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COSTRUZIONE, TRASFORMAZIONE, ROVINA

COSTRUZIONE,  TRASFORMAZIONE,  ROVINA

prof. Giuseppe Strappa

L’uomo che lavora, che prega, che abita, struttura (organizza cioè attraverso la costruzione) intorno a sé uno spazio.

Per questo ogni uomo tende ad essere, in un certo senso, architetto dello spazio che vive.

Dalla vita, e dal moto che ad essa è sempre associato, deriva l’ordine riconoscibile degli spazi e dell’ordinato disporsi del materiale ad essi complementare.

La forma di ogni singola costruzione, degli aggregati edilizi, del territorio stesso, costituisce il punto di equilibrio di componenti in movimento che possono essere riassunte, semplificando sinteticamente, dalla nozione di moto e da quella, strettamente correlata, di trasformazione.

L’architettura costituisce, in questo senso, la rappresentazione di aspetti, tipici e tipizzati dall’ esperienza  collettiva, della vita dell’uomo

La forma è pertanto l’aspetto visibile di una struttura di relazioni dinamiche, della gerarchizzazione di funzioni ed elementi costruttivi, del legame tra spazi legati dal nesso di percorsi, soste, gesti convenzionali o rituali.

Ma il costruttore che disegna o immagina un edificio, non è solo di fronte alla complessità dei problemi che l’opera propone: egli parte già da un’esperienza collettiva storicizzata dal consolidarsi nel tempo degli spazi che organizza intorno a se l’uomo che prega (la chiesa, la moschea, la sinagoga), l’uomo che lavora (la fabbrica,la fattoria, l’ufficio), l’uomo che studia (la scuola, la biblioteca, lo studio).

Lo spazio che il costruttore organizza non contiene, dunque, che in piccola parte l’ apporto critico e individuale di chi deve risolvere un problema: egli opera piuttosto, coscientemente o spontaneamente, seguendo il grande flusso del tempo che origina le forme, le trans-forma, le aggiorna di continuo in base a caratteri che finiscono per divenire tipici di un intorno civile e di una fase storica.

Ma il portato della storia sarebbe solo distesa di frammenti muti senza un centro che li raccolga e li ordini, senza la sintesi che unifica in pochi gesti costruttivi la complessità dell’esperienza e della memoria, unite alla sfida delle nuove richieste che ogni nuova costruzione impone. L’aspirazione a questa sintesi unificante, che percorre anche le fasi più critiche dell’architettura, si esprime attraverso la nozione di organismo.

La vita degli organismi edilizi, il loro formarsi e modificarsi nel corso della storia, fa parte di una grande corrente di trasformazioni che modifica la forma degli edifici, degli aggregati urbani, delle città, del territorio. Come dimostrano le stesse leggi del moto, lo stato di equilibrio che caratterizza gli edifici in una fase della trasformazione della materia, è un caso particolare tra gli infiniti possibili: l‘edificio costruito (e più in generale la realtà costruita) che noi tendiamo a considerare nelle sue componenti stabili (la statica, la razionale distribuzione degli spazi, la leggibilità fissata dalle scelte estetiche) è in realtà uno stato di provvisorio equilibrio all’interno di questo flusso di modificazioni. A partire dalla sua edificazione, che può essere intesa come trasformazione della materia che diviene dapprima materiale, poi elemento della costruzione fino ad aggregarsi in strutture e sistemi a comporre, infine, l’organismo architettonico.

L’edificio, in questo senso, non è un oggetto, ma un processo che prevede successivi cambiamenti di stato:

la costruzione, come cambiamento di stato della materia trasformata in materiale e poi, per gradi successivi, organismo compiuto;

la prima fase di vita dell’edificio, come verifica (o collaudo) e conseguente adattamento, completamento e finitura (arredi ecc.);

la seconda fase di vita, come processo continuo di trasformazioni e aggiornamenti in relazione alle condizioni dell’intorno civile;

la rovina, come estremo cambiamento di stato e ritorno dell’organismo, in un processo inverso a quello della costruzione, a strutture disaggregate (che hanno cioè perso gli interni legami di necessità), elementi, materiale, materia.

Quest’ultima fase di progressivo ritorno allo stato di natura, che l’uomo cerca di allontanare attraverso il restauro, il ripristino, il riuso, la manutenzione, mai considerata e prevista nel progetto, è quella che rende riconoscibile con maggiore evidenza il carattere dell’edificio, che ne testimonia la grandezza (la capacità di rovinare processualmente) o la fragilità (statica, tipologica, estetica, in una parola civile).

