre all’indicazione dell’asse nodale attraverso la consueta doppia cupola  in corrispondenza della percorribilità centrale terminante nella nicchia del mirhab  principale, la formazione  di due assi di percorribilità laterali, in direzione parallela, che terminano in due nicchie minori.  Considerazioni analoghe possono essere fatte a proposito di altri esempi altrettanto indicativi appartenenti allo stesso filone tipologico, come l’ Ulu Çami di Develi, vicino Kayseri (1281) dove  in corrispondenza della cupola del mirhab, l’intersezione tra asse di percorribilità centrale (segnato dall’importante portale e dall’apertura aeroilluminante) e asse secondario  individua una sorta di embrionale transetto, leggibile attraverso la disposizione trasversale delle volte, opposte alla serialità di tutte le altre disposte in senso longitudinale.
Terzo filone tipologico  che conserva l’impianto a recinto delle forme islamiche originarie  è quello della  moschea a corte aperta, diffuso nelle aree costiere, dove le condizioni climatiche consentivano l’impiego di spazi aperti, sul tipo delle moschee arabe, egiziane  o siriache (si veda la Grande Moschea di Damasco  dell’ inizio dell’VIII secolo che individua un tipo matrice le cui derivazioni sono diffuse in tutto il mondo islamizzato e che testimonia, attraverso il reimpiego di un precedente temenos  pagano, la particolare accezione islamica della nozione di recinto. . Questo tipo trova una fase di transizione e turchizzazione nella moschea mamelucca di Baybars al Cairo (1266-69).

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 Schema del processo formativo delle moschee nella Turchia selgiuchide e ottomana   (da G.Strappa,  Unità dell’organismo architettonico,  Bari  1995)

