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L’ARREDO URBANO E L’ARTE DI COSTRUIRE LE CITTA’.

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di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del  2.10.1991

“Arredo urbano” è forse una delle locuzioni   più  ambigue che la cultura   architettonica contemporanea    abbia coniato: contiene il concetto insidioso di “guarnire un ambiente”, insinua subdolamente l’idea che le piazze e i giardini nelle città siano una sorta di salotti buoni da abbellire con oggetti di consumo. Alludendo  ad un provvisorio e sovrapposto  decoro , esso  testimonia nella  lingua  il degrado che subisce ai nostri giorni l’arte di costruire le città , l’abbandono di quel  processo continuo  di formazione  dello spazio urbano  capace di  assimilare  le necessarie  novità : il lampione, l’edicola, la fontana disegnati con sapienza e chiamati semplicemente con i loro bei  nomi.  Non a caso nella letteratura sull’argomento spesso lo si incontra con il suo puntuale pendant : la beautyfication,    altro terribile neologismo che ha fatto di recente irruzione nella pubblicistica di architettura e che significa, più o meno, cosmesi  dell’immagine.
Questa breve e personale nota  architettonico-lessicale in margine alla mostra  La capitale a Roma: città e arredo urbano dal 1870 al 1990  appena inaugurata al Palazzo delle Esposizioni, costituisce in realtà  una fuorviante introduzione ai materiali esposti . I contenuti  della mostra rispecchiano  infatti  raramente il titolo: rilevata l’ambiguità  (si veda il lucido scritto  di Corrado Terzi nel catalogo edito da Carte Segrete) percorrono in genere, per nostra fortuna,  itinerari più vasti e avventurosi dove l’interesse prevalente sembra essere   lo spazio della città, la scena urbana. Tema di  titanica complessità: uno sterminato racconto  che si potrebbe far iniziare  con la formazione del sistema di grandi piazze a cavallo delle mura, quando la città ormai  si affacciava a Porta Maggiore, a Porta Ostiense, a Porta San Giovanni  a interrogare  il suo  incerto futuro di periferie . Per proseguire con il dramma  degli “isolamenti”, dei “diradamenti” dei tessuti antichi, degli sventramenti otto-novecenteschi che hanno abbandonato nel loro percorso angoli deformi di città, veri   relitti urbani. Oppure spazi dilatati, di pedante vocazione oratoria ai cui margini si sono spesso raccolti  altri spazi dalla grazia sommessa e domestica: piazze esigue come cortili dove la modesta, appartata invenzione di una fontana o  la secca arguzia di una testa di fauno (disegnati secondo il gusto per l’aneddoto minuto e imprevedibile  di tanta edilizia “minore” romana) evitano agli abitanti la desolazione dell’anonimato . Scenografie qualche volta  da operetta che pure sdrammatizzano, vivaddio, la tenace inclinazione al sublime , verso la quale sembrano  scivolare, come per vocazione, gli spazi romani.
Poi la città fascista. Che non fu solo sinistro antagonismo tra Geometria e Storia, ma anche  gelida, enigmatica  eleganza : i porticati dell’Eur, i piazzali del Foro Italico, i viali della Città Universitaria. Ed anche, perchè no, il patrimonio dimenticato di studi per le sistemazioni delle aree centrali che generarono spesso esiti  infausti (si veda il caso esemplare di piazza Augusto Imperatore)  soprattutto per la miopia dei politici.
E poi ancora le periferie dissennate della Ricostruzione, i prati sudici  cantati da Pasolini, le vecchie osterie con i pergolati polverosi, naufragate nel mare dei casermoni; ma anche il monumento delle Fosse Ardeatine, capolavoro e simbolo dell’architettura romana del dopoguerra, al quale peraltro Bruno Cussino dedica  un immotivato, inaccettabile    insulto nell’introduzione al catalogo.
E il boom economico , l’abbandono di ogni speranza di una dimensione civile  dello spazio pubblico, la fiammata dell’effimero,  fino alle illusioni  degli anni ’80 , all’euforia ottimista e contagiosa che ha  coinvolto architetti di ogni tipo ,professionisti , studenti , docenti , impiegati della pubblica amministrazione, in  uno sforzo generoso che ha prodotto un’ immane quantità di progetti, disegni, proposte, programmi, piani. Non lasciando quasi alcun segno sulla città.
Infine, comune a tutte le epoche, la cognizione inquietante del sottosuolo carico di storia, l’ubiquità del tenebroso splendore delle viscere della città, che ogni tanto affiorano come un’apparizione   a largo Argentina, come  tracce preziose tra i vicoli del Ghetto o nei prati delle periferie  : rovine auguste e indifese  di fronte alle quali parlare di “arredo” sembra un’ ingiuria volgare.
Il   materiale al quale la mostra attinge con risultati a volte spettacolari è,  come si vede , un magma  affascinante di smisurata vastità . Di fronte al quale, va detto, alcuni settori stentano a trovare un proprio centro (si veda l’erratico assortimento di temi in alcune delle sezioni storiche). Ma il vero significato della mostra è forse riposto  nei suoi vuoti : invano  si cercherà un accenno allo SDO, un disegno che riguardi la costruzione reale dei  grandi interventi per  Roma capitale, un’impennata di concretezza e orgoglio civile  che non renda inutile la lezione del passato.