POESIA DI MARIO RIDOLFI

Mostre all’Accademia di San Luca e alla Calcografia Nazionale

POESIA DI MARIO RIDOLFI

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 3.10.2005

Mario Ridolfi amava appassionatamente l’architettura e la identificava con la vita. Sapeva che poteva essere compresa e consumata, ma che, inevitabilmente sfuggiva ad ogni tentativo di ingabbiarla, ad ogni teoria generale.
Forse per questo la sua opera sembra dirci che, dell’immensa complessità del mondo costruito, il lavoro d’ogni architetto è una trascurabile monade, ma anche che  ogni edificio può racchiudere, di questa complessità, l’essenziale. La comprensione di principi formativi condivise, ad esewmpio, e la poesia della loro interpretazione.
Sembra dimostrarlo la  mostra curata da Enrico Valeriani (organizzata dall’Accademia di S. Luca, dalla DARC, dall’Istituto Nazionale per la Grafica) che indica come, già nel ’29, il progetto di laurea di Ridolfi per una colonia Marina a Castel Fusano, col suo delicato rigore, annunciasse il carattere della ricerca futura: non lo stile “classico modernizzato”, com’è stato detto, ma l’adesione concreta ad un processo di semplificazione delle forme, una modernità “incontrata” più che ricercata, che diviene linguaggio e si distilla, poi, in poetica  personalissima, eppure perfettamente aderente al panorama romano.
Le sue poste di piazza Bologna terminate nel ’35, rifuggendo  dall’ostentata durezza di tante opere contemporanee, piegavano il tema della parete muraria, continua e massiva, in un’onda di travertino che carezza delicatamente lo spazio della città e il fiume della vita che vi fluisce.
Finita la guerra, quando altri architetti distruggevano i progetti eseguiti nel ventennio, Ridolfi recuperava lo smisurato patrimonio dei propri disegni pazientemente accumulato. Nasceva, da qui, il nocciolo di quel Manuale dell’architetto che sembrava la naturale traduzione di un sapere tecnico artigianale nella lingua della produzione industriale, nel mondo della Ricostruzione. In quegli anni, in stretto sodalizio con Wolfgang Frankl, costruiva molto: palazzine, scuole, villini. Edifici modernissimi, in calcestruzzo armato, che, pure, sembravano stare lì da sempre. A Roma, ad Ivrea, in Puglia, soprattutto a Terni, dove nel ’66 si era costruita una strana casa a forma di stella con dieci punte, Casa Lina. Una costruzione a pianta centrale come una chiesa, dal disegno apparentemente ingenuo, tracciato, come ha scritto Franco Purini  “come se si stesse imparando per la prima volta a progettare”. Questa costruzione, che a me sembrava inabitabile ma che Ridolfi abitò per il resto della vita, divenne progressivamente il suo eremo e, insieme, luogo mitico di pellegrinaggio per un’intera generazione di architetti. Quando lo andavo a trovare, con una bottiglia di vino buono,  parlava per ore di come intorno ad un particolare costruttivo si avvolgesse e ruotasse l’intera complessità del progetto, di come questa complessità si potesse sciogliere nel modo più diretto, seguendo lo spirito dei materiali, come sa ogni artigiano che conosce il proprio mestiere, nella forma più evidente, necessaria, felice. Parlava, rapito, della bellezza e del calore della “sua” pietra sponga, materiale ridolfiano d’elezione, poroso, tormentato da cavità che sembrano assorbire e restituire, trasformata, la luce del sole. Io che lo ascoltavo, vedevo nei suoi disegni, palinsesti resi criptici da strati di pentimenti e cancellature, la profezia di una nuova architettura.
In un periodo in bilico tra spettacolari rotture, dilagare dell’International Style, esaltazione della creatività individuale, Ridolfi sembrava aver intuito la necessità e la poesia del limite: come la lotta contro ogni regola si sarebbe tradotta in qualunquismo, nella perdita d’ogni valore, compresa la custodia di un sapere tecnico, di un’arte del costruire in pietra e mattoni che era stata, per secoli, il fondamento, materiale e concreto, del carattere delle nostre città. Perché l’opera di Ridolfi del dopoguerra, spesso identificata col clima del neorealismo, non può essere compresa che all’interno della grande battaglia culturale che la sinistra italiana condusse in difesa dei centri storici. Una battaglia che oggi si direbbe rimossa, ma che era, allora, anche una proposta di continuità, di comprensione profonda del carattere organico della nostra cultura edilizia e delle condizioni di crisi introdotte dai nuovi sistemi di produzione cui Ridolfi dava risposte aggiornate, originali nel senso letterale del termine, come ritorno all’origine dei problemi e delle cose. Ponendo domande elementari, primarie, Ridolfi sembrava indicare anche una strada, divenire il volano di trasmissione di una cultura che si andava perdendo, in questo simile al bambino che, nell’Andrej Rublev di Tarkovsky, ultimo depositario di una tecnica perduta e quindi nuovissima, era ancora capace di trasmettere ai propri concittadini l’arte di costruire una nuova campana, segno della vita civile che riprende e continua.

Mario Ridolfi architetto
Palazzo Carpegna-Accademia di San Luca
Palazzo della Calcografia – Istituto Nazionale per la Grafica.
4 ottobre – 7 dicembre 2005
tel. 06 6798848

OPERE ROMANE DI MARIO RIDOLFI

Ufficio postale di piazza Bologna (1932-35)
Palazzina in viale di Villa Massimo, 39 (1934-36)
Palazzina in via San Valentino, 21 (1936)
Sopraelevazione del villino Alatri in via Paisiello,38 (1948-49)
Palazzina in via G.B. De Rossi,12 (1950-51)
Palazzina in via Marco Polo,96 (1951-52)
Abitazioni INA Casa al Quartiere Tiburtino in via Crispolti (con L. Quaroni ed altri)
Palazzina in via Lusitania,29 (1953)
Case in linea tra viale Etiopia, via Tripolitania, via Adua (1949-54 e 1957-60)
Sopraelevazione del villino Astaldi in via N. Porpora (1954-55)
Palazzina in via Vulci,9 (1959-60)