La moschea di  Isa Bek, a Seljuk, (1374) vicino all’antica Efeso, che pure interpreta in modo esemplare il tipo in esame, mostra come il processo tipologico non coincida con uno svolgimento evolutivo lineare. Costruita in condizioni  di reimpiego delle rovine vastissime di Efeso, la moschea di Isa Bek  non riutilizza solo i materiali, ma anche il lascito tipologico dei grandi spazi pubblici del mondo greco-romano: nel XIV secolo, quando l’opera fu edificata,  infatti, le strutture urbane antiche dovevano essere ancora perfettamente leggibili.  Il tipo base individuato dalla moschea di Damasco è qui riproposto secondo un ordine geometrico che controlla i rapporti tra gli elementi con classica evidenza (il porticato a campate dispari sull’asse nodale e pari su quello secondario che  reimpiega il tipo del peristilio riutilizzando colonne antiche, l’esattezza geometrica nel rappresentare la nodalità dello spazio del mirhab  indicata dalla doppia cupola , l’asse di percorrenza secondario chiaramente segnato dai due minareti) mediato dagli antecedenti della Grande Moschea di Diyarbekir (prima moschea turca in Anatolia, costruita nel 1091-92), e di altre moschee del XII secolo come le grande moschee di Mardin,Urfa, Kiziltepe, , alla quale abbiamo già e seguito dall’esempio, più articolato e complesso, anche se di minore scala, della Grande Moschea di Manisa.
Nei tipi impiegati alla fine del XIV secolo, quando alla relativa unità delle strutture amministrative seljukidi succede la formazione di sedici principati  autonomi che sviluppano, all’interno della stessa koiné culturale, forme architettoniche proprie, in condizioni socio politiche mutate ed in più intenso rapporto sincretico con gli organismi bizantini, lo spazio aperto del recinto originale viene ridotto all’indicazione dell’apertura aeroilluminante sulla cupola in posizione nodale (con la coincidenza di apertura e nodo) e, spesso, dalla presenza corrispondente della vasca per le  abluzioni rituali (shadirvan). Esempi chiari che individuano il tipo base sono l’Ulu Çami di Bursa (1396-1400) e la moschee di Eski Çami ad Edirne (14O3-1414)   dove la tradizionale struttura seriale delle campate ( dispari secondo l’asse di percorribilità principale, indifferentemente dispari o pari nell’altro senso) viene indicata non attraverso un sistema di coperture continue come negli antecedenti seljukidi, ma reso discreto  da  una struttura seriale di cupole (struttura seriale composta di elementi organici). In entrambe le moschee la nodalità della cupola aperta è indicata molto più chiaramente che negli esempi seljukidi dall’intersezione degli assi principali,  coincidenti con  la direzione della qibla , e di quelli secondari indicati da due ingressi laterali. Il carattere del materiale e delle soluzioni costruttive impiegate che definiscono gli elementi dell’organismo sono di carattere plastico-murario, e pur indicando il passaggio agli organismi  fortemente organici della fase ottomana, chiaramente leggibile attraverso le articolazioni degli  spazi espressi dal sistema arco-cupola, mantengono ancora, tuttavia, nei piedritti il carattere seriale delle strutture di derivazione elastico-lignea  degli edifici seljukidi, .
Un processo affine di progressiva specializzazione e organizzazione degli elementi a partire dai tipi iniziali seriali  legati agli elementi tettonici originali  può essere letto nello sviluppo dei caravanserragli,,  strutture di recinti tipiche del paesaggio islamico legate a  istituzioni di carattere filantropico . Queste strutture denunciavano chiaramente il riferimento religioso (sempre presente nelle istituzioni pubbliche islamiche) attraverso la presenza in posizione nodale,rispetto alla percorribilità dell’edificio, della majid (piccola moschea)   , mentre nei vani seriali intorno allo spazio della corte centrale erano distribuiti i servizi gratuiti forniti ai viaggiatori (alloggi, bagni ecc.) .
Anche il processo di specializzazione delle strutture del caravanserraglio parte da uno spazio semplicemente perimetrato: il recinto, che racchiude  una zona sicura e difesa, come  semplice protezione da un territorio ostile esterno.
Il senso delle strutture più antiche è  particolarmente leggibile all’esterno,  perché gli elementi costituenti vi compaiono in modo didascalicamente chiaro: l’assenza di riferimenti (eccetto l’accesso) al territorio circostante ne determinano il carattere di recinto assoluto, con la parete muraria, spesso completamente priva di aperture, continua sul  perimetro dove spesso i contrafforti (nodi tettonici) riportano l’intersezione con le strutture interne. Tutta l’attenzione simbolica, la volontà espressiva dei costruttori, si concentra nel  portale, luogo dello scambio tra interno ed esterno. Non a caso sulla parete muraria d’ingresso, dove anche le sottili feritoie presenti a volte sulle altre pareti scompaiono per enfatizzarne il ruolo,  il portale utilizza, fin dalle lontane matrici centro asiatiche, gli stessi elementi  compositivi delle grandi moschee.
Il tipo base maturo, individuato dai sultan han, degli organismi di carattere monumentale, ricorrenti in tutta l’Anatolia, è costituito da due parti distinte: il recinto completamente coperto e pilastrato per l’inverno, la corte aperta della parte estiva, perimetrata dai vani seriali a volte gerarchizzati dalla funzione. La parte centrale della a corte, che fornisce una leggibilità interna immediata della struttura,  è geometricamente governata da un rigido ordine di simmetria, mentre i vani laterali obbediscono pragmaticamente alle esigenze delle diverse specializzazioni (rimmessaggio degli animali, deposito delle merci, alloggi ecc.). La divisione dei due recinti (estivo e invernale) mostra, anche qui come nella moschea, come gli assi antinodali che perimetrano il recinto siano assi dividenti, che separano strutture dotate di proprie leggi autonome, unificate dall’asse accentrante di percorrenza principale al quale i diversi sistemi (distributivo e statico) vengono riferiti. Nelle strutture maggiori gli alloggi per i viaggiatori vengono situati   al piano superiore, con il percorso porticato che assume  la stessa funzione distributrice svolta in un tessuto urbano (declinazione islamica di altri tipi specialistici organizzati su impianto  a corte come i conventi).
Un’ evidente  esemplificazione del tipo è costituita dal Sultan Han sulla carovaniera Konya-Aksaray (1229), o  dal Sari Han presso Ürgüp, con la parte invernale ed estiva impiantate sullo stesso asse di percorrenza, mentre il tipo a semplice corte aperta circondato da un doppio porticato può essere esemplificato dall’Edvir Han (1210-19) sulla carovaniera Antalia-Korkuteli.
A conferma della durata e necessità del tipo, le strutture dei caravanserragli continuarono a dimostrare capacità di adattamento anche nel periodo di passaggio alla modernità nella prima fase di diffusione dell’automobile come stazioni di corriere e sosta lungo le antiche carovaniere divenute strade carrabili. La qual cosa, peraltro, fa riflettere su come il carattere delle  trasformazioni indotte nel paesaggio islamico dalla condizione moderna sia più legato alla quantità che alla qualità delle innovazioni: un numero limitato di automobili può essere ospitato nelle stesse strutture  utilizzate per i trasporti animali, la motorizzazione di massa richiede, al contrario, nuove specializzazioni legate a tempi accelerati. Nel primo caso permane l’esigenza della perimetrazione, nel secondo insorge la necessità dell’apertura finalizzata al flusso di traffico
I tipi edilizi legati alla medresa, infine, costituisce il terzo tipo specialistico nel quale  è immediatamente leggibile un processo di trasformazione che,  pur presentando  uno sviluppo tutt’altro che lineare,  prende avvio  da matrici  semplici e seriali per definire tipi progressivamente complessi e organici.
Le medrese, in origine solo scuole teologiche, si trasformarono presto in istituzioni paragonabili (e antecedenti) alle nostre università (pure basate su impianti a recinto di derivazione monastica), impiegate anche, mantenendo impianto identico, come ospedali per l’insegnamento della medicina.  Le matrici iraniche, dalle quali i tipi turco seljukidi derivano, sono chiarissime, individuando l’impianto di un recinto di vani seriali (celle degli scolari) nel quale l’intersezione tra due assialità (principale e secondaria) generano sul perimetro spazi nodali fortemente gerarchizzati e chiaramente riconoscibili: gli iwan, vani aperti su altezza doppia altezza rilevati spesso da una cornice rettangolare ornamentale. Questo tipo di organismo a quattro iwan , in realtà latente nell’edilizia specialistica islamica legata a qualsiasi funzione, trova una definizione esemplare proprio nella medresa, dove l’impianto spaziale, i sistemi di percorrenza e statico, l’ordine seriale dei vani, coincide con le necessità funzionali che richiedevano un’organizzazione distributiva per le quattro scuole coraniche principali .
Sebbene nell’originale medresa iranica non sia quasi riscontrabile alcuna gerarchizzazione delle celle, secondo una tradizione peraltro diffusa  in gran parte del mondo islamico, in Iran, Egitto, Turchia, tuttavia, attraverso un’evoluzione non lineare, i vani antinodali tendono ad una progressiva gerarchizzazione. Questi vani, collocati in corrispondenza dell’intersezione dei percorsi porticati che perimetrano la corte, si pongono come nodi alla scala  minore degli elementi che costituiscono l’angolo degli edifici, favoriti in questo dal costituire un’anomalia distributiva per la difficoltà dell’accesso.
Esempi del XIII secolo che individuano il tipo base a corte aperta e impianto a quattro iwan, sono riscontrabili nella  medresa-ospedale di Keykavus, (1217) e nella Gök  Medrese (1271 (dove i vani sui lati dell’iwan principale risultano fortemente gerarchizzati) entrambe  a Sivas,  e nella Çifte Minareli ad Erzurum (1253) dove l’assialità nodale è rafforzata dalla presenza, in corrispondenza dell’iwan centrale, del mausoleo del fondatore.
Esempi quasi sincronici dell’individuazione delle due varianti a corte e con copertura a cupola dello spazio centrale si trovano a Konya, vero laboratorio tipologico dell’architettura turca del XIII secolo. La Sirçali Medrese  (1243) è costruita su corte aperta con vani rigidamente seriali lungo i fianchi longitudinali porticati e vani antinodali sul lato opposto all’ingresso fortemente gerarchizzati nelle dimensioni e nel tipo di copertura. Un edificio costruito a distanza di pochi anni ,la Ince Minareli Medrese (1258), mantiene apparentemente impianto simile, ma introduce la copertura a cupola della corte, che diviene spazio nodale, con l’ovvia variante dell’eliminazione del piccolo portico, divenuto inutile, ma mantenendo il relativo percorso perimetrale che conduce ai vani antinodali gerarchizzati. L’operazione di sovrapposizione quasi meccanica della cupola su un impianto consolidato è dimostrata dall’inedito tipo raccordo dell’imposta con i piedritti , dove la cupola è semplicemente sorretta da grandi raccordi a ventaglio.
A riprova della sostanziale continuità della nozione di recinto in età ottomana, ed anche della ciclicità del processo di trasformazione da strutture seriali alle  organiche, i complessi Fatih e Sulemaniye al Cairo testimoniano una fase in cui gli elementi antinodali tendono di nuovo a perdere carattere organico (a ridurre la specializzazione) per riacquistare la serialità necessaria al raccordo di ogni singolo recinto all’interno di un organismo di scala maggiore.
Nel complesso di Sulemaniye la tendenza degli antinodi a divenire centro di nuova nodalità nella composizione dei soprammoduli a partire da un recinto di base è chiaramente leggibile nell’unione della Sani e Evvel Medrese secondo due assi antinodali che coincidono in un nuovo asse nodale: i due antinodi esterni al complessi si specializzano in funzione del nuovo ruolo (assialità nodale) di porta del complesso, cosa che non avviene nell’unione, apparentemente simile, delle medrese Salis e Rabi. La ragione va cercata nell’esame delle assialità a scala maggiore: mentre le prime risultano strutturate con l’asse antinodale comune sul percorso dell’ingresso al recinto della moschea e dell’ingresso laterale alla moschea stessa, i secondi sono in posizione periferica rispetto alla polarità innescata dalla moschea.

NOTE

1. Oleg Grabar, The Formation of Islamic Art, New Haven, London, 1973, pag.17.

2. Si noti come lo stesso accada per gran parte della musica araba, dove non viene indicato entro regole convenzionali l’inizio e la fine del tema:  un brano tipico di musica araba potrebbe avere conclusione in qualsiasi momento, come accade per la decorazione. Anche nella letteratura ricorrono, spesso, gli stessi principi di continuità:  le Mille e una notte  ha la struttura narrativa di un recinto, una grande favola-cornice (la storia di Shahazad) che racchiude una quantità potenzialmente infinita  di racconti.

3.  Il capomastro proveniva da una nave naufragata della quale venne riutilizzato il legname. La tecnica impiegata, probabilmente troppo evoluta per essere autoctona, confermerebbe la tradizione storica. Creswell avanza l’ipotesi che provenisse dall’Abissinia, dove la tecnica impiegata per la ricostruzione della Kaaba era largamente in uso. (V.  K.A.C. Creswell, L’architettura islamica delle origini, Milano 1966, pag.11 e segg.).

4. Da notare come Maometto non solo non avesse dato indicazioni sul miglioramento della semplice costruzione, ma non avesse alcuna disposizione verso le forme stabili di insediamento: “Un edificio -affermava- é la più vana delle imprese che possano divorare la ricchezza di un Credente” (Ibn Sa’d, Tabaqat, cit. in Creswell, Op.cit., pag.14).