Seconda esercitazione caratteri tipologici corsi A e B

Scopo dell’esercitazione è l’applicazione delle nozioni di processo e organismo aggregativo acquisite nel primo ciclo di lezioni. L’area oggetto dell’esercitazione è quella di piazza della Moretta lungo via Giulia a Roma in una zona inedificata risultante da demolizioni avvenute nel 1931. Si ipotizza di ricucire il tessuto mediante la riedificazione di due degli isolati demoliti secondo la loro configurazione planimetrica ante 1931. Il tessuto, fortemente densificato è composto oggi da case a schiera, pseudoschiera e palazzi, deriva dal processo di trasformazione delle domus con cui si ritiene fosse edificata gran parte dell’ansa del Tevere nella zona libera dai resti degli edifici specialistici di epoca romana. Si dovrà eseguire la riprogettazione di tali isolati partendo dalla supposta permanenza del sostrato tipologico delle domus anche dopo la costruzione del tracciato cinquecentesco di via Giulia rispetto al quale i percorsi di adduzione al fiume sono precedenti. Gli isolati sono così definiti da vicolo delle prigioni, da vicolo della padella e da vicolo dello Struzzo (da pensare ricostituiti). Si possono riutilizzare i criteri di alcune esercitazioni eseguite in precedenza, con l’avvertenza che le aree sono ora leggermente irregolari.
Si tenga conto, in proposito, che l’edificazione delle domus avviene prevalentemente attraverso pareti murarie ortogonali o parallele ai percorsi di accesso fatto salvo il fronte su via Giulia che, in quanto percorso di ristrutturazione, ha il fronte non ortogonale ai muri interni alle abitazioni. Queste peraltro, in virtù dell’importanza di via Giulia, assumeranno carattere speciale (palazzetti, alberghi ecc.). Anche il fronte opposto, verso il Tevere, (sul proseguimento di via della Bravaria) presenta irregolarità planimetriche dovute al percorso lungofiume, imponendo delle varianti tipologiche.

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In definitiva, supposta come data la lottizzazione degli isolati composti da recinti di domus con un fronte di 15m circa (3 cellule), si devono prevedere seguendo la griglia allegata, le seguenti fasi:

1.Prima fase: edificazione secondo il tipo con le relative varianti sincroniche da posizione. Si tenga conto dell’isorientamento delle domus ma anche se del caso, del prevalere della gerarchia dei percorsi e delle varianti da posizione (fronti ed angoli su via Giulia).

2.Seconda fase: utilizzo del fronte. Tabernizzazione.

3.Terza fase: incremento delle cellule su un margine.

4.Quarta fase: Completo addossamento delle cellule sui muri del recinto (densificazione): Insulizzazione e formazione delle pseudoschiere con apertura del recito

Nella dalla quarta fase si introduce ovviamente l’aggiornamento e trasformazione del tessuto alle condizioni contemporanee con:

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a.    Introduzione di tipi edilizi aggiornati ed adatti ad un tessuto fortemente densificato in alcune parti.  Si può prevedere una trasformazione dei parte del tessuto in case in linea o in palazzo.
b.    Previsione di eventuali spazi pubblici in corrispondenza di eventuali servizi.
c.    Impiego di materiali e tecniche costruttive contemporanee e congruenti col luogo.
Non è necessario disegnare entrambi gli isolati (uno dei due può essere solo accennato).

