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ARCHITETTURA DE’ NOANTRI – LE CHIESE DELLA CRISI

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di Giuseppe Strappa

in “Corriere della Sera” del 10. 8. 2013

Gli architetti tedeschi della Germania appena distrutta dalla guerra costruirono chiese straordinarie, povere e semplicissime, tirate su con pochi mezzi, spesso reimpiegando le macerie e i materiali delle città devastate dai bombardamenti. Il dolore delle distruzioni, la cognizione delle colpe che emergevano, laceranti, dalla cortina di retorica del regime, insieme alla mancanza di mezzi, fecero riscoprire ed esprimere la consolazione della fede, quella semplice e diretta delle origini del Cristianesimo. Sorsero chiese «d’emergenza», spoglie e intense, come quelle costruite da Otto Bartring, disadorne e struggenti come la chiesa in calcestruzzo a vista che Egon Eiermann costruì a Pforzheim.

Anche in condizioni meno tragiche lo spirito di povertà ha dato origine a spazi sacri sorprendenti, come la nuda cappella del monastero di Sint Benedictusberg costruita dal monaco architetto Hans van der Laan, modernissimo inno alla fede fatto quasi di nulla, solo del semplice, armonico ritmo di pilastri in muratura.

La storia mostra come anche la mancanza di risorse, e non solo l’opulenza barocca o la ricchezza del Rinascimento, abbia prodotto grandi chiese.

Certo, il mondo contemporaneo, quello della comunicazione aggressiva e ridondante, ha le sue esigenze. Ma in questo mondo complesso e incerto la Chiesa non dovrebbe indicare una strada? Distinguere tra la forma del messaggio cristiano e quella della pubblicità?

Ci si chiede, allora, come mai nessuna delle nuove chiese costruite nelle periferie romane al tempo della crisi, con bilanci limitatissimi, abbia scelto la strada, pure architettonicamente nobilissima, del gesto elementare e immediato che indica l’essenza delle cose e le esprime con parsimonia di mezzi. I nuovi edifici per il culto sembrano invece, con rare eccezioni, l’esito un po’ goffo di una sorta di «vorrei ma non posso» architettonico. Come se una chiesa costruita con poche risorse debba essere uguale a una ricca, ma di qualità ridotta.

Il loro modello ideale sembra la chiesa, elegante quanto antieconomica, costruita a Tor Tre Teste per l’Anno Santo. Economia, in architettura, non significa solo risparmio: è proporzione, necessità, espressione della collaborazione tra le parti alla vita dell’edificio. Con le sue vele autonome e indipendenti, l’opera di Meier sembra contraddire quella solidarietà e collaborazione tra le parti che è anche, ma non solo, riduzione di costi: è uno spreco nella forma, prima che nei bilanci.

Da allora, nonostante gli investimenti fossero stati ridotti al minimo, abbiamo assistito a una parata di mezze sfere, pizzi, giochi di volumi inutilmente estetizzanti, spesso indigesti, col sostegno di una critica del volemosebbene che sa poco di amore cristiano e molto di consociativismo.

Possibile che non ci sia modo di costruire, da noi, spazi sacri autenticamente contemporanei, cioè immersi nel proprio tempo, nelle condizioni di crisi e di necessità che chiederebbe una saggia, religiosa, innovativa proporzione tra mezzi e fini?

Ho idea che alla prossima chiesa del famolo strano qualcuno perderà la pazienza. Forse proprio papa Francesco.

IL FUTURO DEI CENTRI MINORI LAZIALI

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Intervento di riqualificazione urbana e servizi a S.Polo dei Cavalieri. Tesi di laurea di A. Bruccolerei

QUEI FIGLI DI UN DIO MINORE

di Giuseppe Strappa,  in «Corriere della Sera» del 4  agosto 2013

Se si superano le ultime, terribili borgate intorno a Roma, dove la periferia compatta si trasforma in un pulviscolo insensato di edifici che si affollano uno accanto all’altro, comincia ad apparire una campagna ancora decorosamente coltivata. Emerge, sullo sfondo dei campi, la sagoma di paesi che sembrano provenire dal passato, isolati da valloni alberati nei quali scorrono corsi d’acqua. Microcosmi urbani dall’architettura familiare che non sembrano coinvolti nel naufragio del territorio, appartati come sono sui crinali dei Monti Ernici, Simbruini, Sabini.