5. Cfr. Cesare Brandi, La casa di Maometto, in : Struttura e architettura, Torino 1967.

6. La direzione rituale degli organismi religiosi stabilisce un principio di identità molto profondo per l’area islamica: Maometto, prima di averne stabilito il senso, si rivolgeva verso Gerusalemme come centro del mondo,  ad indicare il desiderio di stabilire un riferimento comune alle religioni degli ebrei e degli arabi; il cambiamento indica la formazione di una cultura autonoma e riconoscibile: “Noi ti vediamo volgere il viso – si legge nel Corano – verso il cielo con incertezza: però ti rivolgeremo ora verso una qibla che ti piacerà; volgi quindi il tuo viso verso il tempio sacro e dovunque voi siate volgerete il viso verso quel luogo. …. Anche se tu facessi a quelli cui fu dato il libro ogni specie di miracoli, essi non adotteranno la tua qibla, nè tu adotterai la loro, nè gli uni adotteranno la qibla degli altri;…” (Corano, Sura della vacca, II , 139 e 140.)

7. Cfr. Claude Cahen, Pre-Ottoman Turkey, London 1968.

8. Le cronache bizantine raccontano di ambasciate mandate presso i turchi, il cui re aveva una grande tenda montata su ruote e riccamente adornata con tappeti di seta e ori (Historici graeci minores, Lipsia 1871, citato in : Alessio Bombaci, La letteratura turca, Firenze 1968, pag.23). Le prime notizie della civiltà turca sono di fonte cinese e risalgono al III secolo a.C. e tuttavia, a dimostrazione della fragilità della civiltà originale, il termine “turco” compare in testi cinesi e bizantini, come quello al quale si è accennato, solo nel VI secolo d.C.

9. Nella stessa lingua turca antica, dopo  l’esperienza traumatica del contatto con gli insediamenti murati , la parola “mattone” identificava il materiale edilizio e la città.

10. La civiltà dei turchi in Anatolia è indicata come quella  dei Seljukidi di Rum, cioè di Roma, ad indicare la distinzione tra l’influenza occidentale degli stanziamenti in area  greco-bizantina, e la cultura sincretica sviluppata dai Grandi Seljukidi in area iranica.(V. Claude Cahen, Op.cit., pag. 55 e segg.)

11. Per un’analisi degli elementi componenti lo spazio rituale della moschea turca si veda: Mahmut Akok, Architecture intérieure des mosquées turques construites entre les XIIe et XVIIe siecles, negli atti del First International  Congress of Turkish Art, Ankara 1961.

12. Sulla datazione, tuttavia, gli storici non sono concordi. La moschea è datata, ad esempio, all’XI secolo dall’Ünsal, che la ritiene essere la più antica moschea anatolica di questo tipo,  ed al 1197  dall’Asnalapa, in base ad un iscrizione che si riferisce al fondatore dell’opera. Qualunque sia la datazione reale, sotto il profilo tipologico non c’è dubbio, tuttavia, che l’Ulu Çami di Sivas individui in modo esemplare il tipo base del filone, mentre edifici ad esso riferibili, anche di grande imporanza artistica, come la moschea di Ala al-Din a Konya, non ne esprimono in modo altrettanto evidente i caratteri fondamentali, spesso per le complesse vicende costruttive o per le funzioni (mausolei ecc.) che si sono sovrapposte a quella originaria. (Cfr. Oktay Asnalapa, Turkish art and Architecture, London 1971, pag.100.)

13. Oktay Asnalapa, Op. cit., pagg. 96-97 e 99.

14. La cupola centrale attuale, in legno, è frutto di sostituzioni  successive alla demolizione della grande cupola su pendentives  originale.

15. Si veda l’esempio  dell’ Ulu Çami di Erzrum, , variante del tipo individuato dalla moschea di Kayseri.

16. Naturalmente l’individuazione del tipo in contesti fortemente caratterizzati dai sultanati che hanno fondato le moschee turche in Anatolia  presenta deroghe anche di grande importanza, come nella moschea di Nigde, dove l’asse di percorribilità non indica la direzione del mirhab, pur incontrando il vano aperto che ricorda la corte del recinto originale. Va notato inoltre come la percorribilità secondaria individuata dagli accessi laterali spesso non coincida che in termini funzionali  (e a volte non coincida affatto) con il vano centrale aperto, come nella moschea di Eshrefoghlu, in quella di Khwand Khatun  e nella stessa Ulu Çami  a Kayseri.

17. Sembra infatti  confermata dagli scavi archeologici l’ipotesi che il recinto del tempio islamico interpretasse il temenos  di un preesistente tempio pagano scomparso, come del resto era affermato da autori arabi. Il recinto aveva dimensioni di 385 X 305 m ed un grande bazar porticato si svolgeva lungo l’interno del perimetro. (Cfr. K.A.C. Creswell, Op.cit. pag. 60-61)

18. V. Oktay Asnalapa, Türk Sanati, Istanbul 1973 vol. I, pagg.3-19.

19. Oggi  il senso dello spazio interno risulta incomprensibile per le modifiche e  decorazioni aggiunte alle strutture originali.

20. I caravanserragli in Anatolia supplivano  alle necessità logistiche dei commerci soprattutto nelle aree più interne, a partire dal  XII e XIII secolo, periodo di massima espansione commerciale seljukide. Il tipo edilizio del caravanserraglio seljukide è strettamente legato alla riorganizzazione del territorio operata dopo l’insediamento stabile dei turchi in Anatolia. Sebbene nelle prime fasi dello stanziamento turco in Asia Minore il sistema stradale  bizantino non fosse stato profondamente modificato,  una riorganizzazione si impose per strutturare quel sistema di collegamenti dell’Anatolia interna che era diventato vitale per l’organizzazione territoriale seljukide, e che era invece stato trascurato nelle epoche precedenti, a partire dalla decisione di Diocleziano di trasformare Nicomedia in capitale dell’Impero Romano d’Oriente.  Altra ragione che originò una modifica del sistema viario è da ricercare nella formazione di nuovi nodi (intersezione di percorsi) e poli (origine di percorsi) territoriali originati dal nuovo ruolo che le città svolgevano nell’Asia Minore islamizzata, dove l’importanza commerciale degli insediamenti era stata modificata, con il fenomeno frequente dell’abbandono dei centri bizantini e la fondazione di nuovi centri urbani (V. W.M.Ramsey, Historical geography of Asia Minor, London 1890, pag. 83 e segg.)

21. La piccola moschea, nella particolare versione della moschea-chiosco impiegata nei caravanserragli, non assume immediatamente la posizione più rilevante nella corte dell’edificio, ma è posta all’inizio a sinistra dell’ingresso, in alcuni casi non integrata alla struttura dell’edificio ma appoggiata alla sua facciata , come nel caso del Kizilviran Han (1207) situato tra Konya e Beysheir (Cfr. Suut Kemal Yetkin, Les Caractéristique des caravansérails seldjoukides, negli atti del First International Congress of Turkish Art, cit.)

22. “Il caravanserraglio persiano – scrive Robert Byron in un racconto di viaggio degli anni ’30 – istituzione ammirevole, resiste impavido all’assalto dei trasporti moderni, anche se dappertutto ci sono dei garage, che però seguono la pianta originale. E cioé un cortile quadrangolare, grande quanto un college di Oxford, difeso da immensi portoni. Vicino a questi e accanto all’entrata a volta, vi sono delle stanze destinate all’uso di cucina, sala da pranzo, dormitorio e allo svolgimento degli affari. Lungo gli altri tre lati si apre una serie di stanzette, simili a celle conventuali, e rimesse per i cavalli e gli automezzi. Le comodità possono variare.” (R. Byron, La via per l’Oxiana, Milano 1993, Pagg. 108-9).

23. Seppure già impiegata nella Grande Moschea di Isfahàn, questa soluzione è una versione originale di una tecnica costruttiva comunque non consueta in area turco-sejukide, che dimostra la mancanza di una tradizione costruttiva collegata al nuovo tipo edilizio.