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Le scale da impiegare e il livello di approfondimento sono a discrezione dello studente, purchè venga rispettato il formato usuale delle tavole (A3).
Si può montare la planimetria definitiva sulla planimetria che trovate in questa pagina (rilievo dei piani terreni – cliccare sul disegno e poi ingrandire).

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LABORATORIO LPA – INCONTRO CON ROBERTO MAESTRO SUL PROGETTO PER IL CASILINO 23


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Incontro del 18 1 2010 a Roma sul progetto del Casilino 23
Relazione di Roberto Maestro

Ho lavorato con Ludovico Quaroni per un paio di anni dopo il mio ritorno dall’Africa, all’incirca tra il 1963 e il 1965. Avevamo uno studio in via Nizza dove andavano e venivano vari architetti: alcuni come titolari, altri come collaboratori, altri ancora come semplici amici di passaggio, Un periodo molto stimolante e per me formativo.
Quaroni era il contrario di un capo autoritario: era una persona molto intelligente, ma insicura. Aveva in uggia chi lo definiva “maestro del dubbio” perché riteneva che, se era vero che lui aveva dei dubbi, non era vero che li volesse comunicare agli altri. Aveva un’idea della progettazione architettonica come un lavoro di gruppo, dove ciascuno affidato un ruolo diverso. Idea che gli derivava da una sua esperienza nel cinema, dove ognuno fa la sua parte senza sovrapporsi guidato da un regista e secondo una traccia o un soggetto. Lui per certi aspetti si sarebbe Immaginato come soggettista (anziché che regista). Un soggettista pronto a mettersi in discussione e a lasciare spazio alle idee degli altri, anche se più giovani e inesperti di lui. L’ideale per un giovane architetto poco più che trentenne molto presuntuoso, come ero io e con molta voglia di misurarsi sui grandi temi dell’architettura e dell’urbanistica.

Al tempo del progetto del Casilino 23 sperimentammo una sorta di “brain storming” progettuale, Una tecnica in uso negli studi pubblicitari, consistente nel confronto diretto (scontro) tra idee diverse e quanto più contrastanti tra loro, senza seguire una linea precisa.
Avevamo allora discusso e deciso una qualche linea comune? Io ricordo le cose delle quali si parlava quando si parlava di Roma e della sua periferia, A me la periferia di Roma piaceva, invece Quaroni la trovava anonima retorica e, tolto pochi rari esempi, pretenziosa è volgare. Sosteneva che Firenze aveva conservato il suo carattere anche nella periferia, Roma invece no. Il disegno dei quartieri era inesistente: un insieme di architetture dissociate che non riuscivano a creare un luogo riconoscibile.

È in quel clima di critica alla città contemporanea, che nacque l’idea di un quartiere che costituisse fino dal suo disegno di insieme, un segno riconoscibile, di appartenenza a questa città, Si veda a questo proposito il saggio “Com’era bella la città,come è brutta la città “ pubblicato sulla rivista Spazio e Società di De Carlo.
Facemmo dei disegni basati su forme ellittiche e circolari, che non ci convinsero perché le ritenemmo statiche, chiuse in se stesse, Cercavamo forme urbane che proponessero un disegno estensibile alle zone confinanti, una forma dinamica aperta ad aggiunte e integrazioni. Io avevo vinto il mio primo concorso di progettazione con un motto significativo: “antipaese”.
In quegli anni lavoravo contemporaneamente al progetto del terminal per Venezia con un progetto che proponeva “l’ultima parete del canale grande” una parete che si apriva sulla laguna con un ventaglio di moli,
Tra Roma, Firenze, Venezia, Tunisi era più il tempo che si passava in treno che al tavolo da disegno. È quando siamo lontani da una città che si riesce a immaginarla e a pensarla in modo sintetico (l’ellisse di una piazza, la rotazione delle gradinate del Colosseo…).

È così che nacque l’idea del quartiere Casilino 23. Un disegno che ricordasse un grande rudere fuori scala, come lo sono certe parti della Roma antica che emergono dalla trama delle palazzine. Oggi il progetto lo leggo così, ma quando si scelse quel disegno non pensavamo certo di ispirarsi alla Roma dei Cesari. Cercavamo solo un segno forte “moderno” che fosse riconoscibile anche dall’aereo (Il satellite venne dopo), Un disegno che giocasse sull’effetto prospettico falsato dovuto alla disposizione a ventaglio di corpi di fabbrica ad altezza variabile. L’importante era non creare ripetizione.
Quaroni sosteneva che la ripetizione serve solo al costruttore per ridurre i costi, mentre la gente vuole una casa che sia diversa, riconoscibile. Vuol abitare in un quartiere diverso dagli altri, da amare e da esserne orgogliosi, come lo è per Trastevere ,i Parioli o San Frediano a Firenze.
Sotto questo aspetto possiamo dire che il Casilino 13 si può ritenere un successo: la gente che ci abita, ci si riconosce. Non sempre capita anche quando gli architetti sono bravi (vedi lo “Zen” di Palermo).

Il discorso potrebbe chiudersi qui. Il nostro è  soprattutto un lavoro al servizio della gente. Ho visitato ieri questo quartiere dopo tanti anni, un progetto nel quale abbiamo realizzato solo il disegno urbanistico, ma che è stato realizzato con pochissime varianti, I progettisti dell’architettonico che hanno seguito le nostre indicazioni in modo intelligente (condividendone gli obiettivi) sono, secondo me quelli che hanno lavorato meglio, Ma il progetto urbanistico era sufficientemente forte per reggere anche variazioni nell’architettura dei singoli fabbricati.
Io preferisco, naturalmente, quel gruppo di case rivestite in cortina di mattoni, contenute in una geometria solida semplice, senza tanti giochi di balconi sporgenti, e con il tetto che segue  un’unica linea di pendenza dall’altezza di un piano a quella massima di otto piani. Averne costruiti di più alti mi sembra sia stato uno sbaglio.

Ritengo comunque che la città sia un organismo vivo difficile da ingabbiare in un disegno definito una volta per tutte. Le variazioni apportate derivano da scelte economiche forse inevitabili. Ad esempio il centro commerciale, posto nel fulcro del “Ventaglio” è stato orientato con il fronte verso il quartiere esterno, molto più popoloso. Così l’attività commerciale interna al quartiere non ha retto la concorrenza. Si poteva evitare forse, che il quartiere perdesse quella vivacità determinata dalla presenza di attività commerciali integrate alla struttura residenziale.
Per il resto il quartiere si presenta bene. È tenuto pulito, la gente si comporta in modo educato, curando i giardini e gli spazi comuni. Io dopo aver traversato una periferia romana fortemente degradata, ne sono rimasto  piacevolmente sorpreso e ammirato. Ma questo è merito dei suoi abitanti che si sono organizzati in difesa del proprio quartiere e di conseguenza della propria città. A questi vanno i miei complimenti insieme agli auguri di successo per gl’ impegni futuri.

Roberto Maestro
Roma 18 1 2010

 

 

 

Plastici dei progetti iniziali


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Una delle alternative al progetto definitivo


Plastico di studio della versione definitiva

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UN PROGETTO LUNGO UN SECOLO

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Un libro sull’opera architettonica dello Studio Passarelli

di Giuseppe Strappa

in “Corriere della Sera” del 11.04.206

Vera epopea architettonico-familiare che accompagna per intero la formazione della Roma moderna, la ricerca dello Studio Passarelli ha captato, per un secolo, i cambiamenti del tempo che scorre attraverso un eclettismo versatile e vorace, pienamente immerso nella pratica, nel tumulto concreto della città e dell’esistenza che si trasforma.
Un ponderoso volume appena uscito per i tipi dell’Electa e curato da Ruggero Lenci, documenta quest’opera secolare e la sua incredibile diffusione in ogni angolo della città.
La storia inizia nel 1899, quando il fondatore e capostipite Tullio, sulla scia del maestro Gaetano Kock, costruisce l’Istituto De Merode in piazza di Spagna e poi una serie di solide costruzioni neoromaniche: le chiese di S.Teresa a corso d’Italia, di S. Camillo in via Piemonte, dei Monfortani in via Sardegna. Opere dove l’adesione ad una lingua comune permette l’immediata comprensione dell’innovazione individuale. Lo dimostra l’esempio, straordinario, della Borsa in piazza di Pietra, a ridosso delle colonne, esposte come una reliquia, del Tempio d’Adriano. Qui lo spazio del cortile centrale, annodato dalla copertura trasparente, si trasforma in nucleo spaziale dell’edificio, interpretando uno dei processi fondamentali del passaggio al moderno nell’architettura romana.
Da allora, in un viaggio irto di pericoli che attraversa gli anni del barocchetto, del razionalismo,  del boom edilizio e arriva ai nostri giorni, i Passarelli riescono a non naufragare nel pragmatismo sbrigativo dei grandi studi professionali.  Al contrario, un’ingegnosa disponibilità permette loro, in qualche caso, di comprendere appieno lo spirito del tempo e darne un’espressione folgorante.
Succede nel ’50 quando, con  Paniconi e Pediconi, realizzano quella sede dell’IMI in via delle Quattro Fontane che rimane un esempio d’integrazione non mimetica del moderno nel tessuto consolidato.
E poi nel ‘64, quando, in via Campania, a ridosso delle mura Aureliane, producono un intervento imprevedibile, di segno opposto, considerato tra i capolavori assoluti della Roma contemporanea, fatto di discordanze e rotture, di solidi volumi assemblati su un prisma di vetro. “Schönberg a via Campania”, ne saluta l’apparizione Bruno Zevi, entusiasta.
Quest’ acrobatica apertura al molteplice permette di assecondare le richieste di committenze diversissime, ma anche di accogliere i tanti contributi che si fondono nei loro progetti: dei Quaroni, Piccinato, Anselmi, degli studi Valle e Transit.
Come mostrano le immagini in sequenza del libro, la vicenda dei Passarelli, esposta ai conflitti e agli scacchi di un mondo contraddittorio, non si svolge (non può svolgersi) in modo lineare. Distanti dal timone della teoria, ma anche liberi dai suoi gravami, Tullio, Vincenzo, Fausto, Lucio sono riusciti, a volte, dove molti sussiegosi pensatori hanno fallito: a cogliere l’attimo senza perderlo in generalizzazioni, convinti che non esista una sola verità e che la strada, in architettura come nella vita, possa anche procedere per intuizioni, discontinuità e frammenti.

Commento ad una foto aerea del settore urbano Casilino. 1970

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da: Alberto Gatti, Studio del Piano Quadro per il settore Casilino e suo inserimento nel sistema delle previsioni per le zone orientali della città, ed. Capitolium, Roma 1970.

Essa mostra la situazione attuale dell’edificazione su questa parte del territorio, quale si è venuta a creare in conseguenza dell’attuarsi di diversi tipi di urbanizzazione nel paesaggio suggestivo dell’Agro Romano.
L’analisi di questa immagine e la presa di coscienza che ne deriva dovranno costituire riferimento costante e remora per ogni singolo provvedimento che sarà preso al fine di realizzare le singole previsioni del nuovo piano regolatore, infatti essa mostra, con allarmante evidenza, come operazioni non programmate e coordinate nel loro attuarsi possano condurre ad una totale contestazione di qualsivoglia impianto urbanistico.

Essa dimostra l’imprescindibilità del metodo e della disciplina del Piano Quadro. Lo sviluppo della città è quivi avvenuto per episodi spesso contemporanei, ma non tra loro coordinati, né relazionati alle reti infrastrutturali urbane.

I vari interventi risultano disseminati in conseguenza di fatti eterogenei, che hanno diversamente condizionato le differenti forme di iniziativa; i criteri delle scelte e le ragioni delle forme, intuibili spesso con chiarezza nella complessità del fenomeno urbano, qui non lo sono.
L’esame della fotografia ci consente di distinguere i caratteri delle varie zone che costituiscono le isole di residenza, che sono sparse nel settore non certamente come era stato previsto dal P.R.’31, nel quale si può leggere una ipotesi di sviluppo urbano di tipo continuo, lungo fasce di equidistanza dal centro.

La città non si è sviluppata a « macchia d’olio », come sostenuto da una critica ribadita quanto infondata, in tal caso la legge di accrescimento, che evidentemente non condividiamo, avrebbe avuto però una sua logica, una sua coerenza e la città quindi una sua forma. Ciò che possiamo riscontrare è la presenza di situazioni tutte singolari ed autonome, che sono distinte, non in rapporto ad un unitario programma urbanistico e quindi a specifiche esigenze locali, ma direi, sono del tutto preterintenzionali.
Alcune zone sono dotate di piani particolareggiati che occupano aree qualsiasi; essi rivelano un tentativo di ordine formale all’interno, ma nessun motivo alla loro ubicazione. Tra questi alcuni prevedono, in prevalenza, l’edificazione attraverso certi tipi che sono venuti a corrispondere per caso alle richieste delle cooperative edilizie, quali le « palazzine », altri invece di imprese di costruzione, quali gli « intensivi », le cui dimensioni peraltro, come si vede nel quartiere Don Bosco a sud, superano quelle dei lotti, pur essendo ad essi riferite.

Alcune zone sono realizzate da enti pubblici; di esse alcuni hanno case tutte uguali, come l’insediamento I.A.C.P. di Villa dei Gordiani, tra la ferrovia e la via Prenestina; altre invece hanno case tutte di¬verse, come quello di Torre Spaccata a sud della Casilina. Alcune, come il quartiere INA-Casa Tiburtino a nord, presentano un disegno unitario seppur inspiegabilmente distorto; altre, come il quartiere INA-Casa Tuscolano a sud, presentano grossi frammenti a contatto e in antitesi, ed entrambi ignorano i relativi Piani Particolareggiati.

Altre zone poi sono quelle costituite dai nuclei edilizi e destinate alla ristrutturazione; sono borgate senza piano sorte spontaneamente attorno a centri di interesse di lavoro o di traffico sparsi sul territorio; sono realizzati m prevalenza con edifici plurifamiliari che, non si sa perché, sono chiamati “villini”, tra questi evidenti Tor Sapienza e Torre Maura verso est.
Altre zone ancora sono quelle occupate dall’abusivismo degli immigrati [immigrazione dalle zone depresse dell’Italia anni ‘60]; esse sono ubicate nella maggior parte verso ovest a lambire i margini dell’aggregato urbano, lungo la ferrovia e gli acquedotti; sono costituiti di vasti gruppi di baracche privi di servizi, ma rappresentano un tipo di urbanizzazione da considerare, per il tipo di vita associata che suscitano, seppur ad infimo livello.

Nell’ampia varietà di questo mosaico, che contiene ulteriori differenze rappresentate tra l’altro dal relativo grado di centralità, accessibilità e densità delle singole aree residenziali, quali sono le possibilità di scelta offerte ai cittadini di Roma? Chi ama vivere nella casa individuale e coltivare il proprio giardino, oppure chi preferisce il piccolo alloggio inserito nell’aggregato edilizio, dotato dei servizi comuni, dove troveranno la loro abitazione?

Analizzando questa fotografia, non appare alcuna composizione urbanistica a scala adeguata, cioè a questa scala, di aree distinte per tipi edilizi corrispondenti ad una gamma di richieste, che ne giustifichi l’adozione in rapporto a un ipotetico parametro sociologico, economico, orografico ecc.
Come non risulta una suddivisione in zone destinate e quindi caratterizzate per le varie funzioni urbane, la residenza, la produzione, la direzionalità., le attrezzature per la vita “associata e per il tempo libero; né il tracciato di una rete viaria che abbia un suo intellegibile  svolgimento   sul  territorio  ed  una  chiara  classificazione   tipologica e che non sia ancora quello delle centripete vie consolari.

Unica linea continua che si può rilevare è quella meridiana visibile al centro, essa corrisponde alla strada marginale del vecchio Piano Regolatore, al di là della quale si hanno, tuttavia, nuclei residenziali organizzati, anche di iniziativa pubblica.

E’ evidente, in questo settore della città, la gravità della carenza di un disegno e la insufficienza delle indicazioni di un piano regolatore pur dettagliato quale quello del 1931, come anche la impossibilità di attuazione urbanistica, se il piano stesso non si articoli in programmi precisi elaborati scientificamente, controllati nella loro attuazione e verificati nella loro rispondenza.

Un tale tipo di sviluppo senza disegno è da considerare infine non soltanto per le condizioni di vita, cui costringe una popolazione, ma anche per i problemi che pone e per le soluzioni che esclude, nel momento in cui, presa coscienza della situazione si decida, non dico di trasformare una massa di insediamenti in un’organica trancia di città, ma soltanto di operare i completamenti e le ristrutturazioni necessari ed i reperimenti indilazionabili delle aree per i servizi primari, che risultano quasi del tutto assenti.

Parlando di carenza di un disegno non mi riferisco soltanto al significato grafico della parola, ma anche a quello programmatico, infatti ciò che colpisce nel considerare questa immagine e nel raffrontarla con quelle simili dì altre città è l’assenza di determinazioni che abbiano una loro chiara intenzionalità e finalità urbanistico, l’assenza di un atto di volontà pianificatrice.

Vediamo forme simili che rappresentano cose diverse e al contrario forme diverse che appartengono a cose simili: edifici destinati a rispondere al medesimo scopo nella stessa misura, cioè, per esempio, a contenere alloggi tutti di uguale taglio, configurarsi a scacchiera, a lisca di pesce, a cortile chiuso, a sciame ortogonale o poligonale e in mille altri modi e vediamo d’altra parte edifici commerciali o amministrativi, scuole, cliniche o cinematografi contenuti, ad esempio, entro il rigido schema della palazzina. Le differenze volumetriche che rileviamo non dipendono cioè da una differenza di programma, ma solo da casuali gradi di libertà.
I fatti che emergono nel tessuto urbano delle altre città, o di altre zone della nostra, sono spesso cospicui, ma derivano da ragioni positive individuabili al di là del gusto del singolo operatore.

Nell’ambito di un perimetro catastale e guardando solo all’interno, egli ha qui impresso il suo segno, spesso incompiuto e sempre insignificante, e ciò che resta più evidente è il perimetro stesso, che circoscrive una gratuita composizione, suggerendo direzioni e allineamenti che poi non trovano spiegazioni nel contesto urbano.

La città si fa nella storia ed ogni epoca interviene in continua successione e concreta le sue concezioni in forme che le sono proprie, così si viene a formare, per fasi riconoscibili, il tessuto urbano, seppur con molti ritorni e contaminazioni.

La scelta dei tipi di residenza risulta chiara ogni volta e così la serie compatta delle zone ad essa riservate o inibite; ed oltre la residenza, i grandi spazi ed i grandi impianti per la comunità, la cui gamma si amplia sempre più nel corso della realizzazione urbana.

L’organismo per l’assemblea religiosa, il palazzo dell’autorità civile, lo spazio libero dell’incontro, dapprima, poi la caserma, il convento, l’ospedale, la scuola, il museo, la biblioteca, il teatro, il parco, la stazione e la fabbrica e poi gli uffici, i magazzini, gli impianti sportivi, le installazioni tecnologiche e così via, dalla massa omogenea delle residenze, si profilano nell’immagine urbana forme preminenti ed autonome, che divengono monumenti e che esprimono la collettività esaltandone i mutevoli ideali.

Infine l’interesse illuministico e razionalistico affronta la residenza e quindi anch’essa si disarticola dalla maglia viaria per rispondere alle nuove esigenze che si propongono, cioè, ad esempio, l’apertura dei corpi di fabbrica dallo schema classico verso l’orientamento elio-termico e poi verso la creazione degli spazi comuni ed infine verso le dimensioni che corrispondono alle richieste delle nuove organizzazioni produttive, tecnologiche e associative.

Quali riscontri trova questo discorso nella immagine della città che stiamo esaminando?

Si rilevano certamente alcune forme, le più leggibili però sono quelle incongrue di due dei forti disposti in corona di difesa attorno alla città e per la prima volta aggrediti dall’incontenibile avanzata edilizia; le forme delle case sono anch’esse evidenti, non è difficile, però rilevare come le più moderne sono proprio quelle a cortile chiuso come quelle della città vecchia.

Mi domando a questo punto se ha un senso sottoporre a un’analisi critica l’immagine di una città, ma la domanda mi si ribalta: ha forse un senso non operare una verifica della realtà che assumono le nostre previsioni urbanistiche?

In particolare, ricordando che il P.R. ’31 prevedeva nel settore ampi parchi pubblici, che Centocelle era destinata a “casette a schiera” e la fascia orientale ad “orti giardini”, mentre oggi non si riesce a reperirvi frammenti di aree per i servizi essenziali.