Eppure, entrando tra le mura cariche di storia, ci si accorge della loro progressiva rovina, della vita che da qui sembra fuggire e disperdersi. A volte è un nuovo melting pot etnico e sociale, per fortuna, a ripopolare le case affittate a basso costo, a integrare una popolazione composta ormai soprattutto da anziani. Ma dovunque l’abbandono sembra rallentato solo dalle “seconde case”, antiche abitazioni spesso oggetto di alterazioni striscianti, continue, incontrollate, che finiscono per stravolgerne il senso e la forma.

Per questi “centri minori” non sembra esserci, in realtà, futuro.

Ci si chiede, tuttavia, come sia possibile che si preferisca vivere nel mezzo di un dissennato sprawl urbano di casette, palazzine, capannoni cresciuti senza ordine, piuttosto che abitare poco oltre, in questi luoghi dove le piazze sono ancora belle, l’aria buona e i figli potrebbero crescere lontano dal caos e dall’inquinamento.

Le risposte sono sempre le stesse: la distanza da Roma e dal posto di lavoro dilatata dall’inefficienza dei trasporti; la carenza di servizi moderni, ritenuti incompatibili con la tutela dell’edilizia storica.

Proprio in tempo di crisi, credo che varrebbe la pena investire (molto) per risolvere questi problemi. Si dovrebbe capire che i centri minori sono una grande risorsa che permetterebbe di decongestionare la Capitale, fornire abitazioni a basso costo, conservare un patrimonio storico prezioso, permettere, soprattutto, un ambiente di vita migliore. Senza ulteriore consumo di territorio.

I paesi laziali potrebbero essere le nostre new town, le nuove smart cities di una cultura che ha sempre prodotto città intelligenti, oltre che bellissime. Una svolta antropica che potrebbe muovere una nuova economia, alimentata da piani di accessibilità (scale mobili, ascensori urbani), nuove tecnologie, moderne infrastrutture ferroviarie che leghino in rete i nodi del territorio, come avviene nell’hinterland delle grandi città europee.

Va trovato, anche, un nuovo modello di tutela dell’edilizia storica perché il problema non è solo la sua conservazione inerte, come in un museo. Occorre individuare trasformazioni “congruenti”, basate sul dato innegabile che una città, come ogni organismo vivente, deve trasformarsi di continuo per sopravvivere.

E’ proprio necessario, ad esempio, costruire nuovi municipi, o servizi pubblici al di fuori dei centri storici, svuotandoli di vita? Gli edifici più rilevanti sono sempre nati, nella città italiana, da trasformazioni, dalla fusione sapiente di edifici riuniti a formare palazzi e conventi. Non si potrebbe continuare questo processo, con attenzione alla storia ma anche alle domande della vita contemporanea?

Louis Kahn: the brick whisperer

by Oliver Wainwright

The Guardian, Tuesday 26 February 2013

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‘Ruins in reverse’ … the National Assembly in Dhaka.

Louis Kahn used to tell his students: if you are ever stuck for inspiration, ask your materials for advice. “You say to a brick, ‘What do you want, brick?’ And brick says to you, ‘I like an arch.’ And you say to brick, ‘Look, I want one, too, but arches are expensive and I can use a concrete lintel.’ And then you say: ‘What do you think of that, brick?’ Brick says: ‘I like an arch.'”

Believing his materials had a stubborn sense of their own destiny was one of the many quirks of this oddball architect, who died of a heart attack in a toilet at New York’s Penn Station in 1974. His body went unclaimed for four days, as the much praised 2003 film My Architect, made by his son Nathaniel, detailed. A vast new retrospective of Kahn’s work has just opened at the extravagantly contoured Vitra Design Museum in the German town of Weil am Rhein. Kahn, a conjuror of strange, monumental forms that have the gravity of ancient ruins, was one of the most influential architects of the 20th century – yet, even after that film, he is still one of the least known. Why?

“His strange, quasi-religious utterances were all rather irritating to me and my generation,” says the exhibition’s curator, Stanislaus von Moos, an art historian who has produced definitive tomes on Le Corbusier and Robert Venturi. “He is very difficult to characterise. I had always admired his work, but found it a bit intimidating.”