LA POLEMICA SUL RESTAURO DI PONTE SISTO

La storia infinita dell'”arco di ferro” – l’agonia di ponte Sisto,

di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del 13-14 settembre 1992.

Quando nel 1876 Angelo Vescovali, solerte e dimenticato burocrate comunale, pose mano al progetto per la trasformazione di ponte Sisto, forse  non fu nemmeno sfiorato dal sospetto  che stava operando nel corpo vivo della storia. Preso nel  vortice della febbrile attività edilizia che aveva seguito il trasporto della capitale a Roma, celava probabilmente, in qualche angolo riposto della propria mente, come altri tecnici ed amministratori  peraltro, un pregiudizio ingenuamente livoroso quanto incoffessabile: che molti dei monumenti antichi  non fossero, in fondo, che ostacoli ingombranti alla costruzione di una città moderna. Che molti  dei ponti sul Tevere grondanti di storia, ad esempio,  fossero semplicemente ormai inadatti, per il grande ingombro delle pile piantate nel fiume, al flusso regolare delle acque  e , per la modesta carreggiata, al flusso crescente  del traffico. E di traffico Ponte Sisto, in realtà, ne poteva sostenere ben poco, con la sua sezione di sei metri e mezzo occupata , per di più, da due angusti marciapiedi laterali.

Tanto che Antonio  Canevari, rappresentante  della commissione istituita per la regolamentazione del flusso del Tevere, ne aveva proposto, senza mezzi termini, l’immediato abbattimento.

Poichè il ponte doveva comunque sopravvivere per le proteste degli archeologi, Vescovali, con la diligenza dell’ ingegnere idraulico, pensò candidamente di  aumentare la “portata” del traffico sul ponte disegnando  due marciapiedi sospesi sull’acqua, sostenuti da una struttura in ferro  poggiata  sulle opere antiche, come se le auguste pietre fossero un suolo naturale che via dei Pettinari incontrava nel suo percorso in direzione di  Trastevere.

Gli scarni disegni del progetto che ci sono pervenuti descrivono un sistema di travi, tiranti, mensole in ferro, il cui   banale rigore viene concluso dalla decorazione di  un parapetto in ghisa, materiale di vocazione eclettica, disponibile a qualsiasi virtuosismo plastico.

Il progetto fu senz’altro  approvato dal Consiglio Comunale che liquidò sbrigativamente l’ opposizione dell’ingegnere Luigi Gabet, sostenitore tenace della costruzione di un  nuovo ponte  nel rione Regola. Le nuove  opere furono così appaltate durante le festività  natalizie  dello stesso anno, rapidamente realizzate e  decorosamente  illuminate con lampioni a gas mentre qualche anno dopo i marciapiedi vennero raccordati a quelli dei nuovi lungotevere.

La brutale sovrapposizione  del moderno all’antico aveva generato un  ibrido vagamente indigesto ma anche un nuovo, involontario   monumento che racchiudeva  l’essenza della storia edilizia romana. La sua immagine enigmatica, resa familiare dal tempo, trasudava  significati e messaggi  lasciando supporre, sotto la leggerezza  del metallo poggiato su strati di rovine, le aggiunte faticose, i crolli,  le ricostruzioni in  successione infinita. Il segno  inequivocabile ed estraneo  della nuova Roma  si sovrapponeva, a provvisoria conclusione di un’avventura consumata su ritmi secolari,  alla mole massiccia fondata da Agrippa, restaurata da Aurelio e Valentiniano, rovinata per la furia della piena del 792 d.C, ricostruita, presagio di nuove distruzioni,  da Sisto IV per il giubileo del 1475. E’ indubbio che la  solennità delle  magnifiche strutture quattrocentesche di Baccio Pontelli ne risultava compromessa.

Eppure il nuovo ponte non mancava di un suo fascino quotidiano e discreto, con gli alti marciapiedi che racchiudevano  lo spazio complesso del percorso interno a schiena d’asino dal quale  il fiume appariva progressivamente, via via che si raggiungeva  il centro del ponte.

Legato all’astratto nitore degli argini piemontesi, il ponte mediava  due mondi diversi,Trastevere e il rione Regola, ai quali non apparteneva: era divenuto  col tempo  un piccolo universo dotato di carattere autonomo. Non proprio un ponte “abitato” come Ponte Vecchio a Firenze o il ponte  di Rialto a Venezia, ma almeno una strada addomesticata , partecipe in modo intensamente distaccato della vita dei vicini quartieri: luogo cordiale di passeggiate, incontri, convegni fugaci, attraversamenti  .

Nel ’31   le strutture ottocentesche corsero il rischio, non raro a quei tempi, di essere abbattute da Marcello Piacentini desideroso di ampliare il ponte sistino. Episodio, questo, che  la nobilita , in qualche modo, ai nostri occhi suscitando il  rispetto che sempre si ha per i sopravvissuti.

La leggittimità  delle sovrastrutture metalliche venne  di nuovo messa  in discussione negli anni ’60 quando,   credendo di riconoscere nel ponte una vocazione “parigina”, si provò ad occuparlo  con bancarelle più o meno  stabili. Alla richiesta di rimozione del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti si accompagnò  l’auspicio della demolizione dei marciapiedi ottocenteschi. Iniziava una lunga polemica sulla opportunità  di conservare o meno  le sovrastrutture metalliche  che, se  nascondevano uno dei capolavori del Quattrocento romano ,  facevano  anche parte ormai di un contesto spaziale come i lungotevere, nel quale il ponte, se “liberato” delle aggiunte moderne, poteva apparire uno spaesato relitto .

La polemica non fu risolta  dal confronto, leggittimo ed utile, tra diverse scuole di pensiero sul restauro dei monumenti, ma da un’ incuria colpevole  che ha lasciato per anni marcire le strutture in ferro di Ponte Sisto. Ci si rese conto delle pessime condizioni in cui versavano le travi, e quasi per caso, solo quando nel ’75 un gruppo di studiosi guidati dal professor Gaetano Miarelli Mariani , in occasione del centenario della costruzione del ponte,  redasse un’accurata analisi storica e una proposta di restauro. Il resto è cronaca tristissima  degli ultimi anni. Qualche tempo dopo l’Amministrazione comunale  fece  mettere a nudo le travi. Un cartello spiegava che si trattava di “indagini conoscitive”. I responsabili delle indagini debbono aver avuto ampio modo di valutare le condizioni delle parti metalliche visto che per molti anni le strutture sono rimaste esposte, senza alcuna protezione, alle intemperie. Finchè, nel luglio del ’90, due anni dopo che i professori Giuliano Canella e Michele Mele ebbero accertato che la corrosione aveva divorato gran parte del materiale originale ,  i resti  delle strutture ottocentesche furono  pietosamente rimossi e abbandonati in un vecchio capannone  di Testaccio.

Così anche oggi il ponte continua a mantenere  il suo ruolo di simbolo dei tempi: le sue spoglie devastate, attraversate da cordoli di cemento e volgari pannelli di recinzione, mostrano i monconi desolati delle travi amputate. L’orgoglioso ponte imperiale , il monumento  del Giubileo sistino del 1475 si è trasformato stabilmente in  un territorio desolato, vago ed infido, da attraversare in fretta, ai margini della   città anche se  nel cuore del suo centro antico.

E mentre  la  Commissione Comunale per Ponte Sisto  si é espressa, dopo otto anni di studi,  a favore del  restauro delle sole strutture quattrocentesche del ponte, tecnici di diverse competenze, come l’asino di Buridano, si arrovellano nei dubbi di una nostalgia tardiva e si chiedono se non convenga  ricostruire con materiali nuovi la struttura demolita.

Opinione di Gaetano Miarelli Mariani

Al prof. Gaetano Miarelli Mariani, docente universitario e direttore della Scuola di Specializzazione in Restauro  che ha guidato il gruppo dei progettisti del restauro di ponte Sisto, abbiamo chiesto quali criteri hanno informato il progetto.

“Quando abbiamo cominciato a studiare il ponte – dice Miarelli Mariani – nessuno aveva intenzione di rimuovere le strutture in ferro. Abbiamo però cambiato opinione constatando che esse non erano più in condizione di reggere. La polemica che ne è seguita è spesso stata alimentata, in mala fede, senza conoscere il risultato  degli studi condotti trave per trave, che dimostrano  il degrado irreversibile delle strutture ottocentesche . Io sostengo che piuttosto che rifare le opere in ferro (che  dovrebbero essere adeguate alle  normative attuali e quindi anche   diverse dalle originali )  si dovrebbe  costruire un parapetto moderno: sono convinto che noi non  possiamo rifare un falso, una  struttura in stile.

Dal  punto di vista del metodo tengo a precisare  noi non abbiamo mai parlato di semplice “ripristino” delle opere quattrocentesche . Avevamo anzi proposto, provocatoriamente,  un parapetto in calcestruzzo prefabbricato per far capire che l’ intervento doveva essere moderno. Il problema restava, ovviamente,  da approfondire. Tolto il ferro si è scoperto poi che esiste ancora tutta la base e resti non insignificanti del parapetto quattrocentesco. Si tratterebbe dunque ora  di reintegrarlo.”            G.S.

Opinione di  Paolo Portoghesi

Al prof. Paolo Portoghesi, docente di Storia dell’Architettura e profondo conoscitore  di Roma, abbiamo chiesto un parere sulle demolizioni delle strutture in ferro di ponte Sisto.

“Credo che sarebbe opportuno rimuovere tutte le strutture ottocentesche del ponte e conservarle in altro luogo – afferma Portoghesi- perchè sono essenzialmente un elemento di disturbo e  nascondono la fruizione dell’oggetto . Queste aggiunte alle strutture antiche  sono forse cose di un certo sapore  ma fanno parte della cronaca, come un’edicola di giornali o un lampione : possono al massimo commuovere i cultori di Roma sparita, mentre ponte Sisto è uno dei monumenti romani più significativi .

Rimontare poi ora la parte di  strutture già tolte sarebbe un’offesa alla ragione e all’economia. Se ci sono delle risorse utilizziamole per salvare qualche monumento importante che sta crollando piuttosto  che ripristinare  documenti di una necessità storica transeunte. Se per caso avessero messo delle gronde di ghisa sulla facciata di San Carlino credo che nessuno avrebbe dubbi a toglierle.  Un atteggiamento che io condanno è quello di rinunciare a giudicare, di conservare ad ogni costo: è il tradimento peggiore che si possa fare nei confronti di chi ha costruito. Se oggi noi difendiamo  l’ambiente è perché alla fine del secolo scorso a Vienna è stata fondata una scuola di storia dell’arte che ha diffuso una sensibilità per i valori ambientali . Utilizzare questa sensibilità per omologare tutto e rinunciare al giudizio è un errore .

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RIAPERTURA DI PONTE SISTO

Miracolo a Ponte Sisto

in “La Repubblica” del 27.07.1997

di Giuseppe Strappa

Se fosse apparsa la Madonna le facce non sarebbero state meno stupite. La piccola folla che, anticipando l’apertura ufficiale, si era riunita ieri sul “nuovo” Ponte Sisto, osservava come un’apparizione l’acqua lenta che scorreva sui due lati delle vecchie arcate, i mulinelli che investivano,pigri , le pile di pietra. Erano diciotto anni che attendevano questo momento. Da quando il ponte quattrocentesco era stato segregato da una parete continua di lamiere “provvisorie” collocate per “indagini conoscitive”, ridotto ad un luogo inospitale, da attraversare in fretta: un pezzo di Bronx arenato nel cuore vivo di Roma.

Diciotto anni: una generazione. Eppure sono bastati due mesi di lavori e centociquanta milioni di lire per restituire, almeno, dignità (in attesa della sistemazione definitiva) ad uno dei ponti più belli di Roma.Tra i tanti fattacci che i monumenti romani potrebbero raccontare, la storia di Ponte Sisto è una delle più assurde e vergognose.  Comincia nel 1876, quando Angelo Vescovali, tecnico comunale immerso nel turbine dei lavori postunitari, pose mano all’ampliamento del ponte avendo in mente, con logica burocratica, due soli problemi: il flusso delle acque da regolamentare e il flusso crescente del traffico da assecondare ampliando la carreggiata. Per risolvere quest’ultimo furono collocati due nuovi marciapiedi a sbalzo retti da strutture in ferro, il cui banale rigore si pensò di mascherare con rivestimenti modanati in ghisa. Ma anche la sezione ampliata della carreggiata divenne troppo modesta per il traffico delle automobili e nel 1931, Marcello Piacentini riceveva l’approvazione del progetto di ampliamento: una nuova carreggiata di 16 metri ottenuta rimuovendo le strutture metalliche e affiancando un nuovo ponte all’antico, da rivestire con il paramento quattrocentesco, smontato e riposizionato.  Fortunatamente, nonostante l’appoggio di  Munoz, massima autorità del tempo nel campo del restauro, non se ne fece nulla.

Ma furono i rivestimenti di ghisa a segnare la condanna delle travi ottocentesche: le pesanti decorazioni sovrapposte ne avevano impedito la  manutenzione e quando nel ’75 un gruppo di storici guidati dal prof. Miarelli Mariani condusse un’accurata analisi del ponte, ci si accorse, quasi per caso, che le travi in ferro erano marcite. Ma nulla si mosse fino ai fatidici Mondiali di calcio del’90, quando una squadra di operai resa disponibile dalla sospensione dei lavori all’Olimpico, fu incaricata di rimuovere le “ali” ottocentesche. Da allora caroselli di Esperti, Studiosi, Consulenti, si sono avvicendati al capezzale del ponte, dividendosi in Scuole di pensiero, riunendosi in Commissioni, scontrandosi con furore su questioni teoriche. Senza arrivare ad alcuna conclusione. Se il soprintendente Ruggeri si era espresso, peraltro, a favore della  rimozione delle strutture metalliche, nel ’92 il successore Zurli esprimeva parere diametralmente opposto.

Ma oggi, mentre la polemica sulla sistemazione definitiva è ancora arenata sulla questione se rimontare  le strutture metalliche o restaurare tout court il ponte quattrocentesco, avanza una terza ipotesi. Poiché sembra impossibile utilizzare le vecchie travi depositate in un capannone di Testaccio e il disegno originale di Baccio Pontelli risulterebbe ora estraneo alle quote ed all’immagine dei lungotevere umbertini, perché non progettare una struttura metallica completamente nuova, tecnologicamente avanzata, trasparente e leggera come un guizzo che si accosti alle strutture antiche, filologicamente restaurate, senza toccarle? Ne è convinto Maurizio Cagnoni, direttore dell’Ufficio Progetti Città Storica e protagonista del blitz della riapertura del ponte, che propone un grande concorso internazionale che riporti la città nel contesto della ricerca architettonica europea.  La decisione definitiva verrà presa, per decreto del ministro Veltroni, da una nuova commissione di esperti. Comunque vada, speriamo sia l’ultima.

EDILIZIA DI BASE E TESSUTI

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Rilievo dei piani terra nell’area di piazza di Palazzo Altieri a Roma

1. EDILIZIA DI BASE

prof. Giuseppe Strappa

Nell’ambito della lettura della realtà costruita, la nozione di tessuto è tra le più complesse. Essa esprime la solidarietà tra percorso e unità abitative che si aggregano a formare organismi di grado superiore. Il tipo di unità abitativa che è all’origine della gran parte dei processi formativi dei tessuti delle città italiane sviluppatisi a partire dal XIII-XIV secolo è soprattutto la casa a schiera, declinata in diverse varianti areali in tutta la penisola, dai tipi veneti che traducono in muratura organismi edilizi originati da matrici lignee, agli esempi segnatamente plastici dell’Italia cento-meridionale. Questo tipo di abitazione, che esprime la predisposizione dell’organismo edilizio singolo alla solidarietà urbana e all’aggregazione, e quindi alla formazione delle strutture fisiche della civiltà urbana, risulta notevolmente costante, e con costanza individuabile nel processo delle sue trasformazioni, all’interno delle diverse aree culturali, sia nel tipo bicellulare che (cui si farà soprattutto riferimento nel seguito), che in quello monocellulare derivato dal consumo della casa a corte (pseudoschiera). L’edilizia a schiera del XIII-XIV si struttura su una forma organica di utilizzazione del suolo che ha caratteri riconoscibili: la costruzione avviene occupando un lotto di terreno rettangolare affacciante su percorso nel lato corto, dove la forma rettangolare del lotto risponde a criteri economici. La parte più pregiata del terreno è infatti la parte che affaccia su strada, quella sulla quale saranno rivolti gli ingressi, le botteghe, le facciate delle case. Il frazionamento del terreno deve quindi mettere a profitto il fronte stradale, secondo norme e convenzioni che traducono esigenze spontaneamente radicate e, nel tempo, divenute norma. La ripartizione del terreno che ne deriva produce lotti di spessore pressoché costante e di profondità variabile.
Lo spessore costante dei lotti e, quindi, delle abitazioni, si spiega con la forza delle consuetudini, le quali corrispondono alle necessità unitariamente costruttive, economiche e distributive della casa. In altri termini è già in qualche modo previsto, nella mente di chi fraziona il terreno, uno stretto vincolo che lega insieme utilizzo del suolo, tipo abitativo e tipo di aggregazione (tessuto) che verrà individuato attraverso l’atto costruttivo: si possiede in modo quasi inconscio la cognizione dell’esito edilizio possibile. Il rapporto tra organismo urbano che deriverà da questo frazionamento, e tipo edilizio adottato in società in equilibrio è intimamente legato da regole imposte dall’uso e spontaneamente accettate.
Nella costruzione una parte del terreno verrà utilizzata per l’abitazione mentre un’area di pertinenza verrà lasciata libera ed inizialmente utilizzata ad orto. Lo spessore, la profondità del costruito, può variare entro limiti ristretti, perché le necessità e le capacità dell’abitante sono simili per tutte le costruzioni. Lo spessore del lotto, e quindi quello dell’abitazione che per motivi economici sfrutterà per intero il lato che affaccia sul percorso, dopo una fase iniziale in cui tra le diverse abitazioni viene lasciato uno spazio minimo per il deflusso delle acque (ambitus), coincide con lo spessore dell’unità costruita, dando origine alla “casa a schiera”. Esso coincide, anche, con le misure necessarie alla distribuzione delle funzioni: vani utilizzabili (spesso, nei tipi maturi, due per piano, dei quali uno con fronte su strada e l’altro sull’area di pertinenza); scale per il piano superiore (come le attività economiche verrano distribuite dove lo spazio è più prezioso, all’interno, dove lo spazio è meno prezioso, viene collocata la scala, elemento puramente distributivo); accesso dalla strada ai vani dell’abitazione ed all’area di pertinenza, attraverso un percorso interno che si può collocare indifferentemente su l’uno o l’altro dei lati della casa, spesso in corrispondenza di un’apertura specializzata nella parete su percorso. Si potrebbe teoricamente ritenere, solo in prima approssimazione, che la serie delle unità di schiera possa continuare all’infinito: si tratta di una struttura, come si è detto, seriale, e non esistendo un rapporto di necessità tra ognuna delle unità, se non l’adiacenza di due pareti murarie, al variare del loro numero nulla cambia nel carattere della struttura e del tipo edilizio. Le abitazioni vengono distribuite specializzando nel tempo (operando cioè mutazioni diacroniche del tipo matrice attraverso un progressivo adattamento alle trasformazioni delle necessità degli abitanti) al loro interno i vani, cominciando col massimizzare l’utilizzazione economica del piano terreno, e destinando il vano su strada a bottega: la società è ancora tendenzialmente omogenea e tutte le attività si svolgono nello stesso luogo (la città non ha ancora specializzato le proprie parti in produttive, commerciali ed abitative). Abitazione, produzione e commercio si svolgono unitariamente all’interno della stessa costruzione e molto spesso la bottega è, allo stesso tempo, luogo di produzione e di scambio.
L’ aggregazione degli elementi edilizi in strutture orizzontali e verticali concorre unitariamente alla definizione del tipo. La dimensione della luce della trave che dovrà coprire la campata libera tra muri ortogonali al percorso è pressoché costante, stabilita da consuetudini edilizie che rispecchiano, allo stesso tempo:

le necessità geometriche del vano abitabile ereditate da antecedenti elementari;
le capacità tecniche del costruttore relative all’area culturale di pertinenza;

le specifiche forme di individuazione di materiali nelle materie disponibili nel luogo. Dunque lo spessore del lotto necessario alla distribuzione coincide con la dimensione utile alla costruzione e varia nel tempo e nei diversi luoghi aggirandosi però sempre intorno ai 4/6 metri. Le murature che vengono costruite hanno una dimensione derivata dalla tradizione costruttiva, che è parte integrante del processo di formazione del tipo. Dovendo le murature sopportare un carico maggiore al piano terreno che a quello  superiore, il loro spessore risulta spesso variabile da un piano all’altro in funzione delle diverse sollecitazioni, dipendendo anch’esso dalle tecniche edilizie invalse in quell’area e in quel determinato arco temporale, e dai materiali disponibili. Una muratura in pietra fragile avrà uno spessore maggiore di una muratura di materiale resistente (in calcare compatto, ad esempio, o mattoni): il costruttore ha una cognizione spontanea del variare delle sollecitazioni, acquisita attraverso l’esperienza e la tradizione . Sa anche che, secondo una tecnica affinata attraverso miglioramenti successivi, l’occasione di diminuire lo spessore della muratura in corrispondenza del solaio (punto singolare che coincide, come vedremo, con uno dei nodi della costruzione), dove variano i carichi, costituisce un utile appoggio per le travi che reggono l’impalcato del solaio. Altre volte, quando la muratura è a sezione costante nei diversi piani, vengono messe in opera mensole sostenenti le travi perimetrali sulle quali disporre l’impalcato. Ma in genere la casa a schiera risulta riferibile a caratteri fortemente specifici del tipo, pur nella estrema diversificazione delle individuazioni areali, come risultato di condizioni di equilibrio “necessarie” tra componenti diverse.

 

Col termine edilizia di base si intende la parte di costruito destinata all’abitazione. L’abitazione è infatti la prima e fondamentale forma di spazio edificato della quale, nel tempo, l’uomo conserva la nozione più spontanea. L’edilizia di base si sviluppa a partire dal primo spazio aggregabile prodotto, la cellula elementare a base quadrangolare di 5-6 metri di lato, consolidatasi nell’uso. L’abitazione originaria costruita (non quindi “incontrata” come poteva accadere per il rifugio) è costituita da un vano nel quale è possibile svolgere per intero e contemporaneamente le funzioni legate alla vita domestica. Queste dimensioni entrano a far parte, nelle aree culturali più diverse e distanti, della coscienza spontanea del costruttore e sono, nel tempo, riscontrabili anche nelle misure del vano-base ricorrente in forme abitative o specialistiche più complesse, ottenute per moltiplicazione della cellula elementare. Le ragioni delle dimensioni della cellula elementare sono antropologiche, perché l’uomo non riesce a vivere in una dimensione minore, se non in ripari e rifugi nei quali non sono possibili che forme embrionali di vita domestica, ma anche tecnico-costruttive, legate all’uso di materiali che si adattano, pur non determinandole meccanicamente, alle dimensioni tipiche, alla statica delle pareti murarie che chiudono lo spazio abitato, delle travi che debbono coprirne la luce. Che le tecniche edilizie siano state finalizzate allo spazio della cellula elementare e non viceversa è dimostrato dalla costanza delle dimensioni in aree di diversissima cultura materiale: da quelle lignee a quelle murarie fino alle aree nelle quali l’abitazione è stata scavata nella roccia, dove (si veda il caso delle abitazioni trogloditiche di di Peschici e Monte Sant’Angelo in Puglia, e quelle, notissime, di Matera in Basilicata) le dimensioni non variano per volumi interamente scavati, parzialmente scavati, totalmente esterni. L’edilizia di base si articola, nei suoi termini logico-processuali, nell’aggregazione di cellule elementari costituenti:
abitazione unifamiliare isolata, distribuita direttamente su percorso attraverso accesso indipendente, utilizzata da un solo nucleo familiare e costituita da sistemi (statico costruttivo, distributivo, leggibilità) autosufficienti e indipendenti a partire dalle fondazioni fino alla copertura. La casa unifamiliare isolata non è aggregabile.
abitazione unifamiliare aggregata, distribuita direttamente su percorso attraverso accesso indipendente, utilizzata da un solo nucleo familiare, ma con sistema statico-costruttivo non indipendente, avente elementi o strutture di elementi in comune con le abitazioni adiacenti in modo tale da concorrere, per aggregazione, a formare organismi a scala maggiore, la cui unità aggregativa è l’alloggio su uno o più piani costituito, in genere, da abitazioni a schiera;
abitazione plurifamiliare in linea, processualmente derivata dalla rifusione di abitazioni unifamiliari aggregate e utilizzata da due o più nuclei familiari che si servono di comuni sistemi di distribuzione (scale, ballatoi, ascensori ecc.), oltre che comuni sistemi statico-costruttivi, e quindi con alloggi non indipendenti rispetto all’accesso dal percorso. La casa in linea è costituita da uno o più corpiscala aggregati linearmente che costituiscono un unico edificio seriale. Si definisce “corposcala” la struttura costituita dal vano scala e dagli alloggi che da esso sono distribuiti. L’unità aggregativa interna è l’alloggio costituito dall’appartamento su un piano.
abitazione plurifamiliare isolata, processualmente derivata dall’abitazione in linea, utilizzata da due o più nuclei familiari che si servono di un comune sistema di distribuzione (scale, ballatoi, ascensori ecc.) e quindi con alloggi non indipendenti. L’abitazione plurifamiliare isolata è costituita da un solo corposcala e non è aggregabile. L’unità aggregativa interna è l’alloggio costituito dall’appartamento su un piano.

2. TESSUTO COME FORMA TIPICA DI AGGREGAZIONE

Da quanto accennato deriva come sia inevitabile il rapporto di congruenza che deve necessariamente instaurarsi tra tipo di abitazione e forme di aggregazione delle abitazioni stesse, e come un ruolo fondamentale sia svolto, in questo senso, dalla presenza dei percorsi che distribuiscono e orientano le unità abitative, determinandone, anche, le varianti tipologiche.
Nelle aree dove l’uso del suolo è più intenso e la progressiva pressione demografica induce ad uno sfruttamento intensivo della superficie del terreno, il tipo abitativo, sempre basato sulla cellula elementare, si deve adeguare alle necessità di relazione diretta tra le singole unità.

Case a schiera in via Santa Maria del Pianto a Roma

L’associazione di singole unità abitative tra loro a formare unità di scala superiore si sviluppa secondo leggi proprie, variabili nello spazio e nel tempo, tanto che si può parlare di tessuti intesi come tipi di aggregazione. Risulta chiaro che possiamo parlare soprattutto di tessuti, per quanto riguarda l’edilizia abitativa, costituiti da tipi congruenti con la nozione di aggregabilità: la casa a schiera è un organismo edilizio aperto che ha bisogno, per essere completato, dell’inserimento nell’ aggregato urbano, mentre possiamo parlare meno frequentemente di tessuti per l’edilizia specialistica, i cui tipi hanno una loro compiutezza (caso estremo i tipi polari, ad impianto centrale) e quindi una minore disponibilità all’aggregazione.

Alla formazione del tipo di aggregazione concorrono le forme di perimetrazione e utilizzazione del territorio, relazionate unitariamente ai tipi edilizi vigenti ed ai materiali impiegati.
Il processo di mutazione dall’unità all’aggregazione, non costituisce uno svolgimento lineare di tipo evoluzionista, ma l’intersezione di conquiste, ritorni, riprese di sviluppo: la casa pluricellulare nasce qualitativamente, essa stessa, come aggregazione di cellule elementari organizzate in base alla coscienza del tipo, non come semplice successione cronologica di addizioni (successione riscontrabile solo in intorni temporali ristretti) come dimostrano le abitazioni delle civiltà preurbane, spesso costituite dalla fusione di elementi unicellulari perfettamente individuabili anche nelle strutture complesse.
La prima e più semplice forma di aggregazione, successiva alla disposizione di unità edilizie autonome su percorso, è costituita dall’unione a schiera di unità abitative a struttura non indipendente, con porzioni dell’involucro esterno (spesso le due pareti murarie ortogonali all’affaccio su strada) in comune con le unità adiacenti. La nuova scala edilizia che ne deriva (quella dell’aggregato edilizio) è relativa ad un organismo (organismo aggregativo) di scala superiore all’abitazione elementare, che può essere ora riguardata come semplice elemento di schiera, di passo unicellulare.
La scala dell’aggregato costituisce il momento di passaggio tra edificio e città. Da questa considerazione deriva una possibile schematizzazione generale delle diverse scale di formazione degli organismi che costituiscono il territorio antropizzato:

organismo edilizio;
organismo aggregativo;
organismo urbano;
organismo territoriale.

La forma di costruzione preaggregativa precedente la formazione della schiera è costituita dalla ripetizione delle unità edilizie lungo il percorso, separate da un ridottissimo distacco, ambitus, necessario al deflusso delle acque dalle coperture, organizzate con le linee di displuvio parallele al percorso ed i colmi ad esso ortogonali. Sebbene in alcune aree le falde conservino a lungo, anche dopo la formazione della serie, la disposizione delle unità isolate, presto la linea di colmo si dispone parallelamente al percorso (soprattutto in aree plastico-murarie) legando le singole unità in rapporto di maggiore organicità.

 

Le forme più elementari di schiera ripetono le abitazioni monocellulari adiacenti una all’altra attraverso un muro comune ortogonale al percorso di affaccio.
In Puglia e in Basilicata esistono esemplari forme aggregative originate da tipi elementari: a Matera i lamioni sono costituiti da vani monocellulari, non sempre regolari, con copertura a botte ortogonale al percorso, che formano l’aggregato semplicemente per ripetizione, iniziando a costituire un embrione di organismo urbano; la fase definibile “successiva” per via logica è il tipo a due piani, che in sezione presenta vani indipendenti distribuiti su ambedue i percorsi a livello superiore e inferiore.
Esempio analogo, ma di progressiva complessità, è costituito dalle case ad alloggi sovrapposti, servite da scale indipendenti che collegano lo spazio esterno all’alloggio senza mediazioni (dato che consente di parlare ancora di abitazioni unifamiliari), come è riscontrabile in diverse aree europee, dagli esempi embrionali di aggregati abitativi direttamente uniti al percorso di Procida, ai tipi olandesi tradizionali utilizzati anche dall’edilizia moderna e contemporanea. Normalmente il raddoppio della cellula elementare, nell’ambito della stessa unità edilizia avviene in profondità, ad occupare la parte di area di pertinenza immediatamente adiacente alla cellula su percorso, e in verticale, mantenendo sempre, comunque, la dimensione monocellulare dell’affaccio su strada, che costituirà la dimensione base leggibile nella formazione del tessuto della città anche in fasi di rifusioni e plurifamiliarizzazioni. Con la formazione del piano superiore, parallelamente a quanto avviene per la casa unifamiliare, le cellule si specializzano a formare lo spazio per la bottega e quello superiore per l’abitazione propriamente detta. Il piano superiore, inizialmente servito da scala esterna (profferlo) viene raggiunto nei tipi successivi da scala interna servita da un’apertura specializzata e distinta da quella della bottega, rendendo leggibile all’esterno la specializzazione interna.

Lo sviluppo della casa a schiera avviene dunque per raddoppi di cellule, con progressiva specializzazione dei vani : al piano terra, oltre la bottega (o atrio), il vano scala, il passaggio all’area di pertinenza, il magazzino, e al piano superiore l’abitazione propriamente detta, che aumenta il grado di specializzazione con la progressiva moltiplicazione verticale delle cellule e la distinzione della zona giorno dalla zona notte. La posizione della scala varia in funzione della specializzazione del piano terreno:
– nella casa a bottega la scala si dispone in genere ortogonalmente alla strada, in diretta corrispondenza dell’ingresso, in modo da separare nettamente i vani specializzati dai vani abitativi attraverso il muro che si rende necessario per sostenere le travi di solaio tessute parallelamente alla strada;
– nella casa ad atrio, ad uso completamente abitativo, la scala si dispone di preferenza parallelamente alla strada, nel fondo del vano, con le prime alzate sul lato opposto all’ingresso, in modo da avere altezza sufficiente da permettere il passaggio diretto dall’accesso al vano posteriore ed all’area di pertinenza.
Naturalmente, oltre a queste soluzioni tipiche e generalizzate, esistono molte altre possibili dislocazioni della scala dovute a componenti areali o alla presenza di tipi-sostrato, come nel caso della scala esterna che occupa l’area di pertinenza nelle “corti-schiera” fiorentine originate dal consumo della domus.
La leggibilità è, nelle fasi spontanee di formazione delle unità di schiera, direttamente dettata dalla dimensione e posizione delle aperture, con la specializzazione indicata spesso all’esterno dalla porta con bancale per esposizione delle botteghe al piano terreno, e apertura di minori dimensioni per l’accesso alle scale ed all’area di pertinenza, e inoltre dall’uso di marcapiani e marcadavanzali e, in generale, dai nodi tettonici che indicano il diverso carattere (elastico-ligneo o plastico-murario) dei tipi pertinenti ad aree diverse.

3. GERARCHIZZAZIONE DEI PERCORSI

Da quanto esposto risulta chiaro come l’ambiente costruito possa essere solo strumentalmente ed in prima approssimazione studiato per parti: come gli edifici non possano essere considerati autonomamente, ma concorrano alla formazione di unità a scala maggiore che ne condizionano i caratteri. I concetti che abbiamo espresso per i tipi edilizi sono in qualche modo estendibili anche ai tessuti urbani: si intende per tessuto la somma dei caratteri, processualmente determinati, che contraddistinguono la formazione di un aggregato edilizio. In altre parole, la nozione di tessuto sta a quella di aggregato come la nozione di tipo sta a quella di edificio. Un tessuto edilizio è dunque contraddistinto da una legge riconoscibile, iterativa e individuabile. Da questo punto di vista potremmo parlare di organismi edilizi che si compongono a formare organismi a scala superiore: l’organismo urbano, per poi riconoscere che tra questi due estremi di scala esiste un salto logico (che è anche anche un salto storico-processuale), nel senso che il passaggio tra l’edificio e la città avviene attraverso leggi aggregative che formano (individuano) parti di organismo urbano riconoscibili. L’organismo aggregativo rappresenta dunque il passaggio di scala fondamentale che fornisce la misura di come la città sia, essa stessa, il risultato di un processo di successivi incrementi storicamente individuato.Il percorso originario, dal quale l’aggregato prende inizio, è la traccia visibile di un attraversamento che unisce due punti del territorio particolarmente rilevanti, detti poli. Nella realtà costruita sono riscontrabili quattro tipi principali di percorso che corrispondono ad altrettante fasi di sviluppo e trasformazione degli aggregati urbani:

 

–  Percorso matrice, che esiste prima che intervenga la costruzione. Dunque l’edilizia su percorso matrice corrisponde alla prima fase di edificazione ed è l’edilizia più antica, su lotti in genere meno regolari di quelli successivi, perché l’atto costruttivo non obbedisce ancora a convenzioni istituzionalizzate (esiste una “coscienza spontanea della norma”, alla quale nel tempo si sostituisce una “coscienza critica e istituzionalizzata della norma”) e, allo stesso tempo, il valore del suolo permette ancora estensioni dei lotti spontaneamente adeguate alle necessità edilizie più che condizionate dal loro valore di mercato, come avviene invece in fasi successive dove, in alcuni casi, si formano veri e propri regolamenti edilizi, indicati negli statuti dei comuni.
Percorsi di impianto edilizio, cronologicamente successivi e gerarchicamente subordinati al primo, sono tracciati in funzione dell’edificazione in profondità. Col progressivo allontanamento dal polo, il valore del terreno sul percorso diminuisce rispetto a quello retrostante la prima fascia di edificazione. Per motivi di carattere economico-funzionale è intuibile come, dopo la prima edificazione su percorso matrice, l’aggregato tenda ad utilizzare la fascia retrostante, piuttosto che continuare un’espansione lineare che virtualmente occuperebbe l’intero percorso, con evidente perdita di significato delle nozioni di nodo e polo. Questa seconda fase di edificazione, in generale, avviene orientando percorsi ortogonali al percorso matrice, distanti tra loro la profondità di due dei nuovi lotti. All’intersezione tra percorso matrice e percorso di impianto si formano inevitabilmente, data la possibile duplicità di affaccio dell’edificio d’angolo e, soprattutto, la necessità di sfruttare la relativa area di pertinenza con affaccio su percorso di impianto, varianti sincroniche del tipo base dette varianti di intasamento.
Percorsi di collegamento che uniscono tra loro i percorsi di impianto edilizio. Tali percorsi si possono formare soprattutto in due modi:

– per soppressione delle abitazioni insistenti su due lotti contigui ortogonali al percorso di impianto (una sorta di percorso di ristrutturazione, come vedremo, a scala limitata). In questo caso l’intervento è riconoscibile per il parallelismo dei lotti sul nuovo percorso e la sincronicità delle costruzioni relative.
– per costruzione intenzionale di un nuovo percorso nella fase successiva di espansione, seguente la formazione ed il completamento dell’isolato. In questo caso la programmazione è riconoscibile per essere i nuovi lotti orientati ortogonalmente al nuovo percorso (la tendenza è sempre a massimizzare l’affaccio su percorso), e, spesso, per la diacronicità del costruito nelle due fasi successive di costruzione sui due lati del percorso.
Percorsi di ristrutturazione (non necessariamente sempre presenti negli organismi aggregativi) intervengono alla conclusione del processo di edificazione, nei tessuti maturi nei quali si formano nuovi poli che creano nuove esigenze di collegamento. Sono quindi percorsi “traumatici” che si sovrappongono all’organismo preesistente, considerato obsoleto sulla base di una nuova nozione di tessuto.
La formazione del percorso di collegamento che completa la perimetrazione di un insieme di lotti dà origine all’isolato, componente tra le più stabili degli organismi aggregativi che, rendendo discreto il processo di aggregazione, costituisce la premessa geometrica alla costruzione della città ottocentesca: la dialettica della città moderna si forma attraverso un’interpretazione critica di accettazione od opposizione della geometria della formazione dell’isolato.

Case a schiera moderne.    Oud,  Kiefhoek – piante

oud-kiefhoek

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