Born in Estonia in 1901, the Jewish American brick-whisperer is most famous for a series of enormous institutional complexes that stand in swelteringly hot places: the laboratories of the Salk Institute in California; the Institute of Management at Ahmedabad in India, with its dynamic brick colonnades; and the brooding concrete fortress of the National Assembly in Dhaka, Bangladesh.

For Kahn, form did not necessarily follow function; nor did his projects celebrate all the new possibilities of industrial materials. Created from monolithic masonry, and drawing on primary geometries with great circles, semi-circles and triangles sliced out of their weighty walls, his buildings exude a timeless and sometimes sinister presence. They look like the hastily vacated remnants of a future cosmic civilisation.

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Primary geometry … Kahn’s Salk Institute in California.

Much has been made of Kahn’s spiritual dimension, his ability to channel the ancients, but this exhibition, which arrives in London next year, strives to show the many other sides to his work. The result is a vivid picture of a curious man, with his obsessions – from utopian urban-planning to scientific discoveries of molecular structures – all brought to life through his personal ephemera and correspondence.

The show begins by placing Kahn in the context of Philadelphia. He arrived there as Leiser-Itze Schmulowsky, the child of poverty-stricken immigrants. Painfully near-sighted and severely scarred by facial burns, he was drawn to architecture at an early age, witnessing the radical remodelling of his city at first hand, as the scenic Benjamin Franklin Parkway sliced an axis of museums diagonally through its grid.

We see the Philadelphia of the 1950s as a laboratory for urbanism, sparking Kahn’s (unrealised) vision for the city as a network of pedestrian boulevards. He imagined all traffic banished to a ring of cylindrical multi-storey car parks each the size of the colosseum – foreshadowing our contemporary park-and-ride culture. The structures have a hi-tech, crystalline quality, revealing that fascination with the natural sciences and the beginnings of his search for geometric order.

It is an obsession vividly demonstrated by his model for City Hall Tower, a spiralling double helix based on Francis Crick and James Watson’s discovery of DNA in 1953. Far ahead of its time, it was never built, but would go on to inspire the clustered tower structures of the Japanese Metabolism movement in the 1960s and 70s, as well as Norman Foster’s more recent triangular-patterned Hearst Tower in New York.

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Louis Kahn (right) in front of a model of the City Tower Project in an exhibition at Cornell University, New York, February 1958

Never one to try too hard to ingratiate himself with his clients, it wasn’t until he was in his early 50s that Kahn completed his first major building: the rigidly cubic Yale University Art Gallery. By the time he was 60, this short man who wore loose bowties and combed his hair forward to hide his baldness had risen to international prominence, building the Richards Medical Laboratories at the University of Pennsylvania. Comprising stacked towers of column-free laboratories, this was the first of his projects to articulate the difference between “served and servant spaces” – the latter being stairwells, airducts and other supportive networks. He housed these in separate, chimney-like structures echoing the towers of San Gimignano in Italy he had sketched a few years earlier.

These energetic pastel drawings depict ruined temples across the classical world, from Corinth to Rome, and Luxor to Giza. They dot the exhibition, alongside postcards home in which Kahn writes of long hours watching the changing light play across the stones. It was these trips, undertaken in the 1950s, that led him to believe that the essence of architecture was only truly revealed in its ruined state: devoid of function, a building could then speak solely of how it was made. This realisation came to define his most important work, completed over the next 20 years.

Kahn would describe his building sites as “ruins in reverse”. In Dhaka, this served him particularly well: legend has it that, during the Bangladesh liberation war of 1971, bombers spared the construction site of his National Assembly, taking the mysterious cellular complex to be the ruins of an ancient historic site. But, as the exhibition stresses, such layered shells were no aesthetic folly or indulgent fetish for the archaic. The Dhaka building’s perforated walls are a vital tool, protecting the interior spaces from direct sunlight and allowing passive ventilation. As Von Moos says: “We wanted to show that, behind this facade of neoclassicism and historic revival, he really embedded his buildings in an understanding of the environment.”

There is also some new film footage of his projects, shot by his son Nathaniel. My Architect painted a not altogether sympathetic picture of his father, who left behind three children by three different women. His complex personal life makes the section on his house designs all the more poignant, particularly in the full-scale reconstruction of an entire corner of the seminal cypress-clad Fisher House in Pennsylvania – which includes the very window seat where his three children meet to discuss their estranged father in the film.

Kahn was bankrupt when he died in that toilet at the age of 73, his small Philadelphia practice $500,000 in debt. Why did the body of such an eminent architect, who gave the 20th century some of its most spellbinding buildings, go unclaimed for so long? Apparently, the address in his passport had been mysteriously obliterated. Fortunately, as this show demonstrates, Kahn’s reputation is proving more durable.

Louis Kahn: The Power of Architecture is at the Vitra until August. It comes to the London Design Museum in 2014. Oliver Wainwright travelled courtesy of show sponsor Swarovski.

Il museo dimenticato. Il destino dell’Ufficio Geologico

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di G.Strappa, in «Corriere della Sera» del 15  aprile 2013

di Giuseppe Strappa

L’ingegner Raffaele Canevari era un entusiasta per carattere. Da studente, nel 1849, aveva partecipato alla furiosa difesa di Roma dalle truppe francesi. Con altrettanta passione si era poi gettato nello studio delle costruzioni metalliche che in quegli anni facevano irruzione nella sonnolenta città di Pio IX. Voleva che Roma partecipasse al progresso delle grandi metropoli europee, allo spirito innovatore delle Halles parigine, del Crystal Palace londinese. Realizzava, tra l’ammirazione dei concittadini, ferrovie e ponti sospesi. Poi, appena trasportata la Capitale a Roma, costruì il nuovo Ufficio geologico voluto da Quintino Sella. Fu il suo capolavoro. Soprattutto per la facciata posteriore su largo Santa Susanna, dove si svolge la trama leggera del telaio chiuso da grandi vetrate che sembrano anticipare i temi dell’architettura moderna. E per l’interno, dove i solai, sorretti da esili colonne in ghisa, si avvolgono leggeri intorno allo spazio centrale. L’Ufficio, con le sue eccezionali collezioni di pietre antiche, campioni geologici e paleontologici provenienti dall’intero territorio italiano, divenne uno dei simboli del nuovo Stato unitario.

Nel 1994 si decise di ristrutturarlo.  Si parlava, in quegli anni, di giacimenti culturali, secondo un’orrenda definizione di Gianni De Michelis, e di come il patrimonio pubblico dovesse produrre reddito. Quale occasione migliore? A due passi dalla Stazione Termini, l’edificio poteva diventare una grande attrazione turistica, con le collezioni di pietre antiche capaci di trasmettere il pathos delle costruzioni romane (a partire dalle mura serviane, appena scoperte nel suo sottosuolo), e l’esposizione dei marmi che hanno dato vita alla statuaria e ai sontuosi rivestimenti dell’età imperiale.

Sarebbe bastato integrare con intelligenza le vecchie collezioni di alabastri, brecce, graniti, raccolte dal generale Pescetto, con alcuni dei volti marmorei di consoli, matrone, bassorilievi funerari dei depositi capitolini, per evocare straordinarie storie di metamorfosi. Con molto meno a Parigi il Museo di storia naturale, ottenuto riordinando in modo contemporaneo vecchie collezioni, richiama fiumi di visitatori.

Invece la ristrutturazione non è mai stata completata, le raccolte sono state allontanate, e il reddito, misero, è arrivato dalla vendita dell’edificio alla Fintecna.  Ancora oggi, dopo quasi vent’anni di chiacchiere, e benché le collezioni siano state faticosamente rimesse insieme, non si sa quale sarà il suo destino. Si sta perdendo, così (nonostante il vincolo architettonico, quello archeologico, le denunce di Italia Nostra) l’occasione per creare un fondamentale Museo di scienze della terra che spieghi i grandi cicli di trasformazione della materia in architettura e come il territorio sia il grande alveo che li accoglie, dove la mano dell’uomo ha prodotto opere sorprendenti, ma anche catastrofi epocali.

Proprio quando l’attenzione all’emergenza geologica del nostro fragile territorio dovrebbe entrare a far parte della coscienza comune, essere trasmessa nelle scuole, si cancella uno degli strumenti che potrebbero comunicarne importanza e valore. Per questo disastrato Paese non è un buon